Per completezza di informazione pubblichaimo, senza commentarle, due interviste sul ritiro da Gaza pubblicate dall'UNITA' mercoledi 3 e giovedì 4 agosto 2005.
Di seguito quella più recente, all'accademico palestinese Sari Nusseibeh: "Io palestinese dico, il ritiro è un passo di pace":«Ha ragione il mio amico Abraham Yehoshua: il ritiro da Gaza è una prova di saggezza e di realismo data da Israele e al tempo stesso è un atto che rafforza l'orgoglio e la dignità del popolo palestinese. Condivido quanto da lui detto al suo giornale: il ritiro
da Gaza è un atto di giustizia. E la pace, quella vera, ha nella giustizia uno dei suoi pilastri». Così Sari Nusseibeh, presidente della Università Al Quds di Gerusalemme Est, il più autorevole intellettuale palestinese, da sempre impegnato nel dialogo, risponde all'intervista a l'Unità di Abraham Bet Yehoshua. «Dovremo mettere in conto -riflette Nusseibeh- che i vari gruppi palestinesi cercheranno di appendere il cappello sul ritiro israeliano. Ma questo fa parte del gioco della politica. L'importante è che sui territori evacuati da Israele, laddove sorgevano gli insediamenti ebraici, l'Anp, tutti noi palestinesi, sapremo costruire luoghi di libertà: villaggi, aree agricole, attività industriali che riportino vita e un po' di benessere in quella che è sempre stata una grande prigione a cielo aperto». Il professor Nusseibeh guarda anche al dopo ritiro e a ciò che sta avvenendo in Cisgiordania e a Gerusalemme: «Il ritiro da Gaza -riflette- deve e può essere il nuovo inizio di un negoziato di pace, a patto che Israele non pensi di poter barattare quel ritiro con la definitiva frantumazione territoriale della Cisgiordania e l'annessione di fatto di una parte significativa di territori occupati. Noi vogliamo davvero realizzare una pace fondata sul principio di due Stati, ma uno Stato palestinese indipendente non può risolversi in un insieme di cantoni sperati l'uno dall'altro, inframmezzati da colonie israeliane».
Professor Nusseibeh, in una intervista a l'Unità, Abraham Bet Yehoshua ha parlato dell'imminente ritiro israeliano da Gaza come un risarcimento morale offerto ai palestinesi. Condivide questa affermazione?
«Sì, la condivido. In particolare condivido il giudizio di Yehoshua sugli insediamenti realizzati dopo la Guerra dei Sei giorni: un esercizio di potenza, la ferita più lacerante, l'umiliazione più cocente inflitte ad un popolo sotto occupazione. Riconoscere questa verità storica è tutt'altro che un esercizio intellettuale. È il presupposto per ripensare l'intera impalcatura del processo di pace e raggiungere un equo compromesso che dia soluzione a questo interminabile conflitto».
C'è chi teme che la Striscia evacuata possa trasformarsi nel regno di Hamas.
«Hamas va sfidata e non demonizzata. Va sfidata con le "armi della politica", lottando contro la corruzione, impegnando risorse finanziarie e umane per migliorare le terribili condizioni di vita della popolazione di Gaza; impiantando una politica della vita e dei diritti capace di dare speranza a chi oggi non ne ha e di contrastare così la cultura della morte e della vendetta. Scorciatoie militariste francamente non le ritengo possibili né produttive, il che naturalmente non vuol dire, da parte dell'Autorità nazionale palestinese, subire passivamente le eventuali prove di forza intentate da fazioni armate. Gaza liberata deve divenire "laboratorio" di democrazia per uno Stato in formazione, e non "palestra" di jihad».
Il ritiro da Gaza. E poi?
«Quel "poi" è tutto da realizzare. È un "poi" da conquistare. L'importante è che nessuno si illuda che il percorso di pace possa finire con questo ritiro e non investire anche gli insediamenti in Cisgiordania e gli oltre 240mila israeliani che lì vivono. Sul tappeto vi sono questioni cruciali, una delle quali è qui sotto i nostri occhi...».
Lei si riferisce alla realizzazione del «muro» a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Israele sostiene che si tratta di una barriera necessaria per contrastare gli attacchi terroristici.
«Di difensivo trovo davvero molto poco in un muro che si insinua per decine di chilometri all'interno della West Bank, che tende a separare Gerusalemme dalla Cisgiordania. Il muro rappresenta l'espressione fisica dell'illusione coltivata dalla destra israeliana di poter risolvere la questione palestinese con forzature unilaterali. Il muro, quanto meno per il suo tracciato, è un atto arbitrario, ingiusto, destinato ad alimentare rabbia e frustrazione tra la popolazione palestinese, e su questi sentimenti è impossibile costruire un futuro di pace per ambedue i popoli».
Israele sostiene che un accordo di pace accettabile non può registrare il ritorno ai confini del 1967.
«Discutiamone, ma nessuna forzatura unilaterale. Su questo punto fondamentale deve valere il principio di reciprocità: a realtà territoriali inglobate da Israele devono corrispondere realtà territoriali israeliane che passano allo Stato palestinese. Ciò che è assolutamente inaccettabile da parte nostra è ratificare al tavolo negoziale una politica dei fatti compiuti praticata nel corso degli anni da Israele».
Tra i timori che animano anche gli israeliani favorevoli al ritiro da Gaza è che esso possa spingere i gruppi radicali dell'Intifada a riaprire con la violenza e il terrore un fronte cisgiordano. Lei che è stato uno dei promotori di un appello pubblico per la fine degli attacchi terroristici, come risponde a questo timore?
«Cercando di dimostrare che l'alternativa al terrorismo non è l'immobilismo, l'accettazione rassegnata dell'esistente. Non mi sento affatto sulla difensiva quando dico ai miei studenti e ai tanti giovani palestinesi con cui interloquisco, che la militarizzazione dell'Intifada ha provocato solo danni alla causa palestinese. Non mi sento sulla difensiva quando affermo che uccidere civili inermi non ha nulla a che vedere con una lotta di resistenza. Puntare sulla disobbedienza civile e sulla pratica non violenza non è una resa alla potenza militare israeliana, è l'esatto contrario. Significa rilanciare su basi nuove e più efficaci le ragioni della nostra lotta per uno Stato indipendente a fianco di Israele. È l'intifada della speranza e del coraggio civile. L'unica che può vincere».
Di seguito quella precedente allo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua: «Lasciare Gaza è un atto di giustizia».
Ecco il testo:«È riconoscere che in questo interminabile conflitto che noi israeliani non siamo le sole vittime e che non deteniamo il copyright della sofferenza». A parlare è Abraham Bet Yehoshua, il più autorevole e affermato tra gli scrittori israeliani contemporanei. Lo in-
contriamo nella sua casa-studio di Haifa, la città che più di ogni altra in Israele ha sperimentato la convivenza possibile tra ebrei e arabi israeliani.
Una convivenza che Yehoshua vorrebbe veder proiettata anche nei rapporti tra due popoli. «Gaza totalmente restituita all'Anp di Abu Mazen - rileva lo scrittore - può divenire l'embrione del futuro Stato palestinese; ma perché possa esserlo, Abu Mazen deve mostrarsi più lungimirante del suo predecessore, Yasser Arafat, e non gettare al vento un'occasione irripetibile».
Una sua lettera aperta ai palestinesi di Gaza ha suscitato dibattito e scatenato polemiche in Israele. Perché?
«Perché ho toccato un tasto dolente, un nervo sensibile nella nostra coscienza nazionale: ciò che è stato, ciò che è diventato Israele dopo la vittoriosa Guerra dei Sei giorni del 1967. In quella lettera ho ribadito una mia convinzione maturata da tempo: vale a dire che gli insediamenti israeliani realizzati nei territori occupati rappresentano, al di là delle motivazioni addotte per la loro edificazione, la ferita più dolorosa e crudele che Israele poteva infliggere ai palestinesi».
Il fronte anti-ritiro sostiene che il ritiro da Gaza e lo smantellamento di 21 insediamenti rappresentano un «disarmo» unilaterale da parte israeliana, senza alcuna contropartita da parte palestinese.
«Ma anche la colonizzazione dei territori occupati è stato un atto di forza unilaterale. Vede, in questo interminabile conflitto è più difficile, doloroso per noi israeliani restituire dei territori che ammettere di non essere le sole vittime. La valenza del ritiro da Gaza non risiede tanto e solo in ciò che si smantella: in fondo sono 21 colonie su oltre 150, e ad essere evacuati sono 8.500 coloni su oltre 230mila. Il punto è un altro: questo ritiro pone Israele di fronte alla propria storia e impone una salutare revisione autocritica del passato...».
Una revisione che investe passaggi fondamentali nella storia di Israele, come la sua fondazione e la Guerra dei Sei giorni.
«È così. Dobbiamo avere il coraggio morale e l'onestà intellettuale di sancire una volta per tutte che la nascita di Israele come Stato degli ebrei è anche il frutto di una ferita inferta ai palestinesi; dobbiamo riconoscere che non ci trovavamo, come ebbe a dire Golda Meir, in una "terra senza popolo per un popolo senza terra". Dobbiamo ammettere che la creazione di insediamenti non era dettata da necessità vitali, che spesso coloro che hanno deciso di vivere nelle colonie non mancavano di alloggi a Tel Aviv o a Haifa e che alcuni di loro erano anche proprietari di case. Nonostante ciò, hanno deciso di impossessarsi a forza di nuovi territori e di espropriare i palestinesi non solo della loro terra ma anche dei diritti civili nella loro stessa madrepatria. Sia chiaro: dietro l'iniziativa unilaterale dei profughi ebrei c'era anche la legittima aspirazione a realizzare su un lembo di terra un proprio Stato dove sentirsi finalmente al sicuro dalle persecuzioni antisemite conosciute nella storia. Ma questa iniziativa unilaterale a cui i nostri padri furono costretti diviene illegittima dopo la Guerra dei Sei giorni, quando una vittoria militare in una guerra di difesa - perché tale fu alle origini - venne interpretata da una parte del popolo israeliano e della sua classe dirigente come la leva per realizzare il disegno di Eretz Israel, del Grande Israele. Di conseguenza, solo un'azione unilaterale opposta e contraria può ora porvi rimedio. Per troppo tempo la colonizzazione forzata è stata una sorta di "droga" ideologica e di pratica sul campo di cui la destra oltranzista ha abusato. È ora che Israele si disintossichi».
Nella sua lettera aperta, lei ha anche rivolto un accorato appello ai palestinesi. Di cosa si tratta?
«È l'appello a non commettere un errore di presunzione e di non cadere nella propaganda strumentale e a fini di potere che su questo ritiro i gruppi più radicali stanno imbastendo. Ai palestinesi dico di non scambiare un atto di risarcimento e di giustizia da parte di Israele come una prova di debolezza. Ai palestinesi dico di non guardare al nostro ritiro solo come vittoria del loro spirito, e della loro pratica, di resistenza. Per essere alimentatore di nuova speranza, ciò che Israele si accinge a compiere nella Striscia deve essere anche inteso dai palestinesi come un atto di riparazione morale da parte nostra. Per questo il ritiro da Gaza è anche un banco di prova, un severo banco di prova della maturità politica dei palestinesi e della loro classe dirigente. Un'occasione forse irripetibile per dimostrare di saper fare di Gaza liberata l'embrione di un futuro Stato palestinese che sappia vivere in pace a fianco di Israele».
I proclami di Hamas e i razzi sulle colonie sono una risposta allarmante al suo appello.
«Confido nel bisogno di normalità a cui aspira la grande maggioranza dei palestinesi, e nella volontà di dialogo che anima l'attuale leadership del presidente Abu Mazen. Sarebbe una sciagura se decidessero ancora una volta di "buttare tutto all'aria", come hanno già fatto, solo per rimanere al recente passato, nei colloqui di pace a Camp David e a Taba, imboccando la strada della violenza nelle zone lasciate libere dai soldati e dai coloni israeliani. Se così fosse, i palestinesi avranno emesso una sentenza di morte a un eventuale futuro ritiro. Ciò che mi sento di chieder loro è di essere all'altezza della sfida di pace che sta dietro al ritiro da Gaza. Ai palestinesi dico: guardate cosa sta comportando per Israele e in Israele questo ritiro, siamo giunti a un passo dalla guerra civile. Tuttavia abbiamo deciso di correre questo rischio e intraprendere questo cammino accidentato fino in fondo. Il che significa anche non fare di Gaza, dopo il nostro ritiro, un territorio sigillato all'interno del quale restino rinchiuse oltre un milione di persone. Ai palestinesi mi sento di chiedere di dare prova dello stesso coraggio, della stessa lungimiranza, della stessa determinazione a contrastare le frange oltranziste. Sta a voi dimostrare che la vostra lotta era contro l'ingiustizia degli insediamenti e l'occupazione e non contro l'esistenza stessa dello Stato di Israele».
Lei parla di risarcimenti morali e di rivisitazione critica della storia. Abbiamo detto ciò che questo esercizio comporta per Israele. E per i palestinesi?
«Comporta l'andare oltre il generico riconoscimento del diritto di Israele ad esistere. Significa riconoscere il diritto all'esistenza di Israele come Stato ebraico e porre fine alla demonizzazione del sionismo inteso come l'origine di ogni male. È un risarcimento morale anche questo; un risarcimento che può aprire nuovi orizzonti di dialogo. Occorre deporre non solo le armi che sputano proiettili ma anche le "armi" dell'odio ideologico, quello trasmesso attraverso i libri e sui banchi di scuola. È un duplice disarmo quello che mi sento di chiedere ai palestinesi, a chi li dirige e a chi forma le coscienze delle giovani generazioni».
La destra oltranzista legge il ritiro da Gaza anche come fuga di fronte al nemico.
«A volte una "fuga" può essere più coraggiosa e produttiva di una battaglia vinta. Ben venga questa "fuga" se potrà servire ai palestinesi di Gaza per ritrovare l'onore e con esso un senso nuovo di responsabilità. Noi israeliani abbiamo ottenuto abbastanza vittorie nelle guerre che siamo stati costretti a combattere. Israele non ha bisogno di veder riconosciuta la sua forza né ha bisogno di altri onori. Ciò di cui Israele ha bisogno è di essere accettato come presenza stabile , legittima, integrata in Medio Oriente. Un obiettivo che non può essere conquistato con la forza».
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