LA REPUBBLICA di mercoledì 27 luglio 2005 pubblica a pagina 13 l'articolo di Marco Politi "Gelo del Vaticano su Gerusalemme", incentrato su in interpretazione, secondo Ansaldo diffusa in Vaticano, delle proteste per l'omissione di una menzione delle vittime israeliane del terrorismo durante l'Angelus papale di domenica 24 luglio, come manovra politica che nulla avrebbe a che vdere con il merito della questione sollevata.
Una posizione, come è facile capire, di totale preclusione verso le ragioni di Israele, preventivamente squalificate come pretestuose.
Ecco l'articolo:AOSTA - E´ gelo tra le gerarchie vaticane dopo il violento attacco al Papa da parte di Israele. La parola d´ordine è tacere e archiviare. Benedetto XVI, si fa sapere, non muterà di un millimetro il suo atteggiamento di grande apertura e favore nei confronti dell´ebraismo e continuerà a contrastare ogni forma di antisemitismo vecchio o moderno. Ma sicuramente si è aperto - in silenzio - un gap di fiducia nelle relazioni tra Santa Sede e il premier Sharon. Non si aggredisce impunemente un pontefice, è l´opinione che circola negli ambienti ecclesiastici. Tanto più che in Segreteria di Stato - in sintonia con le valutazioni di moltissimi diplomatici - sulle accuse di Israele contro le «omissioni» di papa Ratzinger non si nutre il minimo dubbio: l´attacco politico al capo della Chiesa cattolica è stato lanciato a freddo. L´agenzia religiosa Asianews, riflettendo uno stato d´animo di molti cattolici, ha giudicato «violento e volgare» il passo israeliano.
Nel silenzio ufficiale di monsignori e cardinali il Vaticano lascia che si diffondano i giudizi di esponenti cattolici, che ben conoscono le segrete cose della Santa Sede. L´ex presidente Cossiga ha definito «ingiusta» la protesta del governo israeliano nei confronti del pontefice. Il ministro Buttiglione, amico personale di papa Wojtyla, ha dichiarato lapidariamente «Quando capita un incidente così, si chiude e basta».
Alla Radio vaticana il portavoce papale Navarro ha fatto ieri il punto sulla vicenda: «Mi sembra che si sia trattato di una cosa pretestuosa, che non ha base alcuna. Il Papa stava menzionando testualmente eventi recenti, immediati, di questi giorni, non voleva fare una storia purtroppo di tutti gli attentati del mondo». Il portavoce vaticano ha poi fatto capire che la Santa Sede vuole archiviare lo sgradevole episodio: «Mi sembra una cosa pretestuosa e già passata - ha ribadito, ripetendo per due volte l´aggettivo - non ha nessuna attualità». Navarro ha spiegato che «il pontefice ha avuto sempre presenti i fatti tragici che stavano avvenendo in varie regioni del mondo».
Voltata pagina, resta aperto il contenzioso sotterraneo tra Santa Sede e Israele. Il missile diplomatico lanciato da Sharon - giudicano gli esperti vaticani che seguono il Medio Oriente - doveva avere soprattutto un carattere «preventivo» per intimidire la Santa Sede e impedire che il pontificato ratzingeriano continui la politica di papa Wojtyla ancorata a due punti precisi: difesa dell´esistenza di Israele, difesa del diritto dei palestinesi a creare un loro stato in Cisgiordania. In Vaticano sanno bene che - morto Giovanni Paolo II, inattaccabile soprattutto dopo il suo viaggio a Gerusalemme - il «nemico» del governo Sharon è ora il Segretario di Stato Sodano. Il cardinale è visto come esponente di una Chiesa cattolica «parziale e propalestinese». L´ex ambasciatore d´Israele a Bruxelles, Sergio Minerbi, considera come motivo di biasimo che dopo l´avvento di Ratzinger «non sia stato cambiato il segretario di Stato».
Sodano, fedele esecutore della linea di papa Wojtyla, è malvisto per aver messo il dito nella piaga dei progetti di sistemazione finale della Cisgiordania da parte di Sharon. «Non può esistere un stato-gruviera con tanti buchi», dichiarò il Segretario di Stato vaticano nel 2003, riferendosi ad una futura patria palestinese: frammentata a causa delle molte colonie israeliane costruite illegalmente in Cisgiordania. E´ una questione che, dopo il ritiro israeliano da Gaza, diventerà di scottante attualità.
Allo scopo di mettere sotto pressione la Santa Sede il governo Sharon sta sabotando da anni i negoziati bilaterali per la piena applicazione dell´Accordo fondamentale firmato tra le due parti nel 1993. C´è da regolare la questione delle proprietà ecclesiastiche e del loro regime fiscale. Iniziati nel 1999, i contatti si sono arenati nel 2003 quando la delegazione israeliana ha abbandonato il tavolo. Ripresi nel 2004 su pressione degli Stati Uniti, i negoziati avrebbero dovuto entrare finalmente nel vivo il 19 luglio, scadenza poi rimandata a lunedì 25 luglio. Adesso Sharon li ha cancellati, sperando di costringere il Vaticano a cambiare linea.
Riequilibra in parte la faziosa presentazione della vicenda da parte di Politi l'articolo più breve di Alberto Stabile, "Ma Israele insiste. Pronti altri passi", che informa sulle ragioni israeliane.
Ecco il testo:Gerusalemme - L´opinione pubblica israeliana non sembra concedere troppa attenzione alla dura protesta del Governo nei confronti del Vaticano, per la mancata menzione d´Israele, nell´omelia domenicale del Papa, tra le vittime del terrorismo. Questione diplomatica, dunque risolvibile. Oppure, potrebbero aver pensato molti israeliani, ecco la conferma di un vecchio atteggiamento discriminatorio nei confronti dello Stato ebraico.
Fatto sta che i media, attratti da temi più succulenti, come il rinvio a giudizio del figlio di Sharon, per violazione della legge elettorale, o più drammatici, come l´inizio delle grandi manovre per il ritiro da Gaza, hanno dedicato pochissimo spazio alla polemica. A parte una brevissima corrispondenza di Yedioth Aaronoth da Roma, l´unico giornale che ha ripreso con un approfondimento il tema è stato il quotidiano in inglese Jerusalem Post, che ha intervistato il direttore del ministero degli Esteri, Nimrod Barkan, che ha convocato a Gerusalemme il nunzio apostolico, monsignor Pietro Sambi, per presentargli la «protesta verbale» sulle parole di Benedetto XVI.
Spiegando al Jerusalem Post le ragioni israeliane, Barkan ha indicato che «non condannare il terrorismo in Israele è stata la politica del Vaticano per anni. Ora che c´è un nuovo Papa, abbiamo deciso di affrontare la questione. La Santa Sede deve aiutare i moderati in Medio Oriente, non gli estremisti».
Secondo il funzionario degli Esteri, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, Israele ha pacatamente protestato a Roma per quella che ha definito l´assenza di condanne da parte del Papa. Ma ora Israele ha deciso di rendere pubblica la questione con l´obiettivo di cambiare una situazione considerata negativa. Secondo Barkan, «ci sono forze in Vaticano che premono in una direzione diversa per quanto riguarda Israele: dato che non hanno mai pagato un prezzo per la mancanza di condanna, hanno continuato in questo senso». Stando alle parole del dirigente, se la protesta espressa ieri non darà i risultati auspicati, «dovremo valutare altri passi».
Del negoziato che dovrebbe risolvere le annose questioni patrimoniali tra Israele e il Vaticano, ma che da anni sembra essersi arenato, non si parla. Il fatto è che con la sua omissione il Papa ha, come si dice, toccato un nervo scoperto. Da anni, e soprattutto a partire dall´attentato alle torri gemelle del settembre 2001, che ha svelato l´offensiva del terrorismo internazionale contro l´Occidente, Israele si considera tra le principali vittime di questa guerra globale. Così come considera il terrorismo palestinese parte di questa offensiva internazionale, e non un fenomeno radicato in un conflitto vecchio di decenni e che lì, dunque, trova le sue cause specifiche. Il fatto che il Papa non abbia incluso Israele tra i paesi colpiti dai recenti attacchi terroristici è stato considerato discriminatorio, come se Benedetto XVI volesse alludere al fatto che il terrorismo che colpisce Israele è «un´altra cosa», rispetto a quello che colpisce l´Inghilterra, l´Egitto, o la Turchia.
Anche IL FOGLIO affronta la vicenda con un articolo che presenta in modo esclusivo la posizione della Santa Sede, enfatizzando le rimostranze di quest'ultima verso Israele, e minimizzando il merito del problema posto da Israele. Ecco l'articolo, "Dietro la crisi Israele- Vaticano c'è ben più di un lapsus verbale".
Ecco l'articolo:
Roma. La crisi diplomatica esplosa ieri l’altro tra Israele e Santa Sede è stata definita come un fulmine a ciel sereno. Al di là della particolare crudezza dei toni, chi ha seguito l’evolversi dei rapporti tra le parti osserva che il fulmine è arrivato quando il clima era già da tempo deteriorato. Un sintomo esemplare di questa tensione è quanto accaduto lo scorso 12 luglio,proprio il giorno degli attentati di Netanya, quando nella Knesset, durante una cerimonia di commemorazione di Giovanni Paolo II, ha preso la parola il nunzio apostolico in Israele, l’arcivescovo Pietro Sambi. Il diplomatico vaticano, tra i più esperti d’Oltretevere (tanto da essere tra i più accreditati candidati alla nunziatura Usa), non ha mancato di mettere alcuni puntini sulle "i". Tra gli aspetti positivi che hanno caratterizzato i rapporti Chiesa-Israele durante il pontificato wojtyliano monsignor Sambi ha ricordato il "Fundamental Agreement" fra lo Stato d’Israele e la Santa Sede alla fine del 1993 e il conseguente allacciamento delle relazioni diplomatiche nel 1994, ma subito dopo ha puntigliosamente aggiunto: "Questo ‘Agreement’, ratificato dallo stato d’Israele il 20 febbraio 1994, ed entrato in vigore internazionalmente il 10 marzo dello stesso anno, non è ancora stato incorporato nella legge israeliana dalla Knesset". Non solo. Monsignor Sambi ha subito dopo precisato: "La stessa cosa va detta del ‘Legal Personality Agreement’, ratificato da Israele il 16 dicembre 1998 ed entrato in vigore internazionalmente il 3 febbraio 1999". Il nunzio ha fatto anche notare che "il cosiddetto ‘Economic Agreement’, prescritto dall’articolo 10 del ‘Fundamental Agreement’, non è stato ancora
concluso". Il discorso che Sambi ha pronunciato alla Knesset in inglese è stato pubblicato integralmente, in traduzione italiana, dall’Osservatore Romano del 19 luglio. Le puntualizzazioni del nunzio sembrano riecheggiare, con i toni più soft tipici della diplomazia, quanto denunciato in un editoriale del settimanale dei gesuiti statunitensi "America" del 21 febbraio scorso. "Sebbene
non è stata dichiarata nessuna crisi, le relazioni (tra Israele e Santa Sede, ndr) si stanno seriamente deteriorando", scriveva il periodico, ricordando, tra l’altro, come il governo israeliano avesse detto alla Corte Suprema di non sentirsi vincolato dagli accordi stipulati con la Santa Sede nel 1993. "Questa dichiarazione – era il duro commento di "America" – è un affronto non solo al mondo cattolico ma a tutti coloro che prendono sul serio gli accordi internazionali". La rivista ricordava che gli accordi del ’93 portarono anche allo storico riconoscimento dello Stato di Israele da parte della Santa Sede. E scriveva: "I critici dell’accordo avvisarono che la Santa Sede si era giocata la sua unica carta (il riconoscimento diplomatico) in cambio di una promessa.
Più di undici anni dopo sembra che sia accaduto proprio questo. Israele non ha mantenuto le promesse". Parole forti, che, nella sostanza, sembrano essere state in qualche modo fatte proprie da Sambi. Sono due gli aspetti che secondo il Vaticano violano il diritto internazionale e la storia dei diritti maturati dalla Chiesa in Terra Santa fin dai tempi della dominazione ottomana: l’esercizio di politiche fiscali arbitrarie da parte israeliana contro le proprietà della Chiesa e il rifiuto governativo di istituire un processo nei tribunali per risolvere le dispute sulla proprietà. La commissione bilaterale formata per risolvere questi problemi non è riuscita a decollare. E la polemica esplosa in questi giorni non è di buon auspicio per il futuro. Una polemica
che secondo fonti di Gerusalemme riprese da Asianews sarebbe addirittura stata "una cortina fumogena" per nascondere la decisione del governo di non presentarsi per l’ennesima volta alla riunione della commissio prevista proprio per il 25 luglio.
L'UNITA' pubblica in prima pagina e a pagina 24 un editoriale di
Siegmund Ginzberg, "La strategia del Papa".
Vi si afferma che nella distinzione tra diversi terrorismi, sottesa alle recenti dichiarazioni del sindaco di Londra Livingstone e forse anche all'omissione del Papa, non vi sarebbe nulla di scandaloso. Anche Israele opererebbe una tale distinzione, quando sceglie di trattare con espondenti di Al Fatah come moderati o quando si rende disponbile a tregue non dichiarate con Hamas.
In questo paragone vi è però una confusione tra due piani moto diversi (a prescindere dal fatto che Israele continua a riaffermare la necessità che Hamas sia disarmato): da un lato la differenziazione della condanna morale del terrorismo, attenuata o cancellata quando se ne apprezzano le motivazioni politiche (è il caso di Livingstone, cui Ginzberg accomuna il Papa), dall'altro la decisione pragmatica di trattare anche con ex terroristi quando abbandonano i metodi violenti.
Cose molto diverse, che Ginzberg , pericolosamente, confonde.
Ecco l'articolo:Qualcosa non va per il verso dovuto quando il leader di un Paese orribilmente martoriato dal terrorismo (Israele) sente il bisogno di polemizzare con il Papa, il simbolo della Cristianità, il vescovo della Roma che una minaccia "islamica" promette di «trasformare in cimitero» e contro il sindaco della città (Londra) che ha appena subito uno dei più sanguinosi attentati a memoria di cronaca. Li vorremmo invece tutti e tre dalla stessa parte.
Erano passati pochi giorni da quando il premier israeliano Ariel Sharon aveva denunciato come «gravemente inappropriata», e indice di «ignoranza e fondamentale incomprensione della realtà» un paragone estemporaneo, fatto dal sindaco di Londra Ken Livingstone.
In un’intervista su Sky News poco dopo le bombe nel "tube" Livingstone diceva che il Likud (il partito della destra israeliana e di Sharon) e Hamas (l’organizzazione ultrà palestinese responsabile di alcuni dei più efferati attentati suicidi) sarebbero «due facce della stessa medaglia», nel senso che «hanno bisogno l’uno dell'altro per attrarre sostegno» e che «ciascuno dei due enfatizza l'estremismo dell'altro per attirare simpatia». Poco dopo è scoppiato l'incidente diplomatico tra Israele e Santa sede sul Papa che, nella sua preghiera a Dio perché fermi «la mano assassina» dei terroristi, aveva menzionato gli attentati in Egitto, Gran Bretagna, Turchia e Iraq, "dimenticandosi" di quello che il 12 luglio aveva mietuto cinque vite israeliane a Netanya.
«Certamente non è stata un'omissione voluta, una negligenza deliberata», ha messo le mani avanti qualche commentatore. Non sappiamo se le cose stiano così. Non tutti i silenzi sono "deliberati". Ma talvolta i silenzi sono più fragorosi di quel che viene detto. Qui non è questione di eccessi di "sensibilità". Sharon ha le sue ragioni per farne un "caso". Si trova in un frangente delicato, al governo di un paese spaccato sul ritiro da Gaza, diviso drammaticamente, anche visivamente, tra il popolo "bianco-azzurro" che appoggia l’iniziativa e quello "arancione" degli ultrà che si oppongono. «Una vera e propria lacerazione politica», l’ha definita nell’intervista apparsa su Le Monde datato oggi. E ci sono precedenti di "silenzi" storici molto più micidiali (quello sull’Olocausto), per i quali il predecessore di Benedetto XIV aveva chiesto scusa.
Non c’è comunque bisogno di evocare lapsus o "distrazioni" per constatare che le posizioni e valutazioni di Israele e del Vaticano, e di Sharon e Ken "il rosso" sul terrorismo e sui mezzi per combatterlo sono diverse. Il Vaticano si è costantemente pronunciato contro le guerre, tutte le guerre, quella in Iraq in particolare, mentre in Israele prevale l’opinione che bisognerebbe farla anche all’Iran, prima che sia troppo tardi. Il Vaticano è stato tradizionalmente più sensibile alle ragioni palestinesi che a quelle dello Stato ebraico. Ha un proprio problema di rapporti "da fede a fede" col mondo islamico. In questo si inserisce probabilmente la tendenza - ancor più accentuata nel caso di Ken Livingstone - a "distinguere" tra terrorismo e terrorismo, analizzarne le motivazioni politiche, anziché mettere indistintamente ogni specie di terrorista nello stesso fascio. In questo non c’è nulla di scandaloso. Anche Israele ha fatto spesso questi "distinguo". Non sarebbe mai partito il dialogo con Abu Mazen, il successore di Arafat, se avessero continuato a bollarli come "terroristi" indistinguibili. Nell’intervista a Le monde, Sharon rimprovera ad Abu Mazen di non agire come dovrebbe contro i terroristi, di limitarsi ad agire «solo un poco», ma ciò non impedisce che tra i due leader ci sia «un contatto quotidiano». Persino su Hamas, l’Al Qaeda di Israele, le cose non stanno così, tutto bianco o tutto nero, come potrebbe apparire a prima vista. Ci sono segnali di evoluzione "politica" anche di questa micidiale organizzazione ultrà, che da qualche tempo sembra più interessata ai risultati elettorali (in competizione con la fazione maggioritaria dell’Olp) che negli attentati suicidi. "Sfumature", accenni di distinguo, sono stati notati anche da parte dello stesso George W. Bush a proposito di Hezbollah in Libano. C’è chi ha interpretato la svolta del dopo Arafat nel dialogo israelo-palestinese come qualcosa che si fonda anche su un compromesso tacito che coinvolge - sia pure solo indirettamente - anche Hamas. Se da qualche tempo gli attentati sanguinosi sembrano essere diminuiti in Israele può dipendere anche dal polso di ferro, il modo in cui gli "assassinii" mirati hanno decapitato i vertici della manovalanza del terrore, dal muro, dalla fortuna. Ma va preso in considerazione anche il modificarsi delle scelte di Hamas, l’effetto della "tregua non dichiarata". Comunque stiano le cose, il risultato è un po’ meglio, e dal punto di vista della lotta contro il terrorismo più efficace, del fare di ogni erba un fascio, gettare Hamas ed Hezbollah nelle braccia di Al Qaeda.
Un elemento di "delusione" da parte israeliana su Papa Ratzinger potrebbe anche derivare dal fatto che era stato visto inizialmente come "più duro" di Giovanni Paolo II nei confronti dell’islam. Da cardinale, Ratzinger era stato tra quelli che più si erano sbilanciati in un "no" alla Turchia islamica in Europa. Il Jerusalem Post aveva notato che alla messa di insediamento il nuovo Papa aveva citato gli altri cristiani e gli ebrei, ma si era "dimenticato" dei musulmani. C’era stata sì una preghiera in arabo, ma per i "cristiani perseguitati". Da cardinale, Ratzinger non aveva escluso le guerre "giuste" contro il terrorismo, dopo l’11 settembre aveva scritto che «la risposta americana può essere paragonata alla difesa della Polonia contro Hitler», aveva dichiarato sollievo, per il peggio che sarebbe potuto succedere e non era successo, non quasi dispiacere come altri prelati, alla conclusione dell’invasione dell’Iraq.
«Ratzinger ritiene che la strategia di alleanze con l’islam di Giovanni Paolo II abbia finito per collocare il Vaticano non a fianco dei popoli musulmani, ma a fianco dei regimi dispotici che dominano il mondo islamico», aveva notato un osservatore come Amir Taheri. «C’è chi teme che le lobby ebraiche possano ricattare il nuovo papa per la sua militanza giovanile nella gioventù hitleriana», si era persino letto sul sito ultrà IslamOnline.
Eppure, questo è anche il papa che quando l’altro giorno gli hanno chiesto se vedeva una movenza anti-cristiana nel terrorismo, ha risposto chiaro e tondo "no", prendendosela coi "fanatici", non con un’intera religione, distinguendo «gli elementi che sono per la pace e gli altri elementi», insistendo sull’importanza del dialogo con quelli a cui in genere ci si riferisce come agli "islamici moderati".
L’esatto contrario, insomma, dei nuovi pasdaran, laici o religiosi, del "conflitto di civiltà", di chi la vede in termini di scontro mortale tra cristianesimo e islam, predica una sorta di contro-jihad. Métier oblige, si dirà. Ma vale la pena di notare che non è più il solo. Nella foga e distrazione delle prediche infervorate alla guerra santa di questi giorni è forse sfuggito che ora queste cose, cioè che la guerra al terrorismo non si vince solo con i mezzi militari e che il modo sicuro di perderla sarebbe considerarla una guerra di religione, cominciano a dirlo persino alcuni dei più importanti consiglieri di Bush.
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