LA STAMPA di mercoledì 27 luglio 2005 pubblica a pagina 9 un'intervista di Jean Marie Colombani (direttore di LE MONDE)e Giles Paris ad Ariel Sharon, ripresa da LE MONDE.
La riportiamo:Il primo ministro israeliano Ariel Sharon è a Parigi dove resterà fino a venerdì e oggi incontrerà il presidente francese Jacques Chirac. Si tratta per lui della seconda missione in Francia da quando ha assunto la carica di primo ministro, nel 2001. Il capo del governo israeliano spera così di aprire una nuova pagina nelle relazioni con l’Eliseo, dopo anni segnati da reciproche tensioni e anche di mandare un segnale in patria, convincendo gli israeliani che il ritiro da Gaza paga e serve ad allentare l'isolamento diplomatico.
Paese ritenuto filo-arabo per principio e sordo alle ragioni di Israele, la Francia è stata l’anno scorso anche teatro di episodi di antisemitismo oltre che ultimo rifugio dell’odiato Yasser Arafat. Ma la nuova politica pragmatica di Sharon - con la decisione di smantellare la presenza israeliana a Gaza - ha creato una situazione nuova e nei giorni scorsi i due leader hanno rilasciato interviste distensive a giornalisti dell'altro Paese.
Nei colloqui si parlerà del ritiro da Gaza e delle sue possibili ripercussioni regionali: il presidente francese probabilmente vorrà essere rassicurato sul fatto che questo non è «il capolinea» della politica israeliana e che il disimpegno riguarderà in seguito anche la Cisgiordania.
In agenda ci saranno anche il terrorismo internazionale, la questione libanese e la politica nucleare iraniana. Il tema più delicato potrebbe rivelarsi proprio quello della lotta all'antisemitismo. Una fonte vicina a Sharon ha detto ieri che «in Francia il problema esiste, e Chirac è uno degli oppositori più importanti». In passato gli appelli di Sharon agli ebrei francesi perché emigrassero in Israele sono stati accolti assai male da Parigi.
COME giudica lo stato della società israeliana alla vigilia del ritiro da Gaza, previsto per il 17 agosto?
«Questo progetto è una prova molto difficile per Israele. Abbiamo avuto un dibattito tumultuoso. Questa vicenda coinvolge migliaia di persone di cui alcune vivono nello stesso posto ormai da tre generazioni. Queste persone si sono confrontate on il terrorismo e sono riuscite a costruire in quelle circostanze ostili aziende agricole di livello eccezionale. Questo progetto di ritiro ha creato dei dissensi e dei disaccordi interni molto forti. E’ una autentica lacerazione politica, ma resto convinto che questo progetto sia molto importante per Israele e verrà realizzato come previsto».
C’è stato un dibattito sulle motivazioni che l’hanno spinto. Perché questo ritiro da Gaza?
«Avevo pensato che ci voleva un grande sforzo per raggiungere un accordo che ci avrebbe permesso di uscire da questa situazione estremamente dura, da questa guerra permanente contro il terrorismo arabo e palestinese che dura da 120 anni (data dei primi insediamenti ebraici, ndr). Nonostante la volontà di Israele di raggiungere un accordo non avevano interlocutori dall’altra parte. Finché era vivo Arafat la strategia era quella del terrorismo e della morte. L’elezione di Abu Mazen ha aperto una possibilità. Lo conosco da molto tempo e ho con lui relazioni personali molto buone. Israele ha ottenuto un successo importante con l’accordo che io ho firmato (nel 2004, ndr) con il presidente Bush. In ogni modo, in tutti i piani che io conosco, la Striscia di Gaza non restava nelle mani di Israele. Laggiù ci sono 1,2-1,3 milioni di palestinesi e 8 mila ebrei che vivono in una situazione molto difficile dal punto di vista della sicurezza, in una zona che non riveste un’importanza strategica».
E’ stato allora un errore costruire insediamenti a Gaza?
«No, non penso che sia stato un errore. Ha contribuito a far capire ai palestinesi che si trattava di cambiare politica. L’accordo che abbiamo raggiunto con il presidente Bush ci permette di conservare zone di grande importanza strategica e altre zone ad alta densità di popolazione, i grandi blocchi di insediamento. La situazione sul terreno in 40 anni è cambiata, è successo a Maale Adoumim, ad Ariel, in tanti luoghi. I grandi insediamenti e le zone significative per la nostra sicurezza sono già un grande successo. Ma uno dei più grandi vantaggi è che, per la prima volta dalla nascita di Israele, uno Stato non insignificante come gli Usa ha riconosciuto che, un giorno, i profughi palestinesi o i loro discendenti non ritorneranno più in Israele, ma in uno Stato palestinese».
Lei considera possibile l’esistenza di uno Stato palestinese?
«Se si tratterà di uno Stato demilitarizzato, che non permette l’esistenza di gruppi terroristici, che li disarma e fa cessare totalmente le attività terroristiche, la violenza e lincitazione alla violenza, allora penso che sia un fatto positivo.»
La nascita di questo Stato non prevede necessariamente altri ritiri dalla Cisgiordania?
«Uno dei punti più importanti dell’accordo con il presidente Bush è quello che riconosce un solo piano di pace valido, la road map. Non siamo ancora nella raod map, ma in una fase preliminare. Per far funzionare veramente questo piano bisogna fermare totalmente il terrorismo, procedere al disarmo, allo smantellamento delle organizzazioni terroristiche. Non sono previste altre fasi di ritiro, ce ne sarà una sola. Dopo, si passa alla road map, se ci sono le condizioni che chiediamo. Ero pronto e sono tuttora disponibile a fare concessioni dolorose in cambio di una pace autentica. Ma non ero, non sono e non sarò disponibile a fare la minima concessione riguardo alla sicurezza dei cittadini israeliani. Solo Israele può decidere quali sono le sue necessità di sicurezza. Israele è un Paese piccolo. E’ l’unico luogo al mondo dove gli ebrei hanno il diritto e la forza per difendersi con le loro mani. Io sono ebreo e devo fare il possibile per tutelare questo diritto e questa capacità».
Cosa è cambiato nella sua visione di Israele? E’ stata la sua carica di premier, la coscienza della responsabilità alla guida del Paese, oppure il fatto di avere come interlocutore una persona come Abu Mazen? Pensa di poter diventare l’uomo della pace nella regione?
Un po’ di tutto questo. Non faccio quello che faccio per potermi fregiare di un titolo, non è quello che cerco. Ho partecipato a tutte le guerre di Israele, salendo dal rango di caporale a quello di generale. Ho avuto il privilegio di comandare le migliori unità dell’esercito, ho visto con i miei occhi tutti gli orrori della guerra. Ho dovuto prendere decisioni di vita e di morte per me stesso e per altre persone. E ho compreso l’importanza della pace meglio di qualunque uomo politico che non si è mai trovato in simili situazioni. Per me la pace deve dare la sicurezza. Se no, che senso ha? Io dico che i militari vengono sempre sospettati di volere la guerra, io sono descritto per anni come uno che andava in cerca della guerra, anche se non era ovviamente così. Penso che ci voleva qualcuno della nostra generazione, qualcuno che ha visto Israele nascere, che ha visto le più grandi vittorie e le peggiori sconfitte, le lotte diplomatiche e politiche, che facesse uno sforzo, un gesto eccezionale per la pace».
Pensa che oggi esiste una reale opportunità di raggiungerla?
«Certo, e io vi ho contribuito. Ma questo dipende oggi sopratutto dai palestinesi. Se non torna la calma, i palestinesi non potranno realizzare il loro sogno nazionale. In questo io sono con le spalle al muro. Abbiamo un contatto con Abu Mazen, sono in contatto quotidiano i nostri uffici. Ma per ora da parte sua non ho visto un’azione seria contro il terrorismo. Si accontenta di fare qualche mossa. E’ un peccato. Vi ricordate il caso di quella giovane donna araba gravemente ustionata che usciva quasi tutti i giorni dalla Striscia di Gaza per farsi curare in un ospedale a Beer Sheva? L’hanno utilizzata per affidarle dell’esplosivo (scoperto dagli israeliani al valico di passaggio di Erez, ndr). Lei avrebbe dovuto farsi esplodere in mezzo ai medici. Quando ho incontrato Abu Mazen dopo questo incidente, era un po’ imbarazzato. Aveva avuto da tempo il nome di quel comandante palestinese e mi aveva detto: «In 48 ore annuncerò il suo arresto». Ma questo comandante curiosamente si è reso introvabile».
Non c’è nulla che Israele può fare per aiutare Abu Mazen?
«Ho conosciuto Abu Mazen quando ministri eminenti come Shimon Peres hanno raccolto soldi all’estero per aiutare i palestinesi. Sono pronto ad aiutarli ma a una condizione: non sacrificherò la vita di un cittadino israeliano per rinforzare Abu Mazen».
Israele sta costruendo un «muro di sicurezza» nei territori palestinesi, sarà la futura frontiera?
«La barriera è un fattore importante nella lotta al terrorismo. Siamo riusciti a ridurre significativamente il numero dei terroristi che puntano al cuore d’Israele grazie a questo muro. Le frontiere verranno definite, secondo la road map, nell’ultima fase dei negoziati. Il più grande problema è che il mondo arabo, non solo i palestinesi, non ha ancora riconosciuto il diritto degli ebrei ad avere uno Stato ebraico indipendente nella loro terra natale. Non dirò che bisogna aspettare che questa percezione cambi, perché potrebbe non avvenire mai, oppure richiedere molto tempo. Possiamo raggiungere accordi con i leader arabi, ma i popoli, gli arabi non hanno mai accettato Israele. In Egitto non troverete una sola scuola dove ci sia una mappa geografica che riporti Israele. La stessa cosa succede in Giordania, con la quale pure abbiamo una cooperazione strategica. Accogliamo malati arabi per curarli, ma le organizzazioni di medici arabi boicottano Israele. Occorre andare avanti, ma anche essere molto prudenti. Noi affrontiamo il peggiore odio. Ed è per questo che io preferisco un processo a tappe. Qui, in questa regione, discutere, parlare, fare promesse e perfino firmare accordi non significa nulla, contano solo le azioni».
Dirà di nuovo che gli ebrei di Francia devono partire urgentemente per Israele per fuggire l’antisemitismo?
«Ci tengo a dire che ho deciso di andare in Francia su invito di Jacques Chirac, nel bel mezzo della crisi interna israeliana, perché io penso che si tratti di un fatto importante e perché voglio discutere con lui gli argomenti riguardanti la regione: l’Iran, la Siria e gli Hezbollah in Libano. Apprezzo la sua comprensione dei problemi della regione. Le nostre relazioni si rafforzano a tutti i livelli. C’è stato un cambiamento dell’antisemitismo, i sentimenti antisraeliani servono oggi come copertura per quelli antisemiti». Copyright Le Monde
A pagina 3 IL FOGLIO pubblica un articolo sulla visita di Sharon in Francia, che riportiamo.Parigi. "Sarei particolarmente felice di accoglierla per riprendere le nostre relazioni bilaterali e le questioni regionali alla data che meglio le conviene". Con queste parole, lo scorso 15 giugno, il presidente francese, Jacques Chirac, aveva invitato il premier israeliano, Ariel Sharon, a ritornare sul suolo francese. Dopo quattro anni di assenza, Sharon ha risposto positivamente, iniziando ieri sera una visita ufficiale all’insegna del disgelo nelle relazioni francoisraeliane. L’ultima e unica visita lampo di Sharon a Parigi risale al luglio 2001, data che segna l’inizio di un’escalation di accuse
reciproche. Chirac non perde occasione per condannare il premier israeliano e la sua reazione alla seconda intifada. Sharon risponde, accusando la politica proaraba e propalestinese del presidente francese. Gli screzi si moltiplicano – Chirac nell’ottobre 2003 impedisce all’Unione europea di condannare le dichiarazioni antisemite del premier della Malesia, Mahatir Mohamad, e la stampa israeliana lo ritrae come un collaborazionista – fino al 18 luglio 2004, quando all’indomani dell’ennesimo episodio antisemita in Francia, Sharon invita gli ebrei francesi a immigrare "urgentemente" in Israele per sfuggire alla minaccia di un "antisemitismo scatenato". Chirac dichiara il premier israeliano "persona non gradita" a Parigi. Questa mattina, invece, Sharon sarà ricevuto con tutti gli onori perché è soprattutto l’Eliseo a sperare in una riappacificazione con Gerusalemme. La morte di Yasser Arafat, nonostante la sua canonizzazione in Francia, ha spiazzato la diplomazia d’oltralpe che si è ritrovata senza interlocutori all’interno dell’Anp. Già nell’ottobre 2004, Chirac aveva inviato a Gerusalemme l’allora ministro degli Esteri Michel Barnier per riprendere il dialogo con il governo di Sharon. Era seguita, nel marzo 2005, una visita in Israele di Jean Pierre Raffarin, la prima di un premier francese dopo cinque anni. Di fronte alla determinazione e al presumibile successo del ritiro israeliano unilaterale da Gaza, Chirac è stato costretto a cambiare registro. Così, "accogliendo a Parigi Sharon la Francia invia un messaggio di fiducia al suo amico: la convinzione che la pace è possibile e la sua volontà di contribuirci", ha detto Chirac al quotidiano Haaretz. Per il presidente francese, "il disimpegno da Gaza è un atto storico" e "coraggioso" che crea le condizioni per il ritorno del premier in Francia.
Da parte israeliana, però, l’ora non è ancora quella delle rimpatriate. L’entourage di Sharon spiega la visita ufficiale con "un nuovo vento che soffia all’Eliseo". Israele vuole "rafforzare i legami bilaterali" ed è favorevole
a "un ruolo più attivo della Francia nella soluzione del conflitto". Ma, secondo
un alto responsabile israeliano citato dall’Afp, a una condizione: "Che abbia una posizione più equilibrata". Intervistato dal Monde, Sharon dice di "voler parlare con Chirac di Iran, Siria e Hezbollah in Libano". Israele ha apprezzato l’intraprendenza francese sulla risoluzione 1.559 dell’Onu sul ritiro
della Siria dal Libano e giudica positivi i negoziati con Teheran sul nucleare.
Ma l’omaggio, più che a Chirac, è indirizzato a Nicolas Sarkozy, ministro dell’Interno, e alla sua politica di "tolleranza zero" contro l’antisemitismo. In visita a una scuola ebraica di Parigi colpita da molotov all’acido cloridrico, Sarko ha dichiarato che "quando si minaccia un ebreo, si minaccia la Repubblica". Sabato scorso, inoltre, come prevedono le misure di sicurezza volute da Sarkozy contro coloro che incitano alla violenza con discorsi integralisti, è stato espulso un imam algerino, implicato nel tentativo
d’attentato al Tgv Parigi-Lione nel 1995. Il ministro francese, appena eletto presidente dell’Ump, era andato a Gerusalemme definendo Sharon "una speranza per la pace". Se allora il premier aveva ricambiato accogliendolo come "amico di Israele", per Sharon oggi il nuovo vento che soffierà sull’Eliseo
si chiama Sarkozy.
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