L'UNITA'di mercoledì 20 luglio 2005 pubblica un'intervista sul terrorismo alla scrittrice israeliana Shifra Horn, che riportiamo:La «normalità» nell'epoca dei kamikaze. Terrore, morte, speranza, amore. La quotidianità a Gerusalemme. È lo sfondo di «Inno alla gioia» (Fazi Editore), l’ultimo romanzo di Shifra Horn, la più affermata tra le scrittrici israeliane contemporanee.
Il nostro incontro avviene a Roma in occasione della presentazione a Roma del suo romanzo. «Per la prima volta rispetto ai miei precedenti soggiorni - osserva la scrittrice - avverto qui a Roma lo stesso clima di tensione e di paura che noi jerusalemiti conosciamo molto bene. La conquista di una vita normale, non condizionata dall’incubo degli assassini suicidi, è ciò che oggi deve unirci. È un "inno alla vita" contro i seminatori di morte».
Che cosa è oggi la «normalità» per chi vive nella «trincea di Gerusalemme?
«Gerusalemme non è una città "normale", a Gerusalemme noi non viviamo una vita normale. Alla fine però si finisce per convivere con questa minaccia. Si impara a conquistare spazi di socialità dentro una realtà segnata dal pericolo incombente. La minaccia del terrorismo la avverto per la prima volta rispetto ai miei viaggi precedenti anche qui a Roma. Questa presenza massiccia di forze dell’ordine mi dà la sensazione come se si temesse che Roma potrebbe essere un prossimo obiettivo dei terroristi. In questo, respiro un po’ del clima di Gerusalemme. È difficile, tremendamente difficile, oltre che profondamente ingiusto, convivere con l’idea che l’autobus che hai preso potrebbe esplodere, che quella persona potrebbe essere un terrorista...».
Il «prima» e il «dopo» nella vita di Yael, la protagonista del suo romanzo, è segnato da un attentato suicida su un autobus. Anche l’Europa, dopo il tragico 7 luglio londinese, si interroga su cosa siano e come combattere gli «shahid», i kamikaze del Jihad. Qual è in proposito la sua opinione?
«Questo fenomeno può essere contrastato, contenuto, ma non credo sia possibile sradicarlo completamente. Io non li chiamerei "kamikaze" ma assassini suicidi. Ho vissuto diversi anni in Giappone e ho cercato di informarmi, di studiare il fenomeno dei piloti-kamikaze giapponesi: lì era diverso, il loro obiettivo, il loro nemico era l’esercito statunitense. Non si facevano saltare in aria nelle città, in mezzo a donne e bambini. Quello degli attentatori suicidi è un fenomeno molto vigliacco, perché sono dei vigliacchi coloro che fanno il lavaggio del cervello a dei ragazzi trasformandoli in strumenti di morte, promettendogli magari 70 vergini nel paradiso di Allah o facendo leva su drammi personali. I manovratori, i reclutatori di terroristi suicidi, coloro che programmano le bombe umane per dare la morte a civili inermi sono dei vigliacchi, costringono altre persone a fare ciò che loro non avrebbero il coraggio di fare».
Nel suo libro, i protagonisti fanno i conti nel loro vivere quotidiano con una presenza incombente: quella del «Muro» di separazione.
«In realtà esistono due tipi di "muro": dove abito io, a Ghilo, che è un quartiere di Gerusalemme di fronte al quale c’è un villaggio palestinese, Beit Jala, che è sempre stato abbastanza tranquillo, abitato in gran parte da arabi cristiani. Solo che a un certo punto i terroristi hanno cominciato a infiltrarsi dentro Beit Jala e da Beit Jala sparare contro Ghilo. Il muro di cui si parla nel mio romanzo è il muro di Ghilo, alto tre metri, costruito per impedire che venga sparato dentro le case. Abbiamo cercato di "umanizzare" quel muro, dipingendo su di esso quel paesaggio naturale la cui vista ci era preclusa. Per quel che riguarda il Muro di separazione, le statistiche hanno dimostrato che questo nuovo muro è riuscito a prevenire molti attacchi suicidi. Abbiamo dovuto costruirlo, siamo stati costretti a farlo. Sappiamo che ha diviso famiglie, spezzato villaggi, che impedisce in alcuni casi ai bambini di andare a scuola. Ma siamo stati costretti a farlo. E come barriera anti-"kamikaze" ha funzionato. Vede, nel Talmud si dice che "se riesci a salvare anche una sola persona, è come se avessi salvato anche il mondo". Sappiamo che questa non è una situazione agevole per i palestinesi e neanche per noi. Ma se quel "muro" è riuscito a salvare anche una sola persona, allora penso che è meglio averlo...».
Gerusalemme rimanda anche alla presenza degli ultraortodossi, molti dei quali sono oggi in prima fila nel contrastare il piano di ritiro da Gaza.
«In Israele c’è la sensazione di essere quasi sull’orlo di una guerra civile. Nelle strade di Gerusalemme si fronteggiano gruppi di ragazzi che distribuiscono i fiocchi arancioni o blu, a seconda se sono contrari o favorevoli al ritiro. Gli ultraortodossi di Gerusalemme in realtà non sono mai stati sionisti: loro non sono neanche a favore della costituzione dello Stato d’Israele per ragioni bibliche. Diverso è il discorso che riguarda la destra religiosa che supporta il movimento dei coloni. Costoro interpretano la Bibbia in chiave politica, messianica. Sono i fautori di "Eretz Israel", della inviolabilità della Sacra Terra d’Israele, che proprio per essere sacra non può essere ceduta, neanche una zolla...È una minoranza esigua, per quanto agguerrita e motivata ideologicamente. L’israeliano medio è contrario a questi coloni oltranzisti, e pensa invece che il ritiro sia necessario. Abbiamo bisogno di lasciare quei territori per sentirci un Paese normale».
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