Una strana logica
per la quale Israele ha diritto di esistere, ma i terroristi hanno buoni motivi per colpire chi sostiene questo diritto
Testata:
Data: 14/07/2005
Pagina: 21
Autore: Bruno Gravagnuolo
Titolo: Terrorismo, quel mostro invisibile ha mille teste ma una siamo noi
"Terrorismo, quel mostro invisibile ha mille teste ma una siamo noi" è il titolo (tutto un programma) della recensione di Bruno Gravagnuolo al libro "Esiste davvero il terrorismo?" (idem), di Antonio Gambino, giornalista che è stato per anni campione di antiisraelismo sulle pagine dell'Espresso.
La tesi generale del libro, secondo la sintesi di Gravagnuolo, è quella, non nuova secondo la quale l'Occidente è responsabile del terrorismo che lo colpisce.
Vi è poi un passaggio dedicato a Israele, che riportiamo: "Poi c’è Israele, e la «ferita» che comunque esso incarna per gli arabi, di là delle sacrosante ragioni di Israele a esistere."
Qui la logica di Gravagnuolo (sospettiamo che Gambino, che ha sempre giudicato illegittima la creazione di Israele, sia stato più coerente, pur non avendo letto il suo libro) sembra piuttosto difettosa: da un lato l'Occidente è responsabile del terrorismo che lo colpisce, perché se lo sarebbe attirato sostenendo, per Gravagnuolo a torto, dato che questa supposta politica è inserita in un elenco di vere o presunte nefandezze, Israele nella sua lotta per l'esistenza, dall'altro Israele ha "sacrosante ragioni" di esistere ( espressione un po' strana: in genere gli stati non devono fornire "ragioni" per giustificare la propria esistenza, semmai la necessità di preservarla è una ragione dei loro comportamenti e delle loro scelte politiche).
Le due cose, come si vede bene, non possono essere entrambe vere. Per Gravagnuolo sì, invece.
Ecco l'articolo:Giovedì 7 luglio, giorno degli attentati londinesi. Durante un’intervista a Massimo D’Alema al Festival de l’Unità, Ezio Mauro direttore di Repubblica a un certo punto osserva: «Certo la guerra all’Iraq è stato un errore. Però l’attacco terrorista agli Usa risale all’11 settembre 2001, impossibile prescinderne...». Stilema e argomento ricorrente quello di Mauro, non infondato. E tuttavia D’Alema ha buon gioco nel replicarvi, con un «inquadramento comparativo» più ampio. Occorre considerare - dice D’Alema - lo scenario retrostante di fondo. E cioè, la lunga storia del fondamentalismo islamico, dai «fratelli Musulmani all’Afhganistan». E poi i contraccolpi di una «globalizzazione che ha mortificato ed eccitato l’identità delle masse islamiche». Fenomeno dinanzi a cui l’occidente è stato a lungo «distratto e superficiale».
Ebbene, il dialogo di cui sopra e l’abbozzo d’analisi di D’Alema, oltre a riprodurre discorsi «tipo» di questo periodo, fornisce un ottimo spunto per introdurci al contenuto di un veloce e ficcante pamphlet: Esiste davvero il terrorismo? (Fazi editore, pp. 78, euro 7). Ne è autore Antonio Gambino, tra i fondatori de L’Espresso e commentatore di politica internazionale. E il suo libro ha avuto la «fortuna» e la sfortuna di uscire proprio a ridosso della tragedia londinese, della quale per un soffio non ha potuto tenere conto. Nondimeno la piccola sfasatura nulla toglie alla sua attualità. Perché è come se il caso londinese vi fosse già incluso in filigrana e anzi proprio ciò che è accaduto il 7 luglio rende perspicuo il suo messaggio. E qual è il messaggio? Eccolo: per comprendere il terrorismo dobbiamo liberarci dalla nostra secolare arroganza e cercare di capire l’intreccio tra ciò che ci viene fatto e ciò che facciamo e abbiamo fatto agli «altri». In pratica quello di Gambino è un invito a contestualizzare i fatti, in una prospettiva geostorica e geopolitica comparata. L’invito a un «inquadramento comparativo», proprio nel senso soltanto abbozzato dal D’Alema di cui sopra. Da sviluppare però a fondo, ed evitando di restare impigliati nella tautologica e infeconda descrizione del terrorismo come «male assoluto». Senza nulla concedere al delirio terrorista, ovviamente.
Dunque, argomenta Gambino, c’è una storia rimossa dietro l’11 settembre. Ed è la storia delle sopraffazioni secolari dell’Europa e del mondo anglo-americano ai danni del mondo islamico. Prima col colonialismo e il terrorismo di stato coloniale (cristianamente esteso all’America latina e all’Africa per più di quattro secoli). Poi col neocolonialismo e la copertura di oligarchie mediorientali, vincolo alla emancipazione dei paesi arabi, anche in regime di indipendenza. Discorso che vale per l’Egitto pre-nasseriano, per l’Iraq pre-saddamita (ma anche saddamita!) , per l’Iran pre-khomeinista e ancor oggi per l’Arabia saudita, sorta di sentina integralista «wahabita», protetta dagli Usa e in affari con essi. Poi c’è Israele, e la «ferita» che comunque esso incarna per gli arabi, di là delle sacrosante ragioni di Israele a esistere. E infine c’è un ultimo ma decisivo elemento: la maturazione di una generazione araba colta e tecnicizzata. In bilico tra occidente e oriente. Frustrata dai fallimenti delle modernizzazioni islamiche e capace di fare da cassa di risonanza alla protesta delle masse diseredate e «orientate» dalla promessa salvifica fondamentalista. In pratica, come dice Gambino è accaduto che il mondo islamico più tradizionalista e istruito «grazie alla sua precisa identità culturale è diventato il punto di riferimento e di convergenza di spinte provenienti dall’intero mondo del sottosviluppo». Insomma, una catastrofe culturale, che è già quasi guerra di civiltà totalizzante e che conviene comprendere a fondo, se si vogliono evitare nuovi Olocausti. Da dove cominciare? Intanto «pulendo» i concetti, o almeno facendone uso più onesto. «Terrorismo» infatti è parola equivoca. In essa andrebbero inclusi anche i molti terrorismi «dall’alto» occidentali: da quelli coloniali a quello della brutale e iniqua guerra all’Iraq, vero «calcio al vespaio» (almeno 100mila morti tra militari e civili!). Poi, ripristinando la politica, e rifiutando la logica di guerra come «elaborazione paranoica del lutto», già chiave di volta delirante dell’identità kamikaze (e cfr. Marina Valcarenghi, L’insicurezza, Bruno Mondadori). Ma soprattutto respingendo il teorema di Bush: «colpirli fuori per non averli dentro». No, bisogna cominciare «da dentro». Dall’interno del rapporto tra «noi e loro». Senza abdicare al giusto uso della forza. Ma senza nuove guerre preventive. All’Iran magari.
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