IL FOGLIO di mercoledì 14 luglio 2005 pubblica in prima pagina un articolo sui terroristi suicidi che hanno condotto l'attacco a Londra.
Ecco il testo:
Londra. Chiacchieravano, sorridevano. La telecamera della stazione di King’s Cross li ha immortalati così: quattro ragazzi con gli zaini in spalla, l’aria da turisti. Poi le loro strade si sono separate: uno ha preso l’autobus "30", uno è andato ad Aldgate, uno a Edgware Road, uno lì, a King’s Cross. "I macellai con lo zaino", li ha definiti il Sun, anche se le fonti ufficiali della polizia non hanno mai usato l’espressione "suicide bombers". Nel filmato non mostravano niente di sospetto, nulla che potesse far immaginare il piano. I genitori di uno di loro – il più giovane per il momento, dato che il quarto non è ancora stato identificato: Scotland Yard ha detto soltanto che anche lui proviene dal West Yorkshire – hanno dato l’allarme una volta saputo dell’attentato a Londra: il figlio aveva detto che sarebbe andato "nella capitale con gli amici" e i treni dal nord arrivano a King’s Cross. Così Hasib Hussain compariva nella lista delle possibili vittime: è da lui che gli investigatori sono partiti per arrivare in un sobborgo di Leeds, nel nord, a perquisire sei case, a trovarne "almeno tre" che corrispondono a tre ragazzi scomparsi da giovedì scorso e a scovare una casa abbandonata soprannominata "bomb factory". Sono di Hussain i documenti ritrovati vicino all’autobus "30", esploso a Tavistock Square.
Hussain aveva 19 anni, viveva con la sua famiglia d’origine pachistana (come anche gli altri), un passato un po’ "burrascoso" – hanno raccontato alcuni vicini – ma a livello di crisi adolescenziale, non molto di più. Sembra però che i genitori, preoccupati, abbiano cercato di indirizzarlo verso persone che gli dessero maggiore disciplina, che gravitavano intorno alla moschea. Nell’ultimo anno e mezzo Hussain era diventato "estremamente devoto": pregava cinque volte al giorno, aveva fatto il pellegrinaggio alla Mecca. Nulla che potesse essere assimilato a qualche forma di fondamentalismo, dicono i testimoni: a Leeds nessuno ha sollevato qualche dubbio su di lui, come su nessuno degli altri sospetti terroristi. Anzi, l’amico di Hussain, Shehzad Tanweer, soprannominato Khaka, è descritto come "un tipo dolce", "sempre sorridente", "con uno straordinario senso dell’umorismo", "non interessato alla politica". Aveva 22 anni, una passione per gli sport, soprattutto per il cricket, che giocava quasi tutte le domeniche, e studiava scienze dello sport all’università di Leeds. Suo padre lavora in un "fish and chips shop", dove Khaka andava a dare una mano. Da dicembre a febbraio – ha detto un vicino – era partito con altri giovani musulmani per un viaggio in Afghanistan e in Pakistan, nella zona di Lahore, dove aveva frequentato una madrassa. I suoi documenti sono stati ritrovati vicino alla stazione di Aldgate.
L’ipotesi di "una mente" vicina o lontana
Il terzo attentatore identificato era il più grande: trent’anni, una moglie di 27 e una bambina di nove mesi. Mohammed Sadique Khan aveva sempre vissuto a Leeds, ma da cinque mesi si era trasferito a Dewsbury, dove lavorava in un centro per ragazzi disabili, insieme con la moglie che si "occupa di educazione". Seconda alcune testimonianze, la famiglia della moglie avrebbe avuto dei problemi ad accettare la sua presenza, perché "non seguiva con disciplina i precetti dell’islam". Sembra che i suoi documenti siano stati trovati vicino a Edgware Road, ma il Sun ha scritto che sarebbero stati rinvenuti con quelli di Tanweer, ad Aldgate.
Secondo alcune fonti, sarebbe Kahn il "mastermind", la mente dell’operazione, ma altre dicono che sia stato Tanweer ad aver organizzato l’attentato, prendendo le bombe nella casa abbandonata in cui sono stati trovati materiali esplosivi e pianficando il viaggio che da Leeds ha portato i quattro prima a Luton e poi a King’s Cross. Scotland Yard non ha rilasciato alcuna dichiarazione ufficiale, ma sembra che la tesi più accreditata all’unità antiterrorismo della polizia sia che i quattro sospetti fossero "soldati" di una "mente esterna", che non ha fisicamente partecipato all’operazione, ma che ha contribuito a costruirla. A sostegno di questa ipotesi, c’è che il plastico utilizzato nelle esplosioni non poteva essere stato costruito "in casa": ma su questo punto la polizia non ha fatto chiarezza. Intanto sono cominciati gli interrogatori dell’uomo arrestato ieri a Leeds e portato a Londra, ma non è ancora stato reso noto nulla al riguardo. Le perquisizioni nelle case dei "sospetti kamikaze" sono continuate anche ieri. Gli investigatori sono alla ricerca di ogni indizio che possa far capire se i quattro hanno agito da soli o se sono stati aiutati: "da lontano" o "vicino", che potrebbe voler dire che "il mastermind" è ancora in territorio inglese.
Sempre in prima pagina l'articolo di Annalena Benini "Il caso Allam", che riportiamo:
Roma. La verità si fa strada coi morti, dopo che Magdi Allam ce l’ha raccontata
per anni, e ascoltarlo faceva un po’ fatica. L’ha raccontata, dall’11 settembre 2001, dalle pagine della Repubblica, poi del Corriere della Sera, l’ha raccontata con i libri e con la condanna che si è guadagnato da Hamas. Magdi Allam, giornalista di origine egiziana, cittadinanza italiana e religione musulmana, laico e non praticante, è sotto scorta da due anni in quanto "nemico dell’islam", cioè condannato a morte. Per aver tradotto dall’arabo sulla
Repubblica, il 7 giugno 2003, le invocazioni conclusive di un imam durante la consueta preghiera collettiva del venerdì nella moschea di Roma: "O Allah fai trionfare i combattenti islamici in Palestina, in Cecenia e altrove nel mondo! O
Allah distruggi le case dei nemici dell’islam! O Allah aiutaci ad annientare i nemici dell’islam! O Allah assicura ovunque la vittoria della Nazione dell’islam!". Era la moschea di Roma, non era l’Iraq, non era l’Afghanistan. Pochi giorni dopo un giovane pizzaiolo egiziano fermò Magdi Allam a Roma e, per essere più incisivo, si passò la mano alla gola, mimando lo sgozzamento. E’ la "fabbrica" europea dell’odio, è l’ideologia della morte, passione
trasversale, non è niente di nuovo ma non va detto, per non spaventare, per
offuscare finché si riesce, per non offendere. Allam l’ha scritto di nuovo ieri sul Corriere: "C’è voluto il 7 luglio per costringerci a guardare in faccia la tragica realtà di un’Europa trasformata in "fabbrica di kamikaze". Dove, come in una catena di montaggio, si parte dalla predicazione che inneggia alla guerra santa, all’indottrinamento che inculca la fede nel ‘martirio’, all’arruolamento che nell’esercito dei mujiahiddin, allo smistamento nei campi della Jihad, fino ad approdare all’azione terroristica". Cittadini inglesi, cittadini olandesi, passaporti britannici che non si vuole guardare, di cui è meglio non parlare. "Gli occidentali faticano a comprenderlo. Ma è inevitabile che dovremo fare i conti con la realtà per come si presenta, non per come vorremmo che fosse", ha scritto Allam più di un anno fa, e a Repubblica per questi motivi qualche volta lo guardavano storto. Fu attaccato persino da Giuseppe D’Avanzo, suo collega per molti anni, perché scrisse che tra i terroristi che ammazzarono Fabrizio Quattrocchi in Iraq c’era un italiano. "Campagna di disinformazione", la chiamò D’Avanzo. Perché non si deve dire. Magdi Allam invece ci ha persino scritto sopra un libro, nel 2004, "Kamikaze made in Europe" (Mondadori): "L’11 settembre aveva fatto emergere con Mohammed Atta e la cellula di Amburgo la realtà della conversione all’estremismo islamico sul suolo europeo di immigrati originari di paesi arabi. Che sono andati a farsi esplodere in America. Il 30 aprile ha fatto scoprire che la fede nel ‘martirio’ fa ormai parte del Dna di fanatici islamici con cittadinanza europea". Perché il 30 aprile 2003, in un caffè di Tel Aviv, un ventunenne di origine pachistana che viveva a Derby, a 240 chilometri a nord di Londra, si fece esplodere provocando la morte di tre israeliani e il ferimento di cinquantacinque. Innescò la bomba che portava sotto i vestiti, provocò la strage. Con lui c’era un altro ragazzo di ventisette anni, nato a Derby, Omar Khan Sharif. Omar Khan Sharif era arrivato in Israele da tre settimane per farsi esplodere, ma il suo ordigno si inceppò e lui fuggì, il corpo fu poi ritrovato in mare. "Erano stati indottrinati, arruolati e inviati sul luogo del martirio da Hamas. Un lavaggio del cervello consumatosi nelle moschee britanniche", ha scritto Allam. Una svolta gigantesca e praticamente
ignorata, il terrorismo dell’occidente che a guardarlo fa male. "Tutto ciò è avvenuto alla luce del sole. Pubblicamente. E impunemente. Nonostante fosse già stato accertato che i primi due kamikaze britannici erano discepoli di Bakri". Che vive a Londra da 18 anni, ha dichiarato che "tutta la Gran Bretagna è diventata territorio di guerra e "la vita e le proprietà degli infedeli non sono
più sacre". Ha anche ordinato, ha scritto Allam, ai giovani islamici di arruolarsi: "Siete obbligati a seguire al Qaida, le sue filiali e organizzazioni nel mondo". La guerra è stata dichiarata all’occidente e in occidente, dalla strage di Madrid si è rivelato anche il fenomeno dei combattenti e dei kamikaze islamici immigrati in Europa che compiono stragi e si fanno esplodere proprio in Europa. Esattamente come è successo a Londra, pochi giorni fa. Con l’imbarazzo di ammetterlo. Magdi Allam è stato favorevole all’intervento in Afghanistan, e a quello in Iraq: nel suo ultimo libro "Vincere la paura" (Mondadori), per prima cosa ha reso omaggio ai
poliziotti iracheni che hanno dato la vita per le elezioni, per difendere i cittadini ai seggi dagli attacchi dei kamikaze. "Martiri della libertà", li ha chiamati, "perché senza di loro la vittoria di Bush sarebbe rimasta prigioniera del terrorismo". Ma "senza l’intervento militare e alleato non ci sarebbe
stato il 30 gennaio 2005", non ci sarebbero state le elezioni, la possibilità di una vita migliore. Allam ha firmato sul Corriere della Sera, il giorno dopo il massacro diBeslan, il manifesto dell’islam moderato (e per questo ha ricevuto le critiche di Oriana Fallaci, nell’"Apocalisse", a cui ha risposto
nel suo libro con una lettera aperta). Non ha mai inteso scagliarsi "contro l’islam che mi ha generato", ma ha deciso, da tempo, di chiamare le cose con il loro nome: "Non posso restare inerte di fronte al dilagare degli integralisti e degli estremisti islamici che di fatto ormai controllano la gran parte delle moschee in tutto l’occidente". Mette in guardia l’occidente mentre l’occidente
alza le spalle e guarda altrove riaffermando la fede multiculturale. "Possiamo continuare a far finta di niente – ha scritto in "Vincere la paura" – quando abbiamo la certezza che talune moschee in Italia fungono da reclutamento dei combattenti e degli aspiranti kamikaze islamici?". Finora, nonostante Magdi Allam, è andata così.
Sulla prima pagina dell'inserto prosegue il viaggio di Carlo Panella nei luoghi comuni politicamente corretti sulla guerra al terrorismo. (la prima parte è riportata da Informazione Corretta in "Contro il pensiero unico della resa al nemico islamista", 13-07-05)
Ecco l'articolo, "Vademecum dei luoghi comuni che non reggeranno al Jihad":IL TERRORISMO SI COMBATTE SOLO CON L’INTELLIGENCE E I SERVIZI SEGRETI
Dall’11 settembre 2001 questa è l’unica, ribadita, misera, indicazione strategica alternativa che il fronte degli oppositori alla guerra in Iraq ha enucleato. Indicazione peraltro subito svilita dalle denunce feroci che gli stessi propugnatori di questa strada – in Italia tutto il centrosinistra, Rifondazione e i pacifisti – avanzano contro tutte le azioni antiterroriste messe in campo con successo dai servizi segreti americani ed europei, come si vede in questi giorni nella vicenda dell’imam terrorista egiziano Abu Omar rapito in Italia dalla Cia. Non una strategia, insomma, ma uno stratagemma verbale di forze politiche che invocano l’azione dei servizi segreti nel momento stesso in cui la contrastano quando si concretizza nel modo "sporco"
che è – e deve essere – connaturato all’azione degli agenti segreti. Null’altro che una nuova, illusoria "Linea Maginot".
D’altronde, l’esperienza storica dimostra come i servizi segreti altro non possano essere che un fondamentale supporto nelle attività belliche, a queste subordinati; che non abbiano mai avuto nessun ruolo risolutivo in nessuna emergenza. Si pensi che i più efficaci e feroci servizi segreti del mondo, quelli hitleriani, Gestapo in testa, non sono riusciti a impedire il più clamoroso atto terrorista della storia: l’attentato di Claus von Stauffenberg ad
Adolf Hitler, nella sede del suo quartier generale il 20 luglio 1944, fallito solo per un fortunoso contrattempo. Né quelli statunitensi, l’attacco proditorio giapponese di Pearl Harbor il 7 dicembre 1941, né l’agguerrito Mossad, l’attacco egiziano a sorpresa del 6 ottobre 1973 durante la festività
ebraica dello Yom Kippur. Ma questa indicazione degli oppositori della guerra contro l’eversione musulmana, è grave per una ragione più profonda, dimostra infatti un pieno fraintendimento della natura del terrorismo islamico. L’azione
dell’intelligence infatti – lo si è visto in Italia e in Germania negli anni 70 e 80 – può essere utile – sempre come supportoattraverso le infiltrazioni e le indagini, solo nel caso che il nemico da battere sia una organizzazione marginale, una struttura eversiva gerarchizzata e militarizzata. Ma il terrorismo islamico non ha queste caratteristiche: non è affatto piramidale,
ma esprime cellule terroristiche magmatiche, diffuse, per nulla gerarchizzate. E’ un "movimento popolare" multipolare. La sua rete organizzativa – questo è il punto – non è "a latere" delle strutture tradizionali, ma si basa sul network secolare delle moschee, dei luoghi di culto. Non è il prodotto di una ideologia di rottura con la tradizione (comunista, anarchica, nazi-fascista), ma nasce, cresce e agisce nel corpus millenario della tradizione islamica. Non è radicato
in settori sociali marginali, ma nel centro della umma dei fedeli musulmani.
Il terrorismo islamico è ideologicamente omogeneo con il fondamentalismo islamico che propugna, con largo seguito di massa, una "riforma", un ritorno alla koiné musulmana delle origini. Basta guardare alla assenza di autorevoli
fatwà contro i terroristi islamici da parte delle grandi strutture religiose dell’islam – denunciata con vigore da Dalil Boubakeur, presidente del Consiglio islamico di Francia – alle tante fatwà che legittimano il terrorismo palestinese, quello ceceno e quello iracheno dell’autorevolissimo Yusuf al
Karadawi, star mediatica di al Jazeera, leader del Consiglio europeo delle fatwà, per rendersi conto che i terroristi islamici "nuotano come pesci nell’acqua" di un ampio consenso popolare. Re Abdallah di Giordania, due giorni dopo gli attentati di Londra, ha organizzato ad Amman una riunione tra i più autorevoli ulema sunniti e sciiti per tentare di iniziare a contrastare questo fenomeno di fiancheggiamento, per contrastare quel relativismo che legittimando certe azioni terroriste (contro gli israeliani, i russi gli americani), apre le porte a tutti gli altri. Iniziativa encomiabile, che però parte da un assunto drammatico: sino ad oggi la cultura del terrorismo di massa è stata tollerata, non contrastata, non scomunicata. Appunto.
IL LAICO SADDAM ERA OSTACOLO ALL’AFFERMARSI DI AL QAIDA
Spesso ci si stupisce dell’evidenza con cui Hitler aveva scritto tutto, ma proprio tutto quello che aveva intenzione di fare in Europa nel 1924, nel suo "Mein Kampf", e ci si chiede se i leader democratici europei di allora, a partire dal pacifista premier inglese Neville Chamberlain l’avessero letto. Probabilmente no, e la cosa è comprensibile solo alla luce del fatto che si tratta di un mattone scritto malissimo, spesso sconclusionato, messo in ordine alla meno peggio da Rudolf Hess e quasi illeggibile. Ma oggi, chi sostiene la tesi dell’inutilità della guerra per contrastare il terrorismo, chi, come
gli inviati di Repubblica, continua a propalare la fola del ruolo antifondamentalista costituito dal regime Baath, di nuovo, dimostra di non aver letto non solo i fatti, ma neanche i testi dei terroristi islamici. Pure, come Hitler, Osama bin Laden e gli altri leader terroristi musulmani sono sempre
stati estremamente chiari: il jihad è proclamato nel 1998 per abbattere tutti i governi musulmani illegittimi e "crociati e gli ebrei" che li appoggiano. Per uccidere gli apostati. La sua necessità, il suo obbligo, secondo bin Laden, si badi bene, nasce dalla scelta compiuta dall’Onu – non dagli Usa, dall’intera comunità mondiale, Lega Araba in testa – di concentrare un’armata internazionale
in Arabia Saudita per liberare il Kuwait annesso manu militari da Saddam Hussein il 2 agosto 1990. Esattamente come gli storici parlano oggi ormai della "guerra dei trent’anni", per definire il periodo che va dal 1914 al 1945, indicandone così una intrinseca unitarietà, una dipendenza assoluta, quasi meccanica, della prima e della seconda guerra mondiale, così è indispensabile
parlare di una "guerra dei 15 anni" (per ora) per ammettere quello che i fatti
urlano: la guerra di aggressione lanciata dal Baath iracheno nel 1990 è anche l’elemento scatenante del suo secondo tempo, il jihad di al Qaida che vuole, dichiaratamente, esplicitamente, riparare alla sconfitta e alla umiliazione del 1991. E’ evidente che questa intrinseca unitarietà è difficile da cogliere per tutti i pacifisti europei come per i dirigenti dei Ds e della sinistra Dc che oggi rappresentano la leadership italiana del centrosinistra, che nel 1990-91 marciarono nelle piazze sotto le bandiere arcobaleno per contrastare quella
guerra, più che legittimamente organizzata dall’Onu, con tutti i crismi della legalità internazionale. Ma la staffetta tra il laico "Saddam Hussein" (che laico non è, è un musulmano che veste la jallaba e va in televisione a proclamare il jiahd: la madre di tutte le battaglie) e il fondamentalista bin
Laden si consolida proprio in questi anni. Non è solo un problema "meccanico", vi è proprio una intima consonanza ideologicoreligiosa tra il jihad di Saddam e quello di Osama, celebrato a Khartoum, in Sudan, in una conferenza islamica convocata dall’ideologo musulmano al Tourabi, a cui partecipano gli ulema di Saddam (gli stessi che coprono oggi la "ribellione sunnita), l’Olp di Yasser Arafat, lo stesso bin Laden e organizzazioni musulmane europee. Non si comprende la decisione di George W. Bush di colpire con una guerra l’Iraq, dopo l’Afghanistan, se non si legge tutta la corposa documentazione (spesso citata dal Foglio) che dà conto di come le amministrazioni Usa – comprese le due di Clinton – ritengono che quella guerra sia solo sospesa con il fallimento della insurrezione sciita del 1991 e con la decisione di George Bush padre di non forzare il mandato dell’Onu che si limitava alla liberazione del Kuwait. Tanto sospesa che Clinton bombarda Baghdad nel 1998, appunto con un’azione bellica,
per rispondere agli attentati terroristici di al Qaida a Nairobi e Dar es Salaam. Sia pure confusamente, insomma, a Washington si consolida la valutazione che l’Iraq di Saddam – che ha sempre finanziato Abu Nidal e Abu Abbas, che nel 1998 appalta a al Qaida trasmissioni radiofoniche di propaganda religiosa, che ospita già nel 2001 al Zarqawi in Iraq per costruire la sua rete terroristica (come spiega Bonini su Repubblica), è il motore immobile, il vero santuario di una iniziativa aggressiva e terroristica che punta, e lo rivendica apertamente, ad allargare il territorio dell’Islam, il dar al Islam.
LA GUERRA IN IRAQ HA RAFFORZATO IL TERRORISMO ISLAMICO
Chi sostenesse che le attività – irrisorie sul piano militare – dei partigiani italiani e francesi contro i nazi-fascisti, ottenevano solo l’effetto di scatenare sulla popolazione civile e su innocenti (vedi le Fosse Ardeatine), una ritorsione barbara, verrebbe tacciato di infamia.
Ma, in realtà, proprio chi è in prima fila a lanciare questa accusa a chi critichi la Resistenza – l’ampio fronte dei pacifisti e delle sinistre – esprime la stessa identica critica a proposito dell’Iraq e accusa la guerra anglo-americana, di avere solo ottenuto il risultato di potenziare le leve del
terrorismo iracheno. E’ evidente che numericamente – anche grazie a errori americani straordinariamente simili, in nuce, a quelli della drôle de guerre – vi sono oggi molti più terroristi islamici in Iraq di quanti non ve ne fossero (e ve ne erano a migliaia, nonostante quanto sostengono le anime belle) al 22 aprile 2003, alla caduta della Baghdad di Saddam Hussein. Ma è altrettanto evidente – esattamente come accadde in tutti i paesi europei in cui agì la Resistenza antinazista – che queste forze terroriste altri non sono se non la risposta alla chiamata alle armi del jihad baathista-fondamentalista che iniziò a saldarsi nel 1990-91 e che ora vede nel rafforzarsi lento, ma inesorabile, della democratizzazione del governo iracheno un pericolo non solo per l’Iraq, ma per tutta la umma musulmana. Il governo iracheno è oggi l’unico, assolutamente unico governo arabo eletto su base democratica nel mondo (ad eccezione di quello marocchino, in cui però la componente fondamentalista è artificialmente compressa, saggiamente, dal re Mohammed VI). E’ vero che anche Abu Mazen è stato democraticamente eletto ma così non è affatto per il governo di Abu Ala: il parlamento a cui l’esecutivo palestinese rende conto e da cui trae legittimità, il Consiglio nazionale palestinese, è costituito di fatto dalla sola Olp e infatti non comprende quell’Hamas che godrebbe di un 30-40 per
cento di suffragi. Combattere contro questa prima democrazia araba è la vocazione di non meno di 2.500 fanatici (e benestanti) sauditi che hanno
passato la frontiera (e 400 si sono fatti saltare in aria in attentati) e si sono uniti alla "internazionale islamica" che combatte la prima esperienza democratica araba del mondo. E’ segno di ben poca profondità d’analisi – e anche un po’ demenziale – non saper cogliere il dato di fatto che se lo "scandalo" dell’occupazione americana dell’Iraq ha creato questo tipo di risposta, significa che la cultura del jihad più feroce, l’aspirazione al "martiro islamico", la condivisione di valori totalitari, bellicisti, di un finalismo religioso fanatico e aggressivo era preesistente, radicata, diffusa, pronta ad emergere alla prima occasione. D’altronde, l’esecuzione barbara dell’ambasciatore egiziano, così come quella delle decine di lavapiatti, aspiranti poliziotti, le stragi di centinaia di donne e bambini arabi, di più di mille, ormai, fedeli musulmani straziati da kamikaze dentro le moschee irachene, stanno a dimostrare che se non c’era – ed effettivamente poteva non esserci – l’innesco dell’invasione americana dell’Iraq, l’esplosione di questo atroce jihad sarebbe stata innescata da un altro detonatore: lo sfacimento interno del regime baathista, la crisi dinastica saudita, una aggressione iraniana, o altro.
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita. lettere@ilfoglio.it