IL FOGLIO di venerdì 8 luglio 2005 pubblica a pagina 1 dell'inserto l'articolo di Anna Barducci "Visto da Israele", che riportiamo:Roma. Quando si sente parlare di un attentato,
di qualsiasi matrice sia, inevitabilmente
si pensa a Israele. Lo Stato ebraico
negli ultimi anni d’Intifada, e in tutta la
sua storia di paese continuamente sotto attacco,
ha dovuto sviluppare un servizio
d’intelligence che potesse prevenire l’attuazione
di attacchi terroristici nel paese.
Le operazioni militari come Scudo di Difesa
nei Territori, intrapresa nel marzo 2002
dopo che in un solo mese i gruppi armati
avevano ucciso 120 persone, sono servite a
evitare la morte di altri israeliani.
Gli obiettivi civili sono il bersaglio più
facile e colpire loro significa creare un forte
impatto psicologico sulla popolazione.
Gli attentati di Madrid provocarono un
senso di timore tra gli spagnoli: invece che
un desiderio di reazione forte, ci fu una voglia
di ritrarsi dalla prima linea della guerra
al terrorismo. In Israele, attacchi suicidi
come quello in un bus del 19 agosto 2003
a Gerusalemme, con un bilancio di 22 morti
e 135 feriti, rendono invece intransigenti
sia la popolazione sia il governo a continuare
la politica di difesa contro i gruppi
armati. "Non si può comparare la situazione
in Israele con l’attentato in Gran Bretagna
– dice al Foglio Eli Karmon, analista
all’International policy institute for counter-
terrorism al Centro interdisciplinare di
Herzliya – Non si può parlare nemmeno di
un calo di tensione dello stato d’allerta
delle forze dell’ordine inglesi. Non ci sono
mai stati attentati di questo tipo nel paese,
ma soltanto retate di arresti e qualche attacco
sventato o fallito. Scotland Yard, secondo
quanto riportato finora, era informata
di un piano per un grande attacco
terroristico, che avrebbe sconvolto il paese
in questo periodo. Il Regno Unito però
non è mai stato colpito direttamente come
Israele. Il nostro esercito è continuamente
sotto stato d’allerta, anche nei momenti di
tregua, perché sappiamo che un attentato
potrebbe scoppiare da un momento all’altro,
nonostante non sempre sia possibile
prevenirli tutti".
I servizi non lavorano sul presente apparente
Per Yigal Carmon, ex consigliere dell’anti-
terrorismo per vari premier israeliani,
colonnello dell’intelligence per venticinque
anni e presidente del Middle east media research
institute (Memri), è importante che i
servizi d’informazione europei possano collaborare
per prevenire gli attentati. "I servizi
di sicurezza non lavorano sul presente
apparente. Può essere anche un periodo di
calma, ma questo non deve importare o influire
sul loro operato. Il loro compito è di
focalizzarsi sulle informazioni dell’intelligence
o sulla loro mancanza. Quando si ricevono
dati sicuri, allora si lavora, incentrandosi
su di essi, quando sono generali si
cerca di capire che linea seguire – dice Carmon
– I mezzi di trasporto, come ci insegna
la storia, sono i target preferiti per portare
a termine stragi di massa. I media hanno riportato
che le forze di sicurezza inglesi erano
a conoscenza già da una settimana che
un attentato poteva essere attuato. Quello
che bisogna capire è quale tipo d’informazione
avevano ricevuto. Se era generale o
specifica e se permetteva di prendere misure
di prevenzione o no. Una cosa importante
è che i media inglesi non hanno ancora
mostrato alcuna immagine dell’accaduto.
Una politica giusta, che purtroppo Israele
ha infranto da tempo. Quando avviene un
attentato terroristico immediatamente le tv
isrealiane si precipitano a riprendere e i
giornalisti fanno domande alla polizia. Involontariamente,
a volte, accade che gli ufficiali
lascino trapelare informazioni. In
questa occasione, l’intelligence britannica
ha fallito. E’ quindi necessario non fare riprese
né domande ai servizi di sicurezza e
lasciare i terroristi nel buio. Non devono sapere
se sono sulle loro tracce. Quando ero
il consigliere per l’anti-terrorismo del primo
ministro ci riunivamo ogni settimana
per verificare le informazioni dell’intelligence.
E poi coordinavamo con l’esercito, la
polizia e le varie forze dell’ordine la risposta
necessaria per reagire alla minaccia. Dividevamo
l’intelligence in informazioni contro
bersagli dentro il paese e target israeliani
all’estero. A volte, avevamo sessioni ad
hoc infrasettimanali. La posizione di consigliere
per l’anti-terrorismo accanto alla figura
del premier era stata creata per valutare
i dati dell’intelligence e preparare una
reazione nazionale militare adeguata". Negli
Stati Uniti, l’incarico di principale consigliere
dell’intelligence per il presidente è
stato creato dall’Amministrazione Bush.
L’attuale direttore dell’intelligence nazionale,
John Negroponte, coordina quindici
servizi informativi. L’Europa fino a oggi non
ne ha ancora uno.
Sempre a pagina 1 dell'inserto troviamo l'articolo di Christian Rocca "Visto dall'America", che riportiamo:Il Foglio ha chiesto ad alcuni analisti ed
editorialisti americani, conservatori e liberal,
di commentare l’attacco islamista a
Londra e di provare a immaginare che cosa
potrà accadere nel momento in cui il quadro
sarà più chiaro. Quali possibili reazioni ci dovremmo
aspettare dai britannici, se la strage
indica un cambio di strategia dei terroristi e,
infine, se cambierà la risposta occidentale al
fondamentalismo islamico. Max Boot, editorialista
del Los Angeles Times e studioso al
Council on Foreign Relations, crede che non
ci sia stato niente di particolarmente nuovo
nella strategia terrorista a Londra. "Sembra
tutto molto simile a quanto successo a Madrid".
Secondo Boot, "i terroristi volevano fare
qualcosa del genere da un bel po’ di tempo,
ma sono sempre stati ostacolati dai servizi
segreti. Eppure è inevitabile che kamikaze
così determinati prima o poi ci riescano. Nessuno
può proteggere adeguatamente un grande
sistema di trasporto pubblico come quello
di Londra o di Madrid o di New York o di
Roma". Quanto alle reazioni inglesi, Boot
prevede "una predominante risposta simile
a quella americana, vale a dire un raddoppio
della determinazione a sconfiggere il terrorismo,
a vincere in Iraq e a non cedere ai terroristi".
Boot immagina anche "una minoranza
in Gran Bretagna, e magari un po’ più
di una minoranza nel resto d’Europa, che
proverà a riproporre risposte centrate sull’appeasement,
ovvero sulla pacificazione in
cambio di qualche concessione. Purtroppo
non c’è modo di scendere a patti con costoro,
visto che il loro obiettivo è semplicemente
quello di creare un califfato globale. Credo
che ci dovremmo aspettare altri attacchi come
questi negli Stati Uniti, in Danimarca e in
Italia, cioè in quei paesi che si sono opposti
al terrorismo. Il punto sarà capire se l’Europa
riuscirà a gestire il rapporto con la sua minoranza
musulmana interna. Fin qui la maggior
parte dei paesi europei non ha preso misure
di polizia interna sufficienti, come quelle
necessarie a chiudere le moschee dove si
predica la violenza. Sebbene in ritardo, ora
immagino che ci sarà un giro di vite, ma gli
europei dovranno trovare il modo di assimilare
gli immigrati. Potranno imparare qualcosa
dagli Stati Uniti, anche se non esiste un
modo veloce, facile e sicuro per riuscirci".
Paul Berman: leggete la rivendicazione
Il saggista liberal Paul Berman, autore di
"Terrore e Liberalismo" e del prossimo
"Power and Idealists" (dove sostiene che la
sinistra pronta a usare la forza per proteggere
i diritti umani e sconfiggere il totalitarismo
islamico è la vera erede dei radicali
degli anni ’60) nota che "la rivendicazione
dei terroristi ha descritto la strage come
una risposta alle guerre in Iraq e in Afghanistan.
Attenzione: non solo in Iraq, ma anche
in Afghanistan. La stessa cosa dissero
dopo Madrid. L’idea che l’Iraq e l’Afghanistan
siano un’unica guerra è molto chiara a
Bush, Blair e ai loro alleati. E’ chiara alle
persone comuni come me ed è chiara alle
cellule di al Qaida in Europa. Non è chiara
soltanto a una parte dell’occidente. Immagino
che, come successe dopo Madrid, una
buona parte della gente dirà: ‘Avete visto?
La guerra in Iraq è stata un errore’. E non
diranno niente sull’Afghanistan".
Un altro liberal come il sociologo Thomas
Cushman, direttore del Journal of Human Rights
e autore di "A matter of principle: humanitarian
arguments for war in Iraq", crede
che "gli inglesi, a differenza degli spagnoli,
non cederanno. Sono abituati all’Ira e sanno
che cosa fare. La strage contribuirà ad aumentare
il sostegno per le misure forti che
Blair deciderà di prendere. Gli altri europei
invece continueranno a criticare le azioni
americane. Preferiscono pestare sull’America,
invece che combattere il terrorismo. Il
problema è questo. Tanto più che il loro comportamento
diventa la più importante strategia
a disposizione di al Qaida. La sinistra continuerà
a cercare ‘la causa’ del terrorismo e
sosterrà la tesi che la guerra in Iraq ha creato
più terroristi. Naturalmente la migliore risposta
è quella di rafforzare l’attuale strategia
e di non cedere ai ricatti dei difensori dei
diritti civili, i quali continuano a non capire
la situazione di sicurezza in cui viviamo e si
preoccupano più dei diritti dei sospetti terroristi
che delle carneficine di innocenti. Il
problema principale della sinistra è di non
capire che il potere e la forza devono essere
usati per proteggere le società liberali. E che
non sempre sono un male". Secondo Cushman,
il fatto che i terroristi abbiano scelto di
attaccare nel giorno in cui il G8 si riuniva per
risolvere i problemi della povertà "dimostra
che a loro non importa niente degli oppressi
e dei deboli. A loro interessa soltanto destabilizzare
le libertà e la società civile occidentale
per instaurare la loro regressiva visione
sociale".
Christian Rocca
A pagina 15 LA STAMPA pubblica un'intervista di Paolo Mastrolilli a Daniel Pipes, consigliere di Bush per il Medio Oriente, "Combatterli a Baghdad non ci mette al riparo a casa" ( va sottolineato che Pipes, comè chiaro dall'intervista, non ha il minimo dubbio sull'opportunità di combattere i terroristi islamisti anche a Baghdad)
Ecco il testo:Daniel Pipes è convinto che i terroristi non sanno cosa fanno: «Pensano di intimidire l’Occidente, ma otterrano l’effetto opposto». Il consigliere del presidente Bush per il Medio Oriente è impegnato in questa battaglia da anni, e cerca di spiegarsi la logica degli attentati di Londra: «È sempre difficile esaminare la strategia dei terroristi, perché partono da premesse sbagliate sulla nostra società. Non la conoscono, non capiscono la forza della democrazia, e quindi prendono iniziative che spesso portano al risultato opposto di quello auspicato. Nel caso dell’11 settembre, così come in quello di Madrid e degli altri attentati più sanguinosi, l’obiettivo era impaurire il pubblico e provocare un cambiamento nella politica dei governi. Forse gli attacchi di Londra hanno lo stesso scopo, ma non lo raggiungeranno. Quando gli Stati Uniti furono colpiti a New York e Washington, reagirono lanciando una guerra globale al terrorismo. Gli inglesi faranno lo stesso, rendendo impossibile all’estremismo islamico di operare sul loro territorio».
Eppure gli attentati di Madrid ebbero un effetto sulle elezioni, e il governo socialista di Zapatero decise il ritiro dall’Iraq.
«Io penso che anche quegli attacchi si sono ritorti contro chi li ha condotti. È vero che un migliaio di soldati spagnoli ha lasciato Baghdad, ma da quel momento in poi l’impegno di Madrid contro l’islam radicale si è moltiplicato. I terroristi, in sostanza, hanno guadagnato molto meno di quanto hanno perso. Lo stesso succederà nel caso di Londra».
Chi ha organizzato gli attentati di ieri?
«La teoria investigativa principale punta su una cellula locale. Al Qaeda si è decentralizzata, ormai ci sono estremisti in ogni paese occidentale pronti a colpire. Sono ispirati dall’ideologia di Osama bin Laden, ma non ricevono necessariamente ordini e aiuti da lui o dagli altri leader dell’organizzazione originaria. Questi gruppi colpiscono dove e quando possono».
Lei non crede che ci sia un collegamento col vertice dei G8? «È molto probabile, ma non sicuro. L’attenzione del mondo era puntata su Gleneagles, e quindi aveva senso colpire in Gran Bretagna a scopi pubblicitari. Londra, però, era nel mirino da anni, e quindi i terroristi possono aver deciso di attaccare solo perché avevano la disponibilità per farlo. Di certo hanno riportato il focus sul problema, se questo era nel loro interesse».
Gli investigatori dicono che non c’erano segnali sulla preparazione di questi attacchi, e il modo in cui sono stati organizzati li preoccupa, perché potrebbero aver coinvolto kamikaze. Quanto è alta la possibilità che si ripetano negli Stati Uniti?
«I terroristi non hanno ancora attaccato il sistema dei trasporti in qualche grande città americana per due motivi: al momento non hanno la capacità di farlo, oppure non la considerano una buona idea. La prima tesi si basa sul fatto che dopo l’11 settembre le nostre difese sono migliorate, e quindi i nemici hanno più difficoltà a penetrarle. La seconda, invece, sottolinea che un simile attentato non sarebbe abbastanza clamoroso, rispetto all’11 settembre, e non raggiungerebbe gli effetti desiderati. Invece di piegare gli americani, infatti, li rafforzerebbe ancora di più nella loro reazione».
Il presidente Bush dice che bisogna combattere i terroristi in Iraq, per non affrontarli sul territorio americano. Gli attentati di Londra, principale alleato di Washington, smentiscono questa teoria?
«Io, in realtà, non l’ho mai condivisa. Noi siamo impegnati in una guerra globale, che riguarda tanto gli uomini di al Qaeda presenti a Baghdad, quanto quelli nel resto del mondo. In varie occasioni i terroristi hanno dimostrato di avere già abbastanza personale in Occidente, per colpire dove vogliono. Anzi, molti militanti stanno andando dall’Europa all’Iraq per aggredirci, invece del contrario. No, i terroristi sono già ovunque, e combatterli a Baghdad non ci garantirà dal fatto di doverli combattere ancora anche a New York».
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