Scrive Claudio Lodici in un suo articolo pubblicato dal RIFORMISTA di giovedì 7 luglio 2005 "è preferibile un Iran con armi nucleari ma moderato e disposto a giocare secondo le regole a un Iran violentemente ostile e pronto a fare qualsiasi sforzo surrettizio per acquisire tecnologia nucleare come reazione a politiche aggressive o interventi militari occidentali o americani".
Di un Iran moderato per ora non sembra esserci traccia: forse Lodici non si è accorto della vittoria "elettorale" di Ahmadinejad.
Un Iran nucleare potrebbe anche essere più vicino nel tempo di quanto si immagini.
E sarebbe, con ogni probabilità, un Iran nucleare ed estremista. La terza ipotesi che Lodici ha scartato.
Una grave minaccia per Israele, per l'Occidente, per i paesi arabi e islamici circostanti, che probabilmente darebbero vita a una pericolosa corsa agli armamenti.
Altro che Iran che "può stabilizzare il Medio Oriente", come recita il titolo, allora.
Ma Lodici sembra credere alla visione europea del Medio Oriente, così ben descritta e criticata da Emanuele Ottolenghi (vedi Tra Europa e Stati Uniti c'è di mezzo il Medio Oriente, Informazione Corretta 06-07-05). non a caso indica la necessità di un intervento esterno che risolva il conflitto tra Israele e palestinesi il primo punto in agenda nella politica internazionale da lui auspicata.
Dimenticando poi il ruolo destabilizzante dell'Iran , che finanzia Hezbollah e attraverso di esso Hamas, in quello stesso conflitto, quando propone aperture avventuristiche al regime dei mullah.
Ecco l'articolo:C’è un problema grave che i progressisti devono risolvere in fretta: l’assenza di una strategia complessiva della sicurezza. Riguarda i democratici in America come le forze del centrosinistra in Europa. Per certi versi, in Italia la situazione è resa ancora più complicata dalla riluttanza dei dirigenti politici a coniugare liberalismo e realismo, talora a contemplare l’uso della forza. Eppure la responsabilità del governo impone la necessità di impiegare l’elemento militare, sebbene nella maggior parte dei casi come fattore deterrente o di pressione.
Il fatto che i neoconservatori, in questi ultimi anni, abbiano fatto un uso spregiudicato della retorica dell’internazionalismo democratico può avere indotto molti progressisti a rifugiarsi nell’estremo opposto, ridimensionando il dovere di una politica estera coerente e privilegiando esclusivamente gli obiettivi di pace e stabilità. Ma questi obiettivi non possono essere realizzati in assenza di una dottrina della sicurezza la cui cornice sia assicurata dal diritto internazionale e dalle istituzioni costruite alla fine della seconda guerra mondiale. Una dottrina congegnata per proteggere i valori nei quali crediamo: lo Stato laico e di diritto, l’eguaglianza, l’inclusione, la tolleranza, la coesistenza civile, culturale e religiosa. I neoconservatori sono dei pessimisti che credono nell’egemonia della forza. Credono di vivere in un mondo hobbesiano, dove il solo modo per impedire le invasione barbariche consista nel fare sortite oltre le mura e uccidere i barbari. La conseguenza è che la destra, a cominciare dall’amministrazione Bush, ha relegato il governo dell’economia mondiale a un fatto accessorio, e non strategico, come meriterebbe. Lo dimostra la relativa indifferenza rispetto al collasso dell’Argentina.
Un giorno, internazionalisti e realisti, liberali e idealisti dovranno comunque fare i conti con la realtà dei problemi pratici su cui i neoconservatori hanno fallito. A cominciare dalla guerra al terrorismo, che è il sintomo di un problema molto più serio. Il mondo in cui viviamo sta attraversando una fase di grande risveglio politico. È una realtà assolutamente nuova. Crea disordine, conflitto e animosità, che spesso conducono al terrorismo. Il coinvolgimento occidentale - e americano soprattutto - in Medio Oriente ha indirizzato parte di quel terrorismo verso gli Usa e, seppure in misura minore, l’Europa. L’11 settembre è arrivato così, non per un conflitto di civiltà. E infatti, il terrorismo non definisce la completezza del problema.
È un errore pensare che siamo in una fase di lotta globale contro il terrorismo. Una formula di questo tipo unisce i nemici e divide gli amici, invece di conseguire il risultato opposto. Rende più difficile incoraggiare i paesi arabi moderati e ci mette in una relazione conflittuale verso l’intero Islam. E, peggio di ogni altra cosa, non corrisponde alle aspettative di miliardi di persone che, per la prima volta nella storia dell’umanità, diventano politicamente attive. È una delle conseguenze della rivoluzione tecnologica nelle telecomunicazioni (satelliti, internet, eccetera). Serve allora ripensare il nostro futuro e formulare un’agenda di governo internazionale. E serve partire dal Medio Oriente, perché è da lì che proviene la minaccia terrorista rivolta contro l’occidente. In questo caso, sono tre le questioni da porre in cima alle priorità: il processo di pace fra Israele e Anp, l’esigenza di un’uscita progressiva e credibile dall’Iraq, la normalizzazione delle relazioni con l’Iran. Questo sarebbe solo l’inizio di un processo di stabilizzazione. Ma nessuna delle priorità indicate può essere fronteggiata con successo senza un peso politico dell’Unione europea e senza un rilancio della collaborazione fra europei, americani e giapponesi, cioè le parti più ricche della popolazione mondiale a cui spetta occuparsi dei problemi delle masse che si sono risvegliate politicamente.
Sarebbe impossibile esaurire un’agenda di questo tipo in uno o cinque anni, ma almeno ci consentirebbe di concentrarsi sui dilemmi politici e morali dell’ineguaglianza nella condizione umana. In questo senso, i primi passi concreti da intraprendere potrebbero consistere in una più ampia disponibilità a concedere ai paesi meno sviluppati alcuni privilegi, in termini di accordi economici, e nell’attribuzione di maggiore peso ai diritti dei lavoratori in quegli stessi paesi. Si tratterebbe, essenzialmente, di non accontentarsi dei benefici marginali della globalizzazione ma di usare la globalizzazione medesima come parte di una politica sociale globale in grado di affrontare i problemi che intensificano il fermento sociale prodotto dalla nuova coscienza politica.
Tutto ciò richiede la leadership, in primo luogo da parte dell’America. Che non ha niente a che vedere con la paura del mondo esterno, presentata in forme quasi sataniche, ma che al contrario si appella alla tradizione delle soluzioni multilaterali ogni volta possibile, con la consapevolezza, tuttavia, che talora il multilateralismo non sarà alla portata. È una filosofia che deve essere tradotta in programmi dai dirigenti politici, il cui dovere è indirizzare l’opinione pubblica una volta che si è identificata e articolata la sfida.
La politica estera non può essere condotta in modo demagogico. Può al massimo essere illuminata. Riconosce le realtà dei rapporti di forza e dell’uso della forza ma non può fare a meno degli ingredienti necessari rappresentati dalla legittimità e dal consenso morale. Ci vuole ottimismo. È ancora possibile una correzione di rotta. Gli europei hanno il dovere di parlare con una voce e incoraggiare gli americani a impegnarsi di più nel processo di pace israelo-palestinese e a intensificare il dialogo con gli iraniani sulle questioni della sicurezza, in modo da mitigare i problemi inerenti al loro programma nucleare: condizioni indispensabili per uno scenario meno catastrofico. L’Iran è molto diverso dall’Iraq. Il problema fondamentale dell’Iraq è l’assenza degli iracheni. Ci sono curdi, arabi sunniti, arabi sciiti, turcomanni sciiti e turcomanni sunniti. L’Iran, invece, è un paese storicamente definito, con un senso profondo del proprio valore e della propria identità. Non è uno Stato artificiale come, appunto, l’Iraq. E può essere un fattore di stabilizzazione nella regione. Per questo è preferibile un Iran con armi nucleari ma moderato e disposto a giocare secondo le regole a un Iran violentemente ostile e pronto a fare qualsiasi sforzo surrettizio per acquisire tecnologia nucleare come reazione a politiche aggressive o interventi militari occidentali o americani. Perché le conseguenze della seconda ipotesi sarebbero di gran lunga più pericolose per tutti noi.
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