IL FOGLIO di mercoledì 22 giugno pubblica una cronaca della visita di Condoleezza Rice in Arabia Saudita.
Eccone il testo:Roma. Armata del suo solido sorriso, a capo scoperto
(nel paese in cui 15 ragazzine in fuga da una scuola in fiamme
sono state fatte morire dalla polizia perché non esponessero
i capelli), vestita del suo tailleur charmant, Condoleezza
Rice, all’aeroporto di Riad, non ha risparmiato
nessuna umiliazione al principe Abdullah. Il reggente dell’Arabia
Saudita è stato così costretto a stringere la mano
che lei gli ha porto, ingoffandosi in strane manovre col suo
corpo non esile per nascondere l’onta alle telecamere, per
celare ai sudditi il gesto proibito, tanto più con una donna
di colore, una di quelle che nel suo regno vengono trattate
da schiave. Ma la forma spregiudicata con cui la titolare
del Dipartimento di Stato si è presentata a Riad non è
nulla a confronto della sostanza: Condoleezza Rice infatti
ha voluto farsi precedere in questa visita dall’enunciazione
di una dottrina breve ed efficace che punta, apertamente,
a una rivendicata "ingerenza" negli affari interni
del paese alleato. Il discorso da lei pronunciato il giorno
prima al Cairo è infatti ben più di uno slogan, di un’indicazione
di fase, è l’enunciazione di una "dottrina" che rivoluziona
la politica estera americana: "Per sessant’anni
gli Stati Uniti hanno perseguito la stabilità nella regione a
scapito della democrazia, non ottenendo né l’una né l’altra;
ora stiamo sostenendo le aspirazioni democratiche di tutti". Una franca autocritica per l’aiuto dato ai regimi più
autoritari e polizieschi del globo, un impietoso giudizio sul
governo saudita giudicato assieme non democratico e non
stabile (come infatti non è, in preda alle convulsioni di una
faida dinastica che ingrossa il consenso per al Qaida). Là
dove George W. Bush delinea strategie riformiste ad alto
respiro, il suo più importante ministro le articola nel concreto
con vigore (come ha già fatto, a muso duro, in Egitto
con Mubarak). Impietosa, Rice ha detto: "Gli ottimi cittadini
sauditi reclamano un governo che renda loro conto;
primi passi sono stati intrapresi con le elezioni municipali,
tuttavia molte persone continuano a pagare un prezzo
ingiusto per l’esercizio dei loro diritti di base. Tre persone
sono oggi imprigionate per aver presentato pacificamente
una petizione al loro governo. Questo non deve accadere
in nessun paese". Ben più di un auspicio, di una denuncia.
Una analisi secca, sintetica, sul fallimento storico dell’alleanza
degli Stati Uniti con i paesi arabi, uno schieramento
netto (come già in Libano, in Ucraina, in Afghanistan, in
Iraq) dalla parte delle aspettative dei cittadini e contro
quelle dei regimi. Infine il caso concreto, i nomi dei tre
"dissidenti" ingiustamente condannati il 15 maggio scorso,
durante un processo a porte chiuse scorso per "reati" d’opinione,
di cui Rice chiede la liberazione: Ali al-Demaïni, condannato a 9 anni, Abdallah al-Hamed a 7 anni e Matrouk
al-Faleh a 6 anni. Il ministro dell’Interno, Najaf bin
Abdulaziz, ha subito affermato che i tre sono stati giudicati
secondo le leggi e il ministro saudita degli Esteri, Saud
al Faysal, ha rigettato "l’ingerenza sulle riforme", sostenendo
che quella sollevata da Rice è una querelle assolutamente
futile perché "l’unico giudizio che conta per ogni
paese che procede a riforme politiche è quello del proprio
popolo, e questo è il nostro criterio". Ma il colpo è stato forte
ed è stato incassato senza possibilità di reazione. L’Arabia
Saudita deve oggi la sua sopravvivenza e il suo residuo
di prestigio soltanto ai 9,5 milioni di barili al giorno che
immette sul mercato mondiale del petrolio (su 27 totali);
ma non ha più una politica estera, non conta nulla nel
Golfo, non conta nulla in Iraq (dove i suoi cittadini, indisturbati
alla frontiera, vanno ad allenarsi al Jihad terrorista,
per poi tornare a combatterlo in casa), nulla in Palestina,
ha soltanto un peso residuale in Libano. Condoleezza
Rice, questa è la novità, sa che questo assetto non può
durare, che un regime che non riesce neanche a permettere
che le donne guidino da sole non può governare la
modernità e spiega francamente al suo alleato che la condizione
per contare ancora su Washington è una: riformarsi.
Se no, sarà abbandonato al suo destino, o peggio.
Sempre a pagina tre un'analisi sull'Iran dopo le elezioni farsa che hanno visto la vittoria del candidato ultrafondamentalista Ahmadinejad.
Ecco il testo:Roma. Ancora più sorprendente dell’ascesa del sindaco
di Teheran, Mahmoud Ahmadinejad, è la facilità con
cui alcuni commentatori hanno prestato fede alle cifre rilasciate
dalla Repubblica islamica. Questo Iran – dicono
– vuole l’atomica, il terrorismo, la distruzione d’Israele e
le ragazze pon pon di Rafsanjani non rappresentano il
paese reale. I vecchi clichés del ’79, però, convincono soltanto
i nostalgici esegeti di passioni rivoluzionarie, non la
nomenklatura di regime che si è rifatta il trucco. L’Iran
non ha scelto né il kuseh Rafsanjani, né il torvo Ahmadinejad.
Non è un mistero che quelle iraniane più che elezioni
siano selezioni. Per tutti, ha scelto l’ayatollah Khamenei.
La sorpresa del 17 giugno è stato lo schema vincente
del leader supremo, che non aveva mai dato prova
di simili talenti da stratega. Durante la campagna elettorale,
i candidati hanno bussato alla sua porta e, a tutti, il
successore di Khomeini ha prestato un occhio di riguardo.
Ha ascoltato le ragioni dei pragmatici, che vogliono
aprire i mercati e condurre la Repubblica islamica fin
dentro i salotti buoni delle diplomazie occidentali, ha dato
il suo imprimatur alla corsa dei militari e, al momento
opportuno, non ha lesinato il suo aiuto ai riformisti umiliati
dal Consiglio dei guardiani.
La massima carica istituzionale iraniana ha tenuto la porta aperta a tutti, ma la sua "benevolenza" si è posata
soltanto su Ahmadinejad. Khamenei ha nascosto le sue
mosse all’eterno rivale Rafsanjani, facendogli intendere
che non avrebbe posto veti contro di lui. Accortosi che il
fedele Ali Larijani non scatenava l’entusiasmo dei falchi,
ha dirottato la sua approvazione su un candidato meno
carismatico, ma altrettanto malleabile con l’atout di godere
del sostegno del partito dei generali. Venerdì scorso,
il segreto di Khamenei ha rovinato la festa annunciata
di Rafsanjani, improvvisamente alleato dei riformisti.
Khamenei è uscito allo scoperto, ha ordinato che i seggi
rimanessero aperti fino alle 23, rompendo il sodalizio con
l’ex presidente del Parlamento Mehdi Karrubi e rinunciando
a qualsiasi parvenza di imparzialità. Non è però
certo che per liberarsi di un rivale dimezzato, Rafsanjani,
il rahbar, la Guida suprema, rischi di scatenare la sete
di potere dei generali, che da anni sognano la stanza
dei bottoni. La coabitazione per Khamenei potrebbe rivelarsi
amara e gli insider che tifano per il kuseh premono
su questo tasto.
L’attesa del ballottaggio di venerdì 24 è costellata dai
racconti di minacce e brogli. Del proselitismo armato dei
sepah pasdaran hanno fatto le spese alcuni supporter di
Rafsanjani, lunedì al parco Mellat. Sorpresi ad attaccare manifesti agli alberi, i ragazzi sono stati picchiati. C’è chi
ritiene che questi episodi siano un’indicazione della linea
Ahmadinejad. L’Iran, indifferente ai giochi di potere tra i
soliti noti di regime, teme il revival della prima stagione
rivoluzionaria. Rafsanjani cavalca l’onda come salvatore
della patria mentre cresce la psicosi da colpo di Stato. I
blogger, i riformisti decimati di Mustafa Moin, i luogotenenti
di Rafsanjani e il riformista dal cuore conservatore
Karrubi sono concordi nel denunciare le manovre dei generali.
"Chiedo il vostro aiuto e che partecipiate al secondo
turno. Insieme possiamo combattere l’estremismo",
ha chiesto il kuseh ai riformisti. I leader della coalizione
hanno già acconsentito e invitano gli iraniani a turarsi il
naso e a votare contro "i fondamentalisti fascisti". Mohammed
Khatami è sceso in campo per sostenerlo con l’"Organizzazione
della Repubblica islamica dei mujahiddin",
che ha denunciato la deriva verso la tirannia. I regolamenti
di conti tra i potenti si consumano in pubblico e il
livello di reciproca delegittimazione inizia a irritare Khamenei.
Lo spazio per una ricomposizione con Rafsanjani
non è scomparso, ma i militari, invisibili durante la campagna
elettorale, si fanno sempre più tronfi. Gli iraniani
in bilico tra purgatorio e inferno sono spaesati e sperano
per la prima volta nella rimonta del kuseh.
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.
lettere@ilfoglio.it