Viaggio nella dinsinformazione impenitente
rassegna di falsi scoop e di smentite passate inosservate
Testata:
Data: 21/06/2005
Pagina: 1
Autore: un giornalista
Titolo: L’iperbole retorica del gulag è l’ultimo caso di finto scoop utile alla causa
IL FOGLIO di martedì 21 giugno 2005 pubblica in prima pagina un articolo sulle false notizie utili alla delegittimazione delle democrazie e della guerra al terrorismo.False notizie lanciate con grande clamore dai media, a differenza delle loro smentite.

Ecco il testo:

Roma. "Guantanamo è il gulag dei nostri tempi". Anzi no, scusate, l’abbiamo detto così per dire. "Donald Rumsfeld è l’architetto delle torture". Anzi no, scusate, non lo sappiamo per certo, "anche se sarebbe affascinante scoprirlo". "A Guantanamo si oltraggia il Corano". Anzi no, scusate, le nostre fonti non erano state verificate, tanto è noto che nella super prigione di Cuba succede di tutto, sarà successo anche questo.
Quando il pregiudizio diventa notizia l’approssimazione è sempre in agguato, come dimostra il non-scoop di Newsweek che ha infiammato le piazze in Afghanistan. Ma c’è di più. C’è che Amnesty International – dopo che il suo segretario generale, Irene Khan, ha lanciato la definizione di "gulag" e il suo direttore, William Schultz, ha ritrattato in un’intervista a Fox News – si è trincerata dietro la scusa dell’iperbole retorica, giustificando in questo modo non soltanto il paragone con i campi di concentramento sovietici, non soltanto le critiche a Rummy, ma anche l’insinuazione che a Guantanamo si pratichi quella tecnica dei "desaparecidos" tanto in voga nei regimi latinoamericani di un trentennio fa.
Si potrebbe definirle parole in libertà. Se non fosse che poi, sull’onda lunga della polemica, è cominciata la carrellata di chi richiede la chiusura della prigione incriminata. Il New York Times in primis, con editoriali e con il contributo di Thomas Friedman, poi Jimmy Carter, ex presidente molto attento al rispetto dei diritti umani tanto da richiedere osservatori internazionali durante le elezioni in Florida, poi un po’ di politici, di destra e di sinistra, Bill Clinton compreso.
Si potrebbe definirle parole in libertà se non fosse che poi il senatore dell’Illinois Dick Durbin, il numero due dei democratici al Senato americano, non fosse andato oltre, passando – durante un’audizione del Judiciary Committee on Guantanamo Bay – in un sol colpo dal gulag alle torture naziste e a quelle di Pol Pot in Cambogia, rifiutandosi poi di ridimensionare il paragone nonostante le critiche piovute da ogni parte e, anzi, conquistandosi un posto d’onore nei notiziari di al Jazeera, l’emittente del Qatar che non ha perso occasione per dare il solito tocco antiamericano al mondo già antiamericano che ogni giorno rappresenta. Weekly Standard ha cominciato una dura campagna contro Durbin, chiedendo una procedura ufficiale di censura e invitando anche il Partito democratico a riflettere sull’eventualità di rimuovere il suo rappresentante: così si rinfocola la propaganda jihadista, sostiene il magazine di Bill Kristol.
Si potrebbe definirle parole in libertà se poi non fosse che, quando Rumsfeld ha precisato come stanno le cose a Guantanamo, le sue parole sono state liquidate come un banale atto di difesa dell’Amministrazione di George W. Bush, uno dei soliti motivetti che ricordano quanto si mangi bene nella base di Cuba, quanto ci sia rispetto religioso e culturale. Invece il segretario alla Difesa ha sottolineato aspetti ben più importanti rispetto alle idee (non confermate dai fatti) esposte da Amnesty International: ha detto che il Pentagono spende più per il rancio dei detenuti di Guantanamo – "per rispettare le regole dettate dalla religione" – che per quello delle truppe americane; ha detto che, per quel che lo riguarda, chiuderebbe volentieri la base di Guantanamo, visto che la sua costruzione è costata 100 milioni di dollari e ne costa 95 ogni anno per essere gestita, e altrettanto volentieri farebbe a meno di questa "custodia" e rimanderebbe i detenuti alla "rule of law" dei loro paesi d’origine, se soltanto là esistesse.

Quei centomila morti civili in Iraq
Le frasi del segretario generale di Amnesty – il paragone con il gulag – non sono dunque parole in libertà. Hanno un preciso obiettivo propagandistico, contribuiscono a disegnare un mondo distorto, scatenano reazioni che non sempre sono prevedibili, rimangono al servizio di un pregiudizio, evitano di far emergere la differenza che esiste – ed esiste – tra le repressioni di un regime e le imperfezioni di una democrazia. Ma nella mente dei lettori (ed elettori) resterà impressa l’idea "Guantanamo=gulag".
La doppia realtà è un vizio del gran galà mediatico. Questa del gulag è l’ultima delle "sviste" rimbalzate sulle prime pagine dei giornali: la penultima è stata quella di Newsweek. Il magazine ha ritrattato e chiesto scusa, e per molti la questione è finita così. Poi si è scoperto che il Corano ogni tanto è effettivamente oltraggiato a Guantanamo, ma soprattutto da parte dei detenuti, che cercano di scatenare una rivolta all’interno del carcere. Una guardia accusata di aver dato un calcio al Libro sacro dell’islam è stata licenziata, un’altra che ha lanciato un gavettone, bagnando il Corano, ha fatto la stessa fine: ogni volta sono state consegnate nuove copie ai detenuti. Ma queste non sono notizie da gran galà mediatico. Poi il Time ha fatto un reportage sugli interrogatori cui è stato sottoposto a Guantanamo Mohammed al Qahtani, considerato il ventesimo membro del gruppo di dirottatori che hanno fatto crollare le Torri gemelle l’11 settembre: le guardie lo hanno tenuto in isolamento, sveglio e in piedi, lo hanno circondato di donne, gli hanno tolto i vestiti, gli hanno mostrato i cani e gli hanno fatto sentire per ore la terribile musica di Christina Aguilera. Ma anche questa non è una notizia "utile".
L’iperbole retorica non l’ha certo inventata Amnesty. Basta ricordare quel dato agghiacciante sparato dai mass media italiani nell’ottobre scorso: secondo la rivista The Lancet, dall’inizio della guerra in Iraq sarebbero morte 100 mila persone, cioè 166 morti al giorno dal momento dell’invasione. Poi si è scoperto che il dato devastante era emerso da un sondaggio effettuato su 800 iracheni, un campione esiguo per un’iperbole accattivante. Basta ricordare il Daily Mirror, che ha pubblicato le foto di detenuti iracheni seviziati da soldati britannici: poi sono arrivate le smentite, le scuse, le dimissioni del direttore, ma quelle immagini sono ancora impresse nei ricordi dei lettori (e per alcuni sono ancora vere, come per i lettori dell’Espresso, che le ha pubblicate senza poi comunicare che in realtà erano false). Basta ricordare come è nato il cosiddetto scandalo di Abu Ghraib: tutti pensano che sia stata la stampa-che-controlla-il-potere a smascherare le nefandezze dei soldati americani, ma non è andata così. E’ andata che il Pentagono aveva già aperto un’inchiesta: le immagini dei soldati americani che abusano e umiliano i prigionieri iracheni erano in possesso dei vertici militari statunitensi ben prima che Cbs e New Yorker facessero i loro presunti scoop. Ma di quell’inchiesta – che ha portato a cambi di personale e a pene detentive per i "torturatori" – poco si è detto, qualche pagina interna, non certo la risonanza delle immagini dei corpi nudi dei detenuti di Abu Ghraib. Basta ricordare Dan Rather e i documenti falsi sui favori riservati al presidente figlio di papà Bush che l’hanno costretto a pubblica ammenda e alle dimissioni. Basta ricordare la Bbc e la drammatica iperbole sui documenti resi "più sexy" per aumentare la forza della minaccia di Saddam che hanno causato la morte dello scienziato David Kelly. Basta ricordare anche tutte le volte – e non sono poche – in cui è stato dato spazio alle teorie del complotto, alla cabala neoconservatrice e alle sue smodate manie di imperialismo. Sono queste le doppie realtà del gran galà mediatico, che non ammette smentite e che tralascia ciò che non è utile alla causa, ma poi alla fine non capisce perché Bush stravince in America e l’Europa straperde in Francia.
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