IL MANIFESTO di giovedì 16 giugno 2005 pubblica a pagina 9 un'intervista di Michele Giorgio a Raja Surani, "direttore del Centro per i diritti umani di Gaza e il più noto attivista palestinese della battaglia per l'abolizione della pena di morte".
Segnaliamo in particolare il seguente passaggio:
"Il governo Sharon ha reagito alle esecuzioni di domenica scorsa ammonendo l'Anp dal mettere a morte i palestinesi condannati per aver passato a Israele informazioni essenziali per colpire e uccidere i militanti dell'Intifada. Qual è il suo giudizio?
Il governo Sharon non ha alcun diritto di intervenire in questa vicenda poiché durante l'Intifada ha compiuto dozzine di spietati «omicidi mirati» che rappresentano esecuzioni capitali senza appello, attuate senza garantire ai sospetti il diritto alla difesa. Azioni che, peraltro, hanno causato la morte di tante persone innocenti, colpevoli soltanto di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Quindi Sharon e i suoi ministri non possono aprire bocca. Detto questo la nostra posizione è chiara, la pena di morte va abolita totalmente, anche per le spie di Israele che devono potersi difendere nel corso di un processo regolare".
Circa il quesito posto da Giorgio osserviamo che il giornalista sembra non avere dubbi sul fatto che i palestinesi condannati per "collaborazionismo" abbiano effettivamente "passato a Israele informazioni essenziali per colpire e uccidere i militanti dell'Intifada", nonostante la natura non certo equa dei processi cui sono stati sottoposti e nonostante il fatto che in passato si siano verificati da parte dei gruppi terroristici errori riconosciuti nell'eliminazione delle "spie" ( IL MANIFESTO però non ne ha scritto).
Che i terroristi siano definiti "militanti", sul quotidiano comunista è scontato, ma da parte nostra continuiamo a segnalarlo.
Circa la risposta di Surani, osserviamo che le eliminazioni mirate non erano esecuzioni, ma atti di guerra contro individui impegnati ad organizzare attentati contro civili israeliani. Atti di guerra utilizzati come ultima risorsa per impedire quegli attentati. Inoltre, se è vero che pressioni israeliane sulla pena di morte sarebbero difficilmente accettabili dall'Anp, è vero anche che Sharon si è limitato a chiedere all'Anp di non uccidere chi ha aiutato Israele a combattere il terrorismo: un atto non solo legittimo, ma doveroso, che riguarda le relazioni bilaterali tra Israele e Anp e non può essere giudicato un'ingerenza in questioni interne.
Ecco il testo:Domenica scorsa, tra le 4 e le 5 del mattino, tre prigionieri palestinesi - Wael al-Shoubaki, Ouda Abu Azab e Salah Musallam, condannati a morte per omicidi compiuti tra il 1995 e il 2000, sono stati impiccati a Gaza. Un quarto detenuto, Mohammed Khawaja, è stato fucilato. Esecuzioni portate a termine senza alcun preavviso, con la piena approvazione del presidente palestinese Abu Mazen, che interrompono la moratoria dichiarata nel 2002 dal raìs scomparso Yasser Arafat. Salgono così a nove le esecuzioni capitali eseguite nei Territori occupati dal 1994, anno dell'introduzione della pena di morte nell'ordinamento dell'Autorità nazionale palestinese (in totale 73 persone sono state condannate a morte dai tribunali dell'Anp). L'accaduto è stato accolto con sgomento dai centri per i diritti umani palestinesi e internazionali e ha gettato un'ombra su Abu Mazen, mentre si teme la prossima attuazione di altre condanne a morte. Ne abbiamo parlato con l'avvocato Raja Surani, direttore del Centro per i diritti umani di Gaza e il più noto attivista palestinese della battaglia per l'abolizione della pena di morte.
Abu Mazen ha infranto la promessa fatta da Yasser Arafat nel 2002 all'Unione europea di congelare l'esecuzione delle condanne a morte. Perché l'uomo che afferma di voler creare uno Stato palestinese democratico e moderno, ha deciso di far ricorso alla pena di morte?
La ripresa delle esecuzioni capitali è stata uno shock per tutti noi che lavoriamo per il diritto alla vita e i diritti umani e per i palestinesi che si oppongono alla pena di morte. Quattro mesi fa, quando Abu Mazen era stato appena eletto, si erano diffuse voci sulla fine della moratoria proclamata da Arafat. Mi recai dal nuovo presidente per persuaderlo a cancellare la pena di morte dal nostro codice penale, ma lui non volle ascoltarmi. Mi disse che questa punizione durissima avrebbe dato un contributo decisivo alla lotta contro il caos e la criminalità che regnano in Cisgiordania e Gaza.
Quindi Abu Mazen è convinto della necessità e dell' utilità di questa terribile pena?
Purtroppo è così e a nulla sono valsi i miei tentativi di spiegare che le statistiche internazionali dicono in modo inequivocabile che la pena di morte non serve a fermare il crimine, ad impedire gli omicidi. Nel caso palestinese è da sottolineare che le condanne a morte sono decise da corti militari di massima sicurezza, dove gli imputati non ricevono un processo regolare e non hanno la possibilità di difendersi. Alla crudeltà della condanna a morte si aggiunge perciò il dubbio che degli innocenti siano stati condannati ingiustamente, senza alcuna attenuante.
Qualcuno ha commentato che Abu Mazen con le condanne a morte cerca di accreditarsi come «uomo forte» della Palestina, di presentarsi come il garante delle legge e dell'ordine allo scopo di recuperare il sostegno di quella parte di palestinesi che negli ultimi anni si sono allontanati dall'Anp e si sono avvicinati al movimento islamico Hamas. È una spiegazione che trova convincente?
Non voglio scendere sul terreno politico e preferisco tenermi su quello che mi compete del rispetto dei diritti umani. Qualsiasi considerazione o ragionamento Abu Mazen abbia fatto, presto si accorgerà che la pena di morte non serve a combattere alcun fenomeno criminale. Anzi sul lungo periodo, come è già accaduto in altri paesi, potrebbe trasformarsi in un boomerang. Omicidi, furti e rapine si combattono risolvendo i problemi della nostra società che sono legati principalmente all'occupazione militare (israeliana) che causa povertà, risentimento, disagio diffuso, perdita di valori.
Il governo Sharon ha reagito alle esecuzioni di domenica scorsa ammonendo l'Anp dal mettere a morte i palestinesi condannati per aver passato a Israele informazioni essenziali per colpire e uccidere i militanti dell'Intifada. Qual è il suo giudizio?
Il governo Sharon non ha alcun diritto di intervenire in questa vicenda poiché durante l'Intifada ha compiuto dozzine di spietati «omicidi mirati» che rappresentano esecuzioni capitali senza appello, attuate senza garantire ai sospetti il diritto alla difesa. Azioni che, peraltro, hanno causato la morte di tante persone innocenti, colpevoli soltanto di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Quindi Sharon e i suoi ministri non possono aprire bocca. Detto questo la nostra posizione è chiara, la pena di morte va abolita totalmente, anche per le spie di Israele che devono potersi difendere nel corso di un processo regolare.
Cosa avete in mente di fare per fermare le altre esecuzioni annunciate per le prossime settimane?
Dobbiamo far crescere le pressioni internazionali e locali su Abu Mazen e indurlo a revocare tutte le condanne a morte, senza eccezioni. Le proteste degli ultimi giorni hanno già avuto un primo risultato: le sette esecuzioni capitali che dovevano essere eseguite questa settimana sono state sospese. È una dimostrazione le pressioni popolari possono rivelarsi determinanti.
Sempre a Michele Giorgio è dovuto l'articolo "Irruzione contro Abu Ala", nel quale la violenza politica interpalestinese è imputata, tanto per cambiare, all'"occupazione" israeliana.
Soltanto alla fine dell'articolo viene data la notizia dell'accordo sul ritiro da Jenin.
La notizia delllo smantellamento di una cellula terroristica dei Tanzim a Nablus (nella quale erano sati reclutati per attentati suicidi quattro adolescenti), invece non è data del tutto.
Caso mai qualcuno fosse tentato dall'idea eretica che possa essere il terrorismo, con la cultura della violenza che porta con sè, ad agire da forza disgregante della società palestinese.
Ecco il testo:Se Abu Mazen, ricorrendo alla pena di morte, credeva di mettere fine al caos e alla crescita della criminalità nei Territori occupati, è stato subito smentito. Per nulla intimiditi dalla crudeltà della pena e, ancora meno, dalla minaccia di «punizioni esemplari» avanzata dal ministro dell'interno Nasser Yusef, ieri almeno 10 palestinesi armati hanno preso parte all'incursione nella casa di Gerico del premier Abu Ala (in quel momento assente). Non di un tentativo di rapina e neppure di una azione violenta ma solo un' iniziativa di protesta per la mancanza di lavoro. Il raid simbolico ha indirettamente affermato che i palestinesi non hanno bisogno della pena di morte e del pugno di ferro ma della soluzione di problemi concreti, a cominciare dall'occupazione militare israeliana e dalla crisi economica, che generano il malessere che attraversa Cisgiordania e Gaza. Per Abu Ala in ogni caso l'invasione subita è un vero schiaffo. Appena due giorni fa aveva minacciato di bloccare l'attività del governo dell'Anp se non sarà posto un limite al caos che regna, in particolare, nei servizi di sicurezza. «I cittadini non possono vivere a lungo con questo caos - aveva ammonito - se non saranno posti limiti al deterioramento della situazione della sicurezza, il governo bloccherà la propria attività». A sostegno delle minacce aveva anche spiegato che le esecuzioni dei quattro avvenute a Gaza sono parte del «processo di ripristino dell'ordine».
La verità è che l'Anp, in mancanza di cambiamenti sul terreno e per il perdurare dell'occupazione israeliana, non è in grado di rendersi credibile agli occhi della popolazione e i gruppi armati dell' Intifada da un lato e le bande criminali dall'altro, continuano a dettare legge. Soprattutto in Cisgiordania dove il potere di controllo dell'Anp è fortemente limitato dalla presenza dell'esercito israeliano. I casi ormai sono innumerevoli. La scorsa settimana due bande rivali si sono affrontate a colpi di arma da fuoco nel centro di Ramallah - dove hanno sede il Parlamento, il governo e l'ufficio del presidente - ferendo di due passanti. Il 3 giugno, sempre a Ramallah, un civile palestinese era stato gravemente ferito nel corso di scontri tra le forze di sicurezza e militanti delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa. Fatti ai quali si è aggiunto il misterioso omicidio del giornalista Samir Rantisi, un collaboratore dell'ex ministro Yasser Abed Rabbo.
Altrettanto gravi sono gli eventi del 5 giugno a Nablus dove due dirigenti locali di al-Fatah - Sheikh Ali Faraj, direttore generale degli uffici del Waqf (l'ente di custodia dei beni islamici) e il fratello Hussam Faraj - sono stati uccisi in un agguato teso loro a Kabalan, alle porte della città. Un camion ha speronato l'automobile dei due fratelli. Subito dopo dal furgone sono balzati fuori quattro uomini col volto coperto che li hanno crivellati di colpi da distanza ravvicinata. Eliminazioni che qualcuno ha spiegato con la lotta interna ad Al-Fatah, alla base anche del successivo raid effettuato militanti dell'Intifada negli uffici del governatore di Nablus. Proteste e caos non sono mancate anche a Gaza dove, qualche giorno fa, al valico di Rafah, decine di miliziani di al-Fatah hanno brevemente sequestrato un ambasciatore dell'Anp per chiedere di essere inquadrati negli apparati di sicurezza palestinesi come aveva promesso Abu Mazen. Centinaia di agenti palestinesi, poco prima, avevano protestato con raffiche di mitra sparate in aria contro la riforma dei servizi di sicurezza annunciata dal ministro dell'interno. Una situazione che ha fatto entrare in scena anche Hamas. Secondo Mohammed Ghazal, un membro dell'ufficio politico del movimento islamico, la responsabilità del «caos» va attribuita tutta all'Anp perché «non ha saputo garantire l'indipendenza del sistema giudiziario e il rispetto della legge».
Intanto il governo Sharon avrebbe finalmente accettato di trasferire all'Anp il controllo della sicurezza della città di Jenin (Cisgiordania), prima del ritiro israeliano da quattro colonie isolate nel nord della Cisgiordania previsto in estate. Il trasferimento di Jenin all'Anp permetterà a quest'ultima «di concentrare le sue forze», ha spiegato il portavoce palestinese Tawfiq Abu Khousa. Israele aveva deciso all'inizio di maggio di congelare, per «presunti motivi di sicurezza», il trasferimento del controllo della sicurezza delle città palestinesi di Cisgiordania all'Anp, deciso l'8 febbraio al vertice di Sharm el-Sheikh tra Sharon e Abu Mazen.
LIBERAZIONE pubblica a pagina 2 un'intervista Ivan Bonfanti al sindaco di Jenin, alla vigilia del ritiro israeliano dalla città. Quando l'occupazione di una città palestinese si avvia a finire è utile ricordare i danni che ha provocato.
Ovviamente senza ricordare il terrorismo che , a sua volta, ha provocato l'occupazione.
Così fanno Bonfanti e il primo cittadino di Jenin, nonchè membro di al Fatah, Abumoves.
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione del Manifesto e Liberazione. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita. redazione@ilmanifesto.it ; lettere@liberazione.it