IL MANIFESTO di giovedì 9 giugno 2005 pubblica a pagina 11 un reportage di Stefano Chiarini dalla Siria, "Damasco, via cinese sul Mediterraneo", che riportiamo:Eleganti donne manager sullo sfondo di un grande ufficio e, in dissolvenza, il volto della regina Zenobia di Palmira, sorridono ai passanti e agli automobilisti dai grandi cartelloni pubblicitari sparsi un po' ovunque lungo i vialoni a quattro corsie, di stile vagamente moscovita, di questa città di oltre sei milioni di abitanti. Una metropoli, nata in quella che era una splendida oasi formata dal fiume Barada, che Mark Twain definì come «la più antica città del mondo ancora abitata» che «non misura il tempo in giorni, mesi o anni ma con gli imperi che ha visto nascere, prosperare e andare in rovina». Sotto i cartelloni pubblicitari, spesso collocati vicino agli incroci - dove dei grandi cronometri luminosi segnalano, in una sorta di conto alla rovescia, i secondi che mancano al cambio del semaforo - c'è la scritta «Women in business international forum 2005». Si tratta di uno dei più importanti convegni che si siano tenuti nella capitale siriana tra la fine di maggio e i primi di giugno in preparazione del decimo congresso del partito Baath, in corso in questi giorni. «Acceleratore pigiato sulle riforme economiche con l'introduzione piena del mercato entro il 2010 - commenta Mohammed, giovane imprenditore che incontriamo da Muhanna, una delle migliori pasticcerie della zona di Mezzeh - e una cauta apertura a livello politico (anche se il fatto di poter esprimere il proprio pensiero sul regime senza rischiare la vita o la galera non è comunque poco) dal momento che siamo ancora minacciati da Israele e dagli Usa che sembrano voler gettare il paese nel caos usando l'area del fondamentalismo». Del resto per avere conferma di quanto le truppe israeliane siano vicine, basta salire sul monte Qassium, che domina Damasco, e guardare verso occidente dove si erge la sagoma del «Jebel Sheik», così chiamato in arabo per la neve che ne imbianca sempre la cima come la barba di un vecchio saggio, altrimenti noto come monte Hermon, con un posto di osservazione dell'esercito di Tel Aviv, e dietro ancora le alture del Golan occupate. Il nemico non è proprio alle porte ma a non più di 40 chilometri. Il convegno «Women in business», aperto dalla first lady siriana Asma Assad , ha lanciato un forte messaggio alle donne siriane, ma non solo, perché sostengano un progetto di cambiamento «interno», verso la conquista di sempre maggiori diritti, e rifiutino le ricette Usa etnico-confessionali dalle quali hanno tutto da perdere.
L'autosufficienza alimentare
Questo appello ha trovato orecchie molto attente nel paese, animato da forti speranze ma anche stretto dal timore di un nuovo precipitare della situazione in un momento nel quale finalmente si ha l'impressione che «il peggio sia passato». «Dopo le speranze suscitate dalla salita al potere di Assad nel 1970, arrivò il gelo degli anni ottanta - ci racconta Ahmed, intellettuale progressista che ha passato otto anni in carcere, in un bar all'aperto nei vicoli dietro la stupenda moschea Omayade - con la rivolta dei fratelli musulmani, il terrorismo, tutto il potere nelle mani dei servizi segreti, la crisi economica, i black out elettrici, l'invasione israeliana nel Libano, il crollo dei prezzi petroliferi. Poi grazie all'abilità manovriera di Assad a livello internazionale, al suo pragmatismo economico e all'avvio nel 1986 dell'estrazione di circa 500.000 barili di petrolio al giorno dalla valle dell'Eufrate la situazione andò migliorando progressivamente». «La svolta ci fu poi con la guerra del novanta - continua Ahmed dopo aver salutato un suo amico cantastorie che nei mesi estivi si ferma a raccontare le sue leggende davanti ai tavolini del bar - contro l'Iraq quando Assad si schierò con la coalizione a guida Usa. Noi, come molti altri siriani, eravamo contrari a quella scelta, ma dobbiamo riconoscere che essa ha permesso un notevole sviluppo del paese. Sono state costruite centrali elettriche, ricostruite le reti telefoniche, e fognarie, costruiti sistemi di irrigazione nelle campagne e sviluppato il welfare: ne è risultato un calo dell'analfabetismo dal 50% degli anni settanta al 30% della fine degli anni novanta, un calo dell'incremento della popolazione da oltre il 3% al 2,5 % del 2.000, il salto delle campagne più povere, da cui proveniva il presidente Assad, dal medioevo all'età moderna e soprattutto l'autosufficienza alimentare del paese».
«I primi anni 2000 un po' per le riforme economiche del presidente Bashar, un po' per il petrolio iracheno che affluiva in Siria dall'Iraq in cambio di prodotti di prima necessità - aggiunge un anziano maestro alimentare, anche lui ex prigioniero politico - hanno visto una forte apertura al settore privato, senza per il momento dover operare tagli a quello pubblico, anche se temo che questo avverrà presto, un raddoppio degli stipendi dei dipendenti pubblici da 6.000 a circa 12.000 lire libanesi (da 50 a 100 dollari) e forti investimenti nel settore turistico». Una politica quella del quarantenne Bashar Assad che cerca di recuperare il consenso e il sostegno dei giovani che costituiscono il 53,8% della popolazione, con oltre 250.000 nuovi ingressi nel mercato del lavoro ogni anno, e che, soprattutto per quanto riguarda le donne - che affollano, numerosissime, sole o in frotte variopinte, vestite chi all'occidentale, chi in modo più tradizionale, le strade di Damasco - sembrano interessati soprattutto ad un miglioramento delle condizioni di vita e ad avere dei propri spazi ma allo stesso tempo non sono disposti, nonostante una diffusione sempre magiore della religiosità, a fare salti nel buio. Da questo punto di vista il terribile esempio dato dall'Iraq ha spinto i più alla prudenza. «Vogliamo cambiare, non vogliamo più uno stato di polizia com'era ai tempi di Hafez Assad ma non ci fidiamo degli americani - sostiene Mohammed pittore "alternativo" che sta aprendo un negozietto per vendere direttamente ai turisti nel vecchio suq al Amidiya - e abbiamo paura che qualcuno possa soffiare sul fuoco dei contrasti etnici e religiosi con un paese caleidoscopio nel quale la popolazione è suddivisa tra arabi, 92%, e curdi, 8%, e dal punto di vista religioso da un 10% di cristiani, dai musulmani sunniti 64%, dagli Alawiti 13% e dai drusi 3%».
«Ci avete sempre tradito»
«La comunità internazionale - continua Mohammed - ci ha sempre tradito da quando Lawrence ci promise l'indipendenza per poi venderci ai francesi, o quando Parigi staccò il Libano dalla Siria e dette Alessandretta alla Turchia o quando i francesi nel 1945 bombardarono Damasco e il parlamento uccidendo una ventina di deputati. Per non parlare della mancanza di qualsiasi pressione su Israele per il ritiro dal Golan. Perché dovremmo fidarci?».
Non c'è dubbio che questa nuova ventata di speranza, venata di cautela, abbia contagiato i giovani che affollano i viali anni sessanta dell'università di Damasco, al di là del ponte sulla vecchia strada per Beirut, verso il quartiere di Baramke, immerso nelle note della musica pop araba proveniente da mille bancarelle e in quello assordante dei clacson di centinaia di pulmini. I giovani che affollano le bancarelle di poster e di t-shirt, dai cantanti famosi ai manifesti con «i più importanti pensatori arabi della storia», sembrano decisi a cambiare ma alcuni di loro guardano con diffidenza alle privatizzazioni: «Hanno studiato a spese dello stato, o magari in Urss questi "figli del socialismo" e del "panarabismo" - ci dice un ragazzo che indossa una maglietta con il volto del Che iscritto ad un corso di letteratura inglese - e adesso hanno messo in piedi le scuole o le cliniche a pagamento dove si pagano fior di soldi mentre gli esami per accedere alle università pubbliche gratuite sono sempre più difficili e le liste di attesa per farsi curare sempre più lunghe». «Si ma adesso - la interrompe un giovane con l'aria da primo della classe - abbiamo i cellulari, possiamo navigare in internet, nonostante qualche residuo penoso tentativo censorio delle autorità, leggere molti giornali stranieri e guardare sulle televisioni satellitari quel che succede realmente non solo nel mondo ma anche qui da noi»
La nuova borghesia
Se le riforme politiche avanzano a piccoli passi, quelle economiche stanno prendendo sempre più slancio e stanno trasformando la città e non solo i quartieri più benestanti, con le loro strade alberate, le palazzine di due, tre piani, i loro giardini ben curati, come Abu Rumana, Salhiyeh, e il più recente al Malki. Numerosi i negozi bianchi e rossi che offrono a circa 1000 lire siriane (uno stipendio oscilla tra i 6.000 e le 12.000 lire) un numero telefonico delle due due principali compagnie private (create in sinergia con il premier libanese Najib Mikati e con la Orascom egiziana), innumerevoli le parabole satellitari e, più radi ma luminescenti gli sportelli bancari dei tre nuovi istituti di credito privati siriani, Bank of Syria and Overseas, Banque Bemo Saudi Fransi e la International Bank for Trade and Finance (con capitali libanesi e in parte giordani e sauditi, oltre che siriani) che hanno iniziato ad operare nel 2004.
Lo stesso volto automobilistico della città è totalmente cambiato. Per anni le altissime tasse sulle importazioni di auto (oltre il 200%) avevano fatto si che gli unici mezzi circolanti fossero quelle storiche degli anni cinquanta e sessanta - Peugeot, Opel e Mercedes ma anche le più rare Austin, Hillman o Humber, Fiat 1300 e 1500, anche se le più amate sono tuttora le vecchie Chevrolet americane con le due code rialzate e i sedili in pelle rossa - ma ora sono comparsi migliaia di taxi nuovi di zecca, importati dall'Iran (le Saba), le Dacia romene-Renault e le Rio della Kia, e un certo numero di auto di media e alta cilindrata in gran parte «di servizio». Un fenomeno destinato ora ad accentuarsi con l'abbattimento dal 255% al 60% delle imposte sulle importazioni di auto del settore medio-alto, a delizia dei nuovi benestanti del paese - si calcola che i cittadini siriani abbiano nelle banche estere decine di miliardi di dollari. Gli stessi che cominciano sempre più a frequentare il nuovo teatro dell'opera costruito due anni fa sulla piazza Umawyeen, praticamente inaugurato lo scorso anno da Riccardo Muti con l'orchestra della Scala.
Girando per le strade di Damasco colpisce inoltre in questi ultimi mesi la quantità di turisti che si sta rovesciando sulla città in qualsiasi periodo dell'anno. Basti pensare che nel primo quarto del 2005 vi è stato un aumento dei visitatori del 25% rispetto all'anno precedente e che nel corso del 2004 il turismo ha portato nelle casse del paese quasi due miliardi di dollari, il 30% in più del 2003 mentre nel corso di quest'anno dovrebbe portare alla creazione di circa 130.000 posti di lavoro. Nel settore turistico stanno investendo massicciamente il principe saudita Waleed bin Talal, il gruppo di Dubai «Majid al Futaim Investment» e numerose società europee. Evidentemente i grandi gruppi di investimento regionali, e non solo, intendono scommettere non solo su un patrimonio archeologico inestimabile, ma anche sul fatto che Damasco dovrebbe restare anche nei prossimi anni uno dei pochi luoghi «sicuri» per i turisti occidentali in tutto il Medioriente. Con buona pace di George Bush.
E' interessante mettere a confronto l'articolo di Chiarini con quello di Camille Eid, certo non sospetto di essere un "neo-con" o, per usare un'espressione cara a Chiarini, un "likudnik", pubblicato da AVVENIRE di mercoledì 8 giugno, a pagina 3: "Damasco, via cinese sul Mediterraneo".
Se per Chiarini il male è rappresentato dall'Occidente, da Israele e dagli Stati Uniti, che hanno tradito e minacciano la Siria, mentre il progetto siriano di riformare l'economia lasciando inalterate le strutture fondamentali del regime politico riscuote la sua evidente simpatia, Eid ha chiaro il fatto che "un regime totalitario non ammette mai riforme che possano minacciarlo. Perché riformare significa cambiare, e il vero cambiamento interessa l’anima e non la pelle".
E' un'interessante divergenza d'opinioni tra un arabo e un arabista al servizio dell'anticolonialismo ideologico anziché del colonialismo: il primo pensa che gli arabi abbiano diritto alla libertà come tutti gli altri popoli, il secondo no, devono prima combattere la guerra contro Israele e l'Occidente.
Ecco l'articolo di Eid:Sarà capace il Partito della "rinascita" (questo il significato della parola araba Baath) di uscire dal letargo in cui è chiuso? L’interrogativo corre sulla bocca di molti siriani da quando il presidente Bashar al-Assad ha annunciato «un grande salto in avanti» in previsione del decimo congresso del partito in corso in questi giorni. I siriani avevano confidato una prima volta in un cambiamento in senso democratico cinque anni fa, proprio con l’arrivo al potere di Bashar. Ciò sebbene l’allora 34enne presidente avesse ottenuto la successione al padre in perfetto stile monarchico, grazie a un emendamento all’articolo della Costituzione che fissava a 40 anni l’età minima del candidato alla massima carica dello Stato. Nel suo discorso di investitura Bashar aveva, infatti, lasciato intendere che la strada della liberalizzazione dell’economia, della libertà di stampa e del pluralismo fosse ormai tracciata. E i siriani gli credettero. In un primo momento, alcuni intellettuali hanno creato circoli politici con l’obiettivo di promuovere un dibattito democratico volto a superare il monopolio del partito al potere, e a combattere la corruzione e la censura. Ma nel giro di pochi mesi tutto, o quasi, è tornato come prima. I circoli sono stati chiusi con l’accusa di organizzare incontri sovversivi, mentre alcuni deputati sono stati incarcerati solo perché sollecitavano la fine dello stato di emergenza, in vigore dal 1963. Della "primavera di Damasco" è rimasto solo qualche passo timido, come il rilascio di centinaia di detenuti politici e qualche misura di liberalizzazione in campo economico. Molti allora hanno additato la "vecchia guardia" del Baath, attaccata alle linee guida tracciate dal «leader eterno» Hafez al-Assad, come responsabile della mancata introduzione delle riforme. Altri ritenevano Bashar ancora poco esperto e molto preoccupato di non allontanarsi troppo dal percorso tracciato dal padre, più avvezzo a giostrarsi tra gli intrighi politici. Comunque sia, in cinque anni molto la regione si è trasformata. Il Baath siriano piange ancora la morte violenta del gemello-rivale iracheno, e ora anche il tramonto della decennale influenza su Beirut. Vuole resistere al vento dei mutamenti che soffia sul Medio Oriente, ma non sa come fare. Cambiare davvero significa alleggerire la presa del partito sul governo e non accontentarsi di una pura operazione di maquillage. È dunque pronto a ciò? A giudicare dal recente arresto dei membri dell’unico circolo politico rimasto aperto a Damasco, non sembra proprio. «Il Baath è il problema, come potremmo aspettarci da esso delle soluzioni?», si è chiesto lo scrittore siriano Majed al-Oweid su un quotidiano libanese. Dello stesso scetticismo l’intellettuale Michel Kilo. «Il regime vuole solo guadagnare tempo – afferma –. Il congresso prometterà democrazia e pluralismo al termine di due anni di transizione». Kilo esorta poi ironicamente "i compagni" del Baath a fare in modo che questo non sia il loro ultimo congresso. E li pone di fronte a un’amara verità: un regime totalitario non ammette mai riforme che possano minacciarlo. Perché riformare significa cambiare, e il vero cambiamento interessa l’anima e non la pelle.
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