Hezbollah e Fratelli musulmani: non sono interlocutori credibili
un'analisi motivata e ragionevole, e una che lo è un po' meno
Testata:
Data: 07/06/2005
Pagina: 3
Autore: un giornalista - Paola Caridi
Titolo: Salire sul carro dei vincitori Hezbollah, la tentazione europea - La strana metamorfosi dei partiti islamisti Ieri estremisti, oggi moderati da accettare
IL FOGLIO di martedì 7 giugno 2005 pubblica un'interessante analisi sulla vittoria elettorale di Hezbollah in Libano.
Che indica le condizioni che il gruppo dovrebbe soddisfare, ed'è invece molto lontano dalll'accogliere, perchè lo si possa considerare un interlocutore politico.

Ecco il testo:

Londra. Il partito di Dio, Hezbollah, ha vinto il secondo round elettorale in Libano, assicurandosi una massiccia presenza nel prossimo Parlamento. Il ministro dell’Interno libanese, Hassan Sabeh, ha annunciato ieri la vittoria totale della lista del movimento sciita pro-siriano, Amal e Hezbollah: ventitré seggi. Questa vittoria accrescerà, nei corridoi del potere europeo, la tentazione di ignorare la risoluzione dell’Onu 1.559, che impone il disarmo delle milizie libanesi e in primo luogo degli Hezbollah. La teoria prevalente nell’Ue, come nel caso del gruppo terroristico palestinese Hamas, è che si possa separare l’organizzazione politica da quella militare, convincendo la prima ad abbracciare pragmatismo e moderazione grazie all’incentivo dell’inclusione al potere. Adottare questa strategia è però un grave errore, che sottovaluta la natura violenta ed estremista degli Hezbollah e della loro ideologia. L’Ue ha dimostrato in passato di non tollerare un partito che incita all’odio, che fonda la sua forza su una milizia armata e che controlla parte del territorio nazionale in diretta sfida con la sovranità del governo centrale. Quando l’Austria elesse Jörg Haider, l’Europa isolò il suo governo per mesi, anche se era stato democraticamente eletto e non disponeva né di milizie, né aveva intenzione di crearne. L’Ue sentì comunque il bisogno di prendere provvedimenti, a causa della linea politica propagata dal leader austriaco e per i legami dell’allora governatore della Carinzia con il passato nazista del paese. Quel passato così europeo ha spinto l’Unione a una cautela forse persino eccessiva. L’idea che i partiti, dotati di milizie e promotori di ideologie violente e razziste, potessero essere resi rispettabili se inclusi nel processo decisionale, aprì infatti la strada al sovvertimento della democrazia da parte dei fascisti in Italia e dei nazisti in Germania. Il collasso di fragili sovranità europee sotto i colpi di scure di milizie armate e dei loro partiti liberticidi ha insegnato all’Ue una cautela che andrebbe applicata anche altrove. I critici di un approccio più duro nei confronti
degli Hezbollah rispondono che il dialogo con l’Ira e l’inclusione del movimento
nel processo di pace per l’Irlanda del nord è stato indispensabile per concludere l’accordo di pace del "Venerdì Santo". Questo esempio però non calza affatto. Il partito Sinn Fein (il braccio politico dell’Ira) ha rinunciato alla lotta armata in cambio dell’inclusione nell’accordo. Il costo del principio di condivisione del potere deriva però dal fatto che il movimento irlandese era stato sconfitto militarmente dalla strategia antiterroristica inglese e aveva rinunciato, firmando l’accordo, al suo originale scopo di rendere l’Ulster indipendente. La partecipazione di Sinn Fein allo schema di devoluzione partiva dal presupposto che l’Ira consegnasse tutte le armi in mano ai suoi uomini. La mancata attuazione della clausola ha portato alla sospensione del processo di pace. Le regole sono pertanto due. Primo, l’inclusione degli estremisti deve seguire, non precedere la loro rinuncia della violenza. Secondo, occorre abbandonare l’ideologia estremista che quella violenza promuove. Nel caso degli Hezbollah, così come in quello di Hamas, non è avvenuto né l’uno
né l’altro. Le due organizzazioni rimangono dedite a una visione politica che l’Ue non tollererebbe a casa sua. Gli Hezbollah sono ora rafforzati politicamente. L’Europa non deve quindi illudersi di poter seguire la via del dialogo. Il partito di Dio deve rinunciare all’ideologia estremista, oltre che all’uso della violenza, se vuole essere considerato un interlocutore. Altrimenti, elezioni o no, è imperativo continuare a ostracizzarlo, inserendo gli Hezbollah nella lista delle organizzazioni terroristiche.
IL RIFORMISTA pubblica un articolo di Paola Caridi sui Fratelli musulmani e la democratizzazione dell'Egitto. Fratelli musulmani e Hezbollah sono realtà diverse, anche se occorre ricordare che il ramo palestinese dei Fratelli è la terrorista Hamas, ma il confronto fra i due articoli ci induce a domandarci se non sarebbe opportuno porre condizioni precise anche al riconoscimento politico dell'organizzazione islamista egiziana.

Ecco l'articolo:

Saad Eddin Ibrahim se n’è accorto da un bel po’ di tempo. L’esclusione dei Fratelli musulmani dall’agone politico egiziano vanificherebbe qualsiasi tentativo di riforma democratica. È lui stesso, il campione del liberalismo sulle rive del Nilo, a ripeterlo nei commenti che sempre più spesso compaiono sulla stampa che conta negli Usa. «Da sociologo - ha scritto recentemente -, ho studiato la materia per 30 anni. Da detenuto in una prigione egiziana, ne ho discusso con i miei compagni di carcere, molti dei quali imprigionati perché sostenitori del movimento islamista egiziano. La mia conclusione? I partiti islamisti stanno cambiando».
Ibrahim, in galera, ci ha trascorso un anno e mezzo - tra 2000 e 2002 - prima di venire rimesso in libertà anche grazie alla campagna politica e mediatica organizzata per sostenerlo. Lo accusavano di aver ricevuto illecitamente fondi (dall’Unione europea). Ma probabilmente i monitoraggi sulle passate elezioni politiche, compiuti attraverso il suo centro di ricerche Ibn Khaldoun del Cairo, non avevano fatto molto piacere. La prigione, comunque, ha consentito a uno dei più importanti (e influenti) sociologi egiziani di affrontare la questione dei Fratelli musulmani da un diverso punto di osservazione. Discutendone con un target decisamente diverso, ma allo stesso tempo molto influente. E cioè i detenuti islamisti, di cui le galere egiziane erano già piene quando ci si trovava anche Ibrahim. E ancor di più lo sono oggi, dopo le retate che tra aprile e maggio hanno portato almeno altri 800 militanti dietro le sbarre. Compreso uno dei leader più pragmatici, Essam el Arian, un dirigente che la Fratellanza avrebbe addirittura potuto indicare come proprio candidato nelle elezioni presidenziali.
La conclusione di Ibrahim è la stessa che hanno tirato altri intellettuali arabi. In Egitto, anzitutto. Ma anche in Siria, per esempio, dove l’opposizione sta cercando di spingere per una riforma politica che tolga la spada di Damocle della pena di morte su chiunque processi di far parte, per esempio, dell’Ikhwan, dei Fratelli musulmani. O in Palestina, dove i tentativi di coinvolgere un movimento irraggiato e profondamente inserito nella società com’è Hamas (diretta filiazione della Fratellanza egiziana) stanno aprendo brecce persino dentro l’amministrazione americana e dentro il coté israeliano: perché senza Hamas è difficile, se non impossibile, costruire una nuova società politica tra Ramallah e Gaza.
Cosa sta succedendo? Perché i movimenti islamisti "rischiano" di essere accettati nelle visioni strategiche degli intellettuali che contano, e di conseguenza di numerose cancellerie? Intanto, molto pragmaticamente, i movimenti islamisti non solo esistono, non solo non sono stati sconfitti. Ma guadagnano terreno. E in più qualcuno ha fatto sommessamente rilevare che il loro ingresso in politica, per esempio nel caso ormai classico della Giordania o in quello a latere della Turchia, non ha provocato un sovvertimento istituzionale. Anzi. Nessuna deriva di tipo iraniano, per ora, si allunga all’orizzonte. Semmai, quello che si sta notando è che - come diceva Ibrahim - i partiti islamisti «stanno cambiando». O meglio, una nuova generazione di islamisti si appalesa sulla scena politica. Più abituati a discutere con i propri avversari. Più pragmatici.
Gli islamisti moderati, come ora vengono definiti tutti i movimenti nazionali che in un modo o in un altro si richiamano alla tradizione dei Fratelli musulmani, hanno insomma sviluppato nel proprio seno un settore disposto a parlare di griglie democratiche. L’ammorbidimento delle posizioni, però, non tocca l’altro attore di questa diatriba. E cioè alcuni regimi arabi come Egitto e Siria, ancora una volta simili (come lo furono nella loro storia recente) nella delicata gestione delle riforme politiche. Né al Cairo né a Damasco si è disposti a cedere terreno sulla questione degli islamisti. In Egitto, a finire in galera è, caso esemplare, Essam el Arian, uno dei dirigenti più noti per il pragmatismo e per la sua capacità di parlare con i laici. In Siria, finiscono in prigione gli oppositori che, nelle ultime settimane, si erano fatti portavoce di un documento dell’Ikhwan siriana in esilio. Come dire, nessuno sconto agli islamisti, e soprattutto a quelli pragmatici. Come se fosse d’un tratto apparso evidente che proprio i più moderati, nella Fratellanza, potrebbero rappresentare il vero pericolo per la stabilità degli attuali regimi.
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