L'incontro tra Abu Mazen e Bush
le cronache e le analisi di Maurizio Molinari ed Emanuele Ottolenghi
Testata:
Data: 27/05/2005
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari - Emanuele Ottolenghi
Titolo: Sostegno e critiche per Abu Mazen alla Casa Bianca - Abu Mazen incontra Bush, ma ottiene solo aiuti simbolici
LA STAMPA di venerdì 27 maggio 2005 pubblica un articolo di Maurizio Molinari sulla visita di Abu Mazen negli Stati Uniti.

Ecco il testo:

Due moniti ad Israele ed uno ai palestinesi: così il presidente americano George W. Bush ha suggellato la prima visita alla Casa Bianca di Abu Mazen come leader dell'Autorità nazionale palestinese (Anp).
Dopo aver rifiutato per cinque anni di ricevere nello Studio Ovale Yasser Arafat, ritenuto compromesso con il terrorismo, Bush ha sfruttato l'incontro con il successore democraticamente eletto alla guida dell'Anp per mettere tre paletti sul percorso della Road Map destinata a portare a realizzare la visione di uno «Stato di Palestina in pace e sicurezza a fianco di Israele».
Parlando con vicino Abu Mazen nel Giardino delle Rose della Casa Bianca, Bush si è rivolto al premier israeliano Ariel Sharon affermando che «la barriera» che sta costruendo in Cisgiordania «deve essere di sicurezza e non politica» ovvero deve servire a proteggere lo Stato ebraico dal terrorismo, non a pregiudicare il tracciato dei confini definitivo con il futuro Stato di Palestina. «Lo status finale deve essere raggiunto fra le due parti ed i cambiamenti della linea armistiziale del 1949 devono essere concordati» ha aggiunto Bush affinché il messaggio fosse inequivocabile: Israele non può decidere unilateralmente dove passerà il tracciato del confine.
In secondo luogo Bush ha chiesto a Sharon di «rimuovere gli insediamenti illegali» nei Territori ed a «porre fine all'espansione di quelli esistenti per non pregiudicare lo status finale dei negoziati a Gaza, in Cisgiordania e Gerusalemme» al termine dei quali ci dovrà essere «continuità territoriale» fra le aree palestinesi in Cisgiordania come anche «collegamenti fra la Cisgiordania e Gaza». Le frasi di Bush tendono a porre le premesse del negoziato finale, facendo capire a Sharon che il sostegno Usa al disimpegno da Gaza sarà seguito da una crescente impegno diplomatico per affrontare gli altri nodi del negoziato. A tal fine il Segretario di Stato, Condoleezza Rice, si recherà in missione a Gerusalemme e Ramallah proprio alla vigilia dell'inizio del ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza.
Il terzo paletto di Bush è stato invece un monito all'ospite: «Non si può avere una democrazia senza uno Stato di Diritto, in presenza di bande armate che usano la violenza per ottenere i propri scopi». Da qui la pressante richiesta affinché l'Anp rispetti gli impegni della Road Map riguardo al disarmo ed allo scioglimento delle milizie, a cominciare da quelle di Hamas che «è un'organizzazione terroristica» ha ribadito il presidente americano, confermando che la sua fiducia in Abu Mazen è condizionata all'impegno preso per «realizzare una democrazia e combattere il terrorismo».
Abu Mazen da parte sua ha confermato di avere in agenda riforme democratiche, lotta al terrorismo e pace con Israele sottolineando tuttavia che «l'altra faccia della democrazia è sempre la libertà ma noi non l'abbiamo ancora a causa dell'occupazione». Da qui la richiesta a Sharon di iniziare ad affrontare gli scottanti temi legati all'accordo finale: status di Gerusalemme, sorte di tutti gli insediamenti, diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi del 1948, accesso alle fonti idriche e liberazione dei prigionieri. Riguardo la richiesta di maggiori aiuti Usa alla ricostruzione dell'Anp Abu Mazen è riuscito ad ottenere da Bush 50 dei 300 milioni di dollari desiderati, a conferma della strategia di Washington di monitorare da vicino l'elargizione dei fondi per evitare di ripetere gli errori commessi dall'amministrazione di Bill Clinton ai tempi di Arafat, quando finirono spesso per alimentare la curruzione. Nei colloqui si è parlato anche delle prossime elezioni palestinesi e Bush non si è detto contrario a candidati politici di Hamas, esprimendo la convinzione che «i palestinesi non voteranno per chi predica la violenza».
Entrambi i leader hanno fatto attenzione al cerimoniale. Abu Mazen ha parlato in arabo al fine di evitare il sospetto di usare, come faceva Arafat, messaggi diversi per il pubblico americano e palestinese. Bush invece ha fatto posizionare alle spalle dei podi della conferenza stampa finale solo la bandiera Usa e non quella palestinese per sottolineare che l'obiettivo dell'indipendenza deve ancora essere raggiunto.
Sul FOGLIO, allo stesso argomento è dedicato l'articolo di Emanuele Ottolenghi, che riportiamo:
Washington. Abu Mazen è venuto a Washington sperando di ottenere tre cose: una
garanzia formale americana per i futuri negoziati, simile in contenuti e forme alle lettere di garanzia che il presidente americano, George W. Bush, ha offerto al premier israeliano, Ariel Sharon, l’anno scorso; una promessa di aiuti finanziari e uno sconto sulla road map. Su tutte e tre, ha ottenuto meno di quanto sperasse. Bush ha sostenuto la necessitá, giá espressa a febbraio nel
suo viaggio europeo di uno Stato palestinese contiguo, aggiungendo questa volta il dettaglio importante della necessitá di corridoi di collegamento tra Gaza e Cisgiordania, ma non ha offerto una vera e propria lettera di garanzia che costituisce una promessa di sostenere questi contenuti in future trattative, come fu nel caso di Israele un anno fa. In tema di aiuti economici, gli americani hanno offerto qualcosa ma non troppo. L’unico sconto, concernente la road map, riguarda la lotta al terrorismo, ma soltanto fino alle elezioni palestinesi, che per altro Abu Mazen sembra ormai rassegnato a rimandare. Il rais ha due problemi seri domestici da affrontare che ne hanno finora ritardato la visita a Washington: il mancato progresso sul fronte economico e della corruzione, fattore che alimenta il malcontento, e il rifiuto delle fazioni palestinesi di accettare il principio del disarmo. La fragile tregua da lui stabilita a febbraio ha creato spazi e opportunità sia per Israele che per i palestinesi, ma il rifiuto di Hamas e del Jihad islamico di rinunciare all’opzione violenta indica come questi due gruppi in particolare puntino a conservare il loro potenziale militare, come strumento di pressione sull’Autorità palestinese e su Israele dopo le elezioni parlamentari.
Come Sharon, Abu Mazen ha di fronte a sé una serie di sfide domestiche che ne
complicano la missione e ne assorbono completamente le energie. Il rais sperava di non dover adempiere ai suoi doveri secondo la prima fase della road map, che obbliga i palestinesi a smantellare l’infrastruttura del terrorismo e disarmarne le milizie oltre a riformare i servizi di sicurezza. A Washington,
il presidente dell’Anp non ha ottenuto un assegno in bianco, ma tutt’al piú una garanzia americana di non esercitare troppe pressioni sui palestinesi fino ad avvenute elezioni parlamentari, sottolineando invece la buona volontà del rais, la sua genuina dedizione alla strada della non-violenza e il suo impegno concreto, dimostrato da piccoli passi – come un maggior impegno contro il contrabbando d’armi – di cui per il momento gli americani si accontentano. Per l’amministrazione Bush, quindi, lo scontro con Hamas puó attendere, anche se dopo le elezioni potrebbe essere troppo tardi. Abu Mazen non ha ottenuto un impegno americano a favorire la posizione palestinese, reiterata dal rais in un editoriale apparso sul Wall Street Journal, sulla necessità di andare direttamente al negoziato conclusivo su territori, insediamenti, Gerusalemme, sicurezza e confini. Su questo gli americani sostengono la necessità di attenersi alla road map e non potrebbero certo esigere da Sharon un’azione israeliana sugli insediamenti, senza un equivalente impegno palestinese. Tra l’altro nessuno in questo momento a Washington intende metter pressione su Sharon prima che il ritiro da Gaza sia completo. Chiedere a Gerusalemme di saltare le prime due fasi della road map, andando direttamente a quella conclusiva, senza contropartite in tema di sicurezza, e sollecitare Sharon in tema di insediamenti proprio alla vigilia del disimpegno non farebbe altro che indebolire un primo ministro in procinto di dare una svolta positiva al conflitto in corso che è senza precedenti storici e che potrebbe avere risvolti politici drammatici. La visita di ieri è stata un passo importante nella rilegittimazione politica dei palestinesi attraverso la figura di Abu Mazen,
ma l’impegno economico americano rimane meno che soddisfacente per il presidente
palestinese. Dopo anni di corruzione e mancando ancora chiari segnali di inversione di tendenza, il Congresso difficilmente approverebbe aiuti ingenti. Il fatto che sia stato il presidente a sollecitare un aiuto di 50 milioni di dollari – cifra simbolica, ma ben lontana dai bisogni urgenti del rais – indica come il risultato concreto di questo summit sia scarso. Abu Mazen non può nemmeno sperare su molti aiuti da Sharon. Gli americani hanno sollecitato Israele a compiere altri gesti distensivi – che Sharon ha annunciato a Washington mercoledì, promettendo di liberare altri 400 prigionieri palestinesi al suo rientro in Israele – ma i palestinesi si aspettano molto di piú di quanto
Sharon possa concedere, visto il clima politico israeliano alla vigilia del disimpegno. E finché il disimpegno non sarà completo difficilmente i due leader, anche qualora s’incontrassero, avranno molto da dirsi.
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