La necessità della lotta al terrore e la speranza della pace
intervista a Shimon Peres
Testata:
Data: 26/05/2005
Pagina: 7
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: Shimon Peres:
L'UNITA' di giovedì 26 maggio 2005 pubblica a pagina 7 un'intervista di Umberto De Giovannangeli al vicepremier israeliano Shimon Peres, che riportiamo:
Sulla necessità di rispettare i tempi (seconda metà di agosto, ndr.) del ritiro, c'è piena assonanza di vedute tra me e Sharon». A parlare è Shimon Peres, vice premier israeliano e leader dell'Internazionale Socialista. In forma smagliante, l'ottantaduenne premio Nobel per la pace è stato tra i protagonisti del Consiglio dell'Internazionale Socialista, svoltosi per la prima volta in Israele e nei Territori palestinesi. Ed è in questa occasione che l'Unità lo ha incontrato.
Nonostante le difficoltà del presente, Shimon Peres guarda al futuro con ottimismo: «Sul Medio Oriente soffia un vento di pace - spiega a l'Unità - e nessuno può fermarlo, nessuno può cambiare il corso della Storia». Un corso che può portare a ridefinire i caratteri di un Nuovo Medio Oriente «senza più barriere, politiche, ideologiche, economiche. E Israele può giocare un ruolo di primo piano nel contribuire alla grande e duratura rinascita della nostra Regione».
Sull'operato del presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), Shimon Peres mantiene un giudizio sostanzialmente positivo: «Non tutte le nostre aspettative - dice - si sono realizzate, tuttavia resto della convinzione che il presidente Abbas sia un partner sincero per la pace».
In una intervista a l'Unità il segretario dei Ds Piero Fassino ha individuato nella formazione del governo Sharon-Peres, assieme alla elezione alla presidenza dell'Anp di un leader riformatore e moderato come Mahmoud Abbas, le novità positive per ridare spazio alla speranza di pace in Medio Oriente. In Italia, però, c'è chi s'interroga su questo «strano» connubio politico. Avrebbe mai creduto di trovarsi a fianco di Ariel Sharon nell'attuare un suo piano di ritiro da Gaza?
«Certo non dieci anni fa. Ho cominciato a capire il cambiamento in Sharon e a credere al fatto che era seriamente intenzionato a tradurlo in azioni pratiche, quattro anni fa, nel nostro primo governo di unità nazionale. È stato allora che per la prima volta ha espresso il suo sostegno alla creazione di uno Stato palestinese. In quel periodo, tenendolo informato, conducevo delle trattative con Abu Ala (attuale primo ministro palestinese, ndr) e quando siamo arrivati ad un accordo glielo ho portato. Sharon espresse il suo consenso, avanzando una sola importante riserva: quella delle date indicate. Mentre io pensavo che si sarebbe potuto aspirare a concludere un accordo definitivo in 2-3 anni, lui pensava che sarebbero stati necessari 8-10 anni. Non so se Sharon aveva già in mente allora il piano di distacco da Gaza e dagli insediamenti nel Nord della West Bank, comunque è stato quello il periodo in cui ha capito che i carri armati e i cannoni non risolvono nulla, non danno una vera risposta alle questioni politiche e sociali di Israele. Oggi Sharon è consapevole che il suo piano è entrato a far parte di una situazione generale dalla quale non è possibile fuggire e, invece di battere la testa contro il muro, ha deciso di trovare il modo per risolvere i problemi».
Nell'ultima intervista concessa a l'Unità, parlammo molto della sua visione aperta, avanzata, del Nuovo Medio Oriente. Il piano Sharon è senz'altro ben lontano da quel Medio Oriente senza più barriere da Lei tratteggiato.
«Una cosa è la visione ideale e altra è la realtà in cui ci si deve muovere per ottenere la realizzazione di quegli stessi ideali. Nelle ultime elezioni il Partito Laburista ha dovuto accusare un brutto colpo. Contro la prospettiva di pace che Oslo aveva aperto - pur con tutte le difficoltà - abbiamo dovuto confrontarci con una insostenibile debolezza politica. Per questo ho accettato di legarmi a questa collaborazione con Sharon, pur rendendomi conto che il suo piano non si spinge certo a quello che vorrei ottenere, anche se va in quella direzione. In ogni caso, noi non abbiamo abbandonato la nostra strada; è Sharon ad averla imboccata, abbandonando quella tradizionale della destra. Anche se non molti se la pongono, la domanda più interessante non è perché Peres è andato con Sharon, bensì perché Sharon è andato con Peres. I piani sono importanti. Io ne ho preparati molti, gli ideatori di Ginevra ne hanno presentato un altro - tanto per ricordarne un altro. Ma se di questi grandi piani rimangono poi solo parole, allora è meglio fare cerchio intorno ad un piano che pur non essendo proprio quello che si vuole, è comunque sostenuto dal consenso popolare e permette di realizzare quello che è possibile. Non si tratta di rinunciare ai nostri valori, alle nostre idee, ai nostri sogni. Ma chi fa politica deve calare i valori, le idealità nella realtà concreta e misurarsi con essa. L'importante è che i compromessi non stravolgano ciò in cui si crede: da questo punto di vista, l'accordo con Sharon sul ritiro da Gaza è un buon compromesso».
Tra i punti ancora in discussione sul ritiro da Gaza vi è quello della distruzione o meno delle strutture, logistiche e abitative, degli insediamenti evacuati. Qual è in merito la sua posizione?
«Le case degli insediamenti non devono essere demolite. Dal nostro punto di vista - quello israeliano - la demolizione significherebbe creare un milione e 250 mila tonnellate di detriti. Portarli via da là prenderebbe tre mesi, costerebbe centinaia di milioni di dollari e dovrebbe avvenire quando già l'esercito non è là. C'è poi l'agricoltura. I coloni hanno oggi circa 400 ettari di serre. Vi sono impegnate migliaia di persone, per la maggioranza palestinesi. A cosa gioverebbe loro se noi distruggessimo tutto, prima di uscire. Ancora migliaia di disoccupati? No, bisogna fare di tutto perché case e strutture agricole non vengano distrutte e vengano invece usate per il bene delle persone. E anche se Sharon non ha ancora preso una decisione definitiva, mi sembra che sia orientato ad accettare la mia posizione. In ogni caso perché la nostra uscita da Gaza riesca, si deve preparare il campo su due piani. Uno immediato, che prepara l'evacuazione ed eviti al massimo possibili disordini. L'altro, che riguarda il sostegno da dare ai palestinesi, mettendoli in condizione di combattere la povertà e sviluppare l'occupazione. Se si riuscirà, si potranno eliminare i blocchi stradali, aprire le strade, agevolare il passaggio di merci e di persone. Modernizzare produce democrazia. Ed è importante l'impegno assunto dall'Internazionale socialista di favorire e promuovere piani mirati di sviluppo nei Territori".
Il ritiro da Gaza ha lacerato non solo la politica ma anche la società israeliana. C'è il rischio di una frattura insanabile?
«Non si può essere profeti e dire con certezza che Israele uscirà da questo periodo senza che la sua società e il suo mondo politico rimangano in una certa misura lesi. Io posso dire quello che penso si debba fare per evitare che vi siano problemi insanabili. Si deve continuare nel processo di pace e non limitarsi all'uscita dalla Striscia di Gaza. Si deve dare una spinta allo sviluppo di aree dentro Israele che negli ultimi anni sono state trascurate. Si deve operare per rinforzare l'economia e la società del paese, cercando il giusto equilibrio fra le due. Si deve far tornare in primo piano l'educazione. In ultima analisi, si deve fare di quel ritiro il volano per realizzare un futuro di pace, di sicurezza, di benessere sociale per Israele e i palestinesi. Possiamo farcela».
Lei auspica un Medio Oriente senza più barriere. Ma questa idea aperta di pace può coniugarsi con «muri» come quello che Israele sta realizzando in Cisgiordania?
«Quella dei Muri divisori, delle barriere difensive, non è pace , questa è guerra al terrorismo; una guerra che Israele è stato costretto a combattere. Per una pace è necessario un confine concordato e non Muri divisori. La lotta al terrorismo deve essere combattuta strenuamente, utilizzando i mezzi più idonei, e la barriera difensiva è uno di essi, ma la pace non può essere imposta. La pace o è una scelta condivisa o non è».
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