Su Israele Fassino e i DS stanno cambiando politica
senza rivedere gli errori passati
Testata:
Data: 24/05/2005
Pagina: 8
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: Fassino: ora Sharon ha cambiato politica
L'UNITA' di martedì 24 maggio 2005 pubblica un'intervista di Umberto De Giovannangeli a Piero Fassino, a Tel Aviv per una riunione dell'internazionale socialista.

Il segretario dei Ds fa nel corso dell'intervista affermazioni condivisibili e importanti.
Ci riferiamo in particolare a quella relativa alla necessità che l'Anp combatta il terrorismo e alla chiara denuncia dell'impraticabilità del "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi e dei loro discendenti in Israele.

Accanto a questi elementi positivi ne permangono altri criticabili, soprattutto nella ricostruzione della storia del conflitto. Fassino dimentica, per esempio, che il terrorismo suicida ha iniziato a colpire Israele subito dopo gli acordi di Oslo, segnando un drammatico peggioramento della sicurezza del paese.

Inoltre, dovrebbe essere meglio valutato il fatto che le attuali prospettive di pace dipendono sia dalla precedente dura lotta al terrorismo del governo Sharon, alla quale Fassino ribadiscela contrarietà propria e del partito che guida, sia dall'uscita di scena di Arafat, sempre appoggiato dalla sinistra.

Ecco il testo:

«La formazione del governo Sharon-Peres in Israele e le elezioni di un riformista, Abu Mazen, alla presidenza dell'Autorità nazionale palestinese, offrono una nuova opportunità alla pace che non va dilapidata. In questo senso, il ritiro da Gaza
può rappresentare un nuovo innesco a condizione però che esso non sia concepito solo come un atto unilaterale da parte d'Israele». A parlare è Piero Fassino, segretario dei Democratici di Sinistra, uno dei protagonisti della due giorni dell'Internazionale Socialista in Israele e nei Territori. «La gradualità nell'approccio negoziale - rimarca Fassino - non può essere infinita. Tempi infiniti e l'incertezza sull'approdo finale del negoziato hanno logorato il processo di pace». Nei prossimi mesi il segretario dei Ds farà ritorno in Medio Oriente: «Nel viaggio che stiamo organizzando - annuncia - che mi porterà in Libano, Siria, Israele e Territori palestinesi incontrerò tutti i principali leader, fra cui Abu Mazen, Ariel Sharon e Shimon Peres».
La prima volta dell'Internazionale socialista in Israele e nei Territori. Qual è il significato politico di questo evento?
«Per l'Internazionale Socialista il Medio Oriente è sempre stato una priorità della sua agenda. Basterà ricordare che fu il leader socialdemocratico austriaco Bruno Kreisky negli anni Settanta a favorire i primi colloqui che portarono all'accordo di pace tra Begin e Sadat; che sono stati Brandt e Palme a favorire i colloqui negli anni tra l'Olp e le forze politiche israeliane; che a Oslo con l'assistenza del governo socialdemocratico norvegese si svolsero i colloqui che portarono all'accordo di Washington tra Arafat e Rabin; che dentro l'Internazionale socialista siedono due partiti israeliani - il Labour e lo Yahad - e Al-Fatah palestinese e dunque l'Is è l'unica organizzazione internazionale nella quale israeliani e palestinesi si ritrovano come compagni e possono parlare. Oggi siamo qui per attestare la nostra volontà di concorrere a rimettere in moto un processo di pace che si è bloccato e che ha prodotto lutti, guasti, lacerazioni profondi nei due popoli. Con la consapevolezza che in Medio Oriente non c'è un torto e una ragione in conflitto; ci sono due ragioni: la ragione di Israele, che ha diritto di vivere sicuro nel suo territorio, nei suoi confini, senza paura dei suoi vicini, guardando al futuro senza angoscia; e il diritto dei palestinesi ad avere un proprio Stato, una propria nazione, una patria».
Un approccio difficile da metabolizzare nei due campi.
«Per un lungo periodo, ciascuno dei due protagonisti, israeliani da un alto, i palestinesi dall'altro, ha pensato che il proprio diritto si sarebbe affermato meglio se negava quello dell'altro. È stato così dal 1948 al '91, e in quarant'anni abbiamo avuto cinque guerre, una Intifada, sofferenze, morti, lutti, terrorismo, occupazioni militari. Le cose sono cambiate, non a caso, tra il '91 e il '95 perché si affermò esattamente l'impostazione opposta, e cioè ciascuno riconobbe che il diritto dell'altro era legittimo come il suo e anzi ciascuno accettò l'idea che il proprio diritto si sarebbe affermato meglio se si affermava insieme al diritto dell'altro. È questa impostazione nuova che portò alla Conferenza di Madrid, in cui per la prima volta si sedettero a un tavolo Yitzhak Shamir, capo del governo israeliano, e Feisal Husseini in rappresentanza dei palestinesi dei Territori occupati. È questa impostazione che ha portato ai colloqui di Oslo tra l'Olp e il governo israeliano; agli accordi di Washington firmati da Rabin e Arafat. La pace si fa se è fondata sul riconoscimento, se è fondata sui diritti di entrambi; una impostazione riassunta nella formula "due popoli, due Stati". Questa impostazione, prima con la morte di Rabin e poi con il fallimento dei negoziati di Camp David, si è interrotta. In questi cinque anni che abbiamo alle spalle, dal 2000 ad oggi, è prevalso invece spesso, in entrambi i campi, il ritorno all'antico. In Israele, è cresciuta nuovamente l'idea che con i palestinesi non si possa fare nessuna pace; tra i palestinesi è cresciuta nuovamente l'idea che con Israele non si possa fare alcun negoziato, e questo ha portato spesso nuovamente alla scelta sciagurata della lotta armata e a ricorrere al terrorismo. Abbiamo visto a quale disastri ha condotto tutto questo».
Questo nel recente passato. Ma oggi?
«Oggi c'è una duplice opportunità. La prima è l'elezione di Abu Mazen, un riformista, un democratico, un uomo di pace, a capo dell'Autorità palestinese; e la seconda è la formazione in Israele del governo Sharon-Peres, che rappresenta una novità; un governo di unità nazionale formato per riprendere il processo di pace».
Il che porta ad un giudizio politico su Ariel Sharon.
«Il nostro giudizio non cambia per ciò che concerne le responsabilità che Sharon ha per quello che è accaduto nel passato, ma sarebbe sciocco non vedere che c'è una novità: Sharon che cambia politica nel momento in cui si mette d'accordo con l'avversario storico di sempre, Peres, per dar vita a un governo che faccia la pace. Questa possibile ripresa di un percorso negoziale oggi conosce un passaggio importante, ed è la decisione del governo israeliano di ritirarsi da Gaza. Può essere l'innesco di una fase nuova, ma a due condizioni».
Quali?
«La prima, è che non si tratti soltanto di una decisione unilaterale di ritiro, ma segua un accordo con i palestinesi per definire che cosa succede a Gaza dopo che gli israeliani se ne saranno andati. Intanto non è indifferente come gli israeliani se ne vanno, e cioè se la fuoriuscita dei soldati israeliani e anche lo smantellamento delle colonie avviene in un clima pacifico, senza conflitti, senza drammi. Non è indifferente se tutto ciò che gli israeliani hanno lì costruito e coltivato, penso all'agricoltura, viene trasferito e a chi. Non è indifferente se da subito c'è un piano per un programma straordinario di investimenti che aiuti Gaza a conoscere uno sviluppo autonomo. Non è indifferente quale sarà lo status giuridico di Gaza così che possa diventare davvero il primo nucleo di una autorità statale palestinese, evitando che la popolazione della Striscia sia costretta a vivere in un ghetto senza speranza. Tutto questo si fa se c'è un accordo e se viene gestito insieme. La seconda condizione è che simultaneamente al ritiro da Gaza riprendano i negoziati tra israeliani e palestinesi per riaprire la strada al processo di pace. Naturalmente sappiamo tutti che la pace è complessa, difficile, che le questioni da discutere non si risolvono in un minuto, che la pace ha bisogno di una certa gradualità. Ma attenzione: perché già molto tempo è passato, e non è vero che il passare del tempo senza che niente accada risolva i problemi. Anzi, il passare del tempo, se non accade niente, i problemi li fa marcire e rende più difficile le soluzioni. La Conferenza di Madrid è del 1991; gli accordi di Oslo-Washington del 1993. Siamo nel 2005. Sono passati quasi quindici anni. È nata una generazione in Israele e in Palestina che non ha mai conosciuto Rabin, che non ha mai conosciuto la speranza della pace, ha solo conosciuto la frustrazione di una pace di cui si parlava ma che non arrivava mai. Ha conosciuto le sofferenze e i drammi degli attentati terroristici ai bus in Israele; l'occupazione militare dei Territori in Palestina. Questo dice che non abbiamo un tempo infinito davanti a noi. E che quindi bisogna mettersi al tavolo subito e riprendere con forza un percorso di pace. Affrontando le questioni decisive. Una di queste è che le autorità palestinesi abbiano un atteggiamento chiaro, netto, inequivoco di lotta ad ogni forma di terrorismo e al ricorso alla violenza. È poi necessario che da parte israeliana si diano garanzie di tempi certi entro cui nascerà lo Stato palestinese e sia chiaro anche su quale territorio e con quali confini. Perché questo dà credibilità al processo».
Tra i nodi più intricati da sciogliere c'è quello del diritto al ritorno dei profughi palestinesi.
«Occorre ricercare una soluzione sul diritto al ritorno che non sia incompatibile col mantenere a Israele il carattere di uno Stato ebraico, ed è quindi evidente che non potrà esserci il ritorno in massa di milioni di rifugiati palestinesi perché questo stravolgerebbe la composizione demografica dello Stato d'Israele e gli ebrei non lo accetteranno mai. E quindi il diritto al ritorno deve essere soprattutto risolto con forme di indennizzo e di risarcimento. Bisognerà affrontare la questione di Gerusalemme e di come fare in modo che questa città che appartiene a tre religioni e alla storia della civiltà comune, sia una città in cui tutti si riconoscono. Ci sono grandi problemi ma bisogna cominciare a mettersi al tavolo e affrontarli. E qui è importante il contributo della comunità internazionale, perché palestinesi e israeliani vengono da un lungo periodo di conflitti, di tensioni, di reciproca diffidenza che è cresciuta, di incomunicabilità, spesso di odio per le sofferenze inflitte dell'uno all'altro. Tutto questo non si supera in un minuto, e si supera se, oltre che la volontà di arrivare alla pace che deve animare israeliani e palestinesi, c'è da parte della comunità internazionale un impegno ad aiutare, favorire, accompagnare il processo con l'assistenza politica, con programmi di sostegno sia all'economia israeliana sia ai Territori palestinesi, con la creazione di un sistema di relazioni che ricostruisca fiducia e reciproca confidenza. E non sono indifferenti a tutto questo le dinamiche che assumeranno alcuni processi che investono l'area».
A cosa si riferisce in particolare?
«Penso all'evoluzione della transizione democratica irachena; la soluzione che si darà alla questione del nucleare in Iran; l'esito delle elezioni libanesi; l'evoluzione nella politica siriana. Sono fattori che anch'essi, a seconda di come evolvono, incideranno sulla pace in Medio Oriente e quindi c'è bisogno di una iniziativa internazionale anche su ciascuno di questi dossier per favorirne una positiva evoluzione e così sostenere il processo di pace in Medio Oriente».
E l'Europa che ruolo può svolgere?
«L'Unione Europea è stata in questi anni il principale partner commerciale di Israele e il principale finanziatore dell'Autorità palestinese. Adesso è necessario che a questo ruolo economico si aggiunga anche un impegno politico che, insieme agli Stati Uniti, svolga un ruolo di facilitatore di dialogo e di mediatore di soluzioni politiche. E anche l'Italia deve fare la sua parte, superando le incertezze, le oscillazioni e le indecisioni che le hanno impedito di contribuire in modo efficace alla ripresa del processo di pace. E noi del centrosinistra intendiamo batterci per questo».
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