Solleva un problema reale Ian Buruma, Scrittore e professore di siritti umani al Bard College di New York, nell'articolo "Chi non è d'accordo con me è un nazista" pubblicato dal CORRIERE DELLA SERA di giovedì 19 maggio 2005: quello della banalizzazione e dell'uso politicamente strumentale della Shoah.
Un esempio tipico, e particolarmente nefasto, di tale patologia è la descrizione, da parte della propaganda palestinese e filo-palestinese, di Israele come stato "nazista" e dei palestinesi come vittime di un "genocidio".
Buruma però non si concentra affatto nella denuncia di questa patologia.
Nel suo articolo istituisce un parallelo tra le posizioni di critici accademici radicali di Israele e degli Stati Uniti, come Noam Chomsky e Joseph Massad e quelle dei loro critici più duri, come Daniel Pipes, Phyllis Chesler e Alan Dershowitz.
Tra gli uni e gli altri non vi sarebbe molta differenza.
Alcune critiche a Israele possono essere eccessive, ma chi vi si oppone avrebbe il torto di voler sopprimere il dibattito.
Altre critiche, inoltre, sarebbero "normali, se non banali sulla stampa israeliana", mentre a New York sono denunciate come antisemite.
Dare dei "nazisti" agli israeliani, insomma, è certamente una forma di imbarbarimento del dibattito politico, ma lo è altrettanto dare dei "nazisti" o degli antisemiti, ai critici accademici di Israele.
Questa equivalenza è sostenibile?
Joseph Massad ha per esempio criticato inteletuali europei critici verso Israele, come Jacques Derrida, per la loro accettazione dell'esistenza di Israele. Secondo Massad, non essendo gli ebrei una nazione, il nazionalismo ebraico non può che essere un razzismo, ragione per cui uno Stato ebraico è intrinsecamente illegittimo.
Rashid Khalidi, descritto nell'articolo di Buruma come "abbastanza moderato" ha descritto la violenza terroristica palestinese come un contributo al progresso culturale e politico del Medio Oriente, interpellato sul linciaggio, ripreso da operatori televisivi, di due soldati israeliani a Ramallah, all'inizio della "seconda intifada", non ha condannato gli assassini, ma il "cinismo" dei giornalisti che ne avevano mostrato al mondo la sete di sangue. Definisce Israele uno stato di apartheid (ma nega, secondo Buruma, di averlo definito uno Stato razzista: ci sfugge la differenza) che usa armi di distruzione di massa sulle città palestinesi sui campi profughi: è chiaro che queste non son opinioni, ma calunnie e se che accusa Khalidi di diffondere odio non è "molto diverso" da lui, anche chi accusa docenti universitari negazionisti come Robert Faurisson non è "molto diverso" da loro.
Va poi segnalato il fatto che Buruma cita il rapporto con il quale la Columbia University ha discolpato se stessa dall'accusa di intimidazioni, ma non l'editoriale fortemente critico con il quale il New York Times lo ha accolto.
Che pone false questioni: la fondazione di un gruppo volto a difendere l'interesse nazionale americano negli atenei non implica che le università debbano promuovere l'interesse nazionale. La domanda da porsi è piuttosto perché, per l'establishment accademico di alcune università, gli atenei debbano contrastare gli interessi nazionali americani e dell'intero occidente.
Il dibattito sulla Columbia University e sull'antiamericanismo e antisionismo nelle università americane non è dunque rappresentato fedelmente dall'articolo di Buruma. Da parte del CORRIERE la scelta di pubblicare questo articolo, dopo aver ignorato per lungo tempo la questione, e senza presentare gli argomenti dei bersagli polemici di Buruma, è scorretta.
Per una presentazione esaustiva e documentata di ciò che stia realmente accadendo nelle università americane, invitiamo i nostri lettori a visitare il sito www.campuswatch.org
Di seguito, l'articolo di Buruma:Quando a Washington un autorevole personaggio pubblico propone di introdurre la tassa di successione come « risarcimento morale per l'Olocausto » , se ne può solo dedurre che qualcosa sia andato seriamente storto nel dibattito politico. La proposta è di Grover Norquist, presidente di Americans for Tax Reform , membro dell'esecutivo della National Rifle Association of America e paladino delle cause dei conservatori.
Leggendo la storia di Norquist, noto militante della destra, mi è tornato in mente Ken Livingstone, il sindaco di sinistra di Londra, che paragonò un reporter dell' Evening Standard a un criminale di guerra tedesco e poi, quando gli fu detto che il reporter era ebreo, a un' « avida » guardia di un campo di concentramento. O Livingstone e Norquist sono matti — e ne dubito fortemente — o questi riferimenti storici sono stati completamente svuotati di significato. Tutto quanto v'è di indesiderabile pare essere associato all'Olocausto. Oggi siamo tutti nazisti. Perché Ken Livingstone non ha sentito il bisogno di chiedere scusa? Non perché ritenga che i campi di concentramento o i crimini di guerra non siano da prendere sul serio, ma perché detesta il razzismo in quanto « ideologia estremamente reazionaria » . Poiché ha sempre detestato il razzismo, quindi, Livingstone può tranquillamente accostare un reporter ebreo che compie il suo lavoro a un criminale di guerra tedesco. Quanto all'antisemitismo, Livingstone ha chiarito di essere contrario, spostando poi il discorso sulle « purghe etniche » degli arabi da parte degli israeliani.
Il razzismo è una cosa terribile. La discriminazione in base al colore della pelle o ad altre caratteristiche etniche è esistita in diversi luoghi per lunghissimo tempo. A partire dal genocidio nazista, però, il razzismo è visto come la principale, se non la sola, fonte di atrocità.
L'Olocausto è il definitivo paradigma del male moderno. Come risultato, quasi ogni forma di brutalità umana è ora esaminata attraverso il prisma di Auschwitz. Questo ha sortito il duplice effetto di ridurre l'orrore dell'Olocausto in sé e di ostacolare i legittimi dibattiti sulle differenze politiche invocando la piaga del razzismo.
Il razzismo esiste, ma non tutte le politiche israeliane nei confronti dei palestinesi, per quanto aspre, sono da esso ispirate. E come evidenzia Livingstone, forse esagerando, non tutte le critiche rivolte alle politiche israeliane sono il risultato del pregiudizio antiebraico. Eppure questi sono i termini dei moderni dibattiti politici. Ecco il motivo per il quale un'istituzione autorevole come la Columbia University di New York, è finita nell'occhio del ciclone.
L'ultima crisi è stata innescata da un film documentario, intitolato Columbia Unbecoming , prodotto da un gruppo con base a Boston chiamato The David Project , il cui obiettivo dichiarato è « insegnare alle persone ad essere costruttive nella difesa di Israele e contrastare l'atteggiamento ingiusto e sleale delle nostre università, dei mezzi di informazione e delle comunità » . Il film mostra una serie di studenti che accusano i professori del Dipartimento di Lingue e Culture Mediorientali e Asiatiche ( MEALAC) di allontanarli, intimidirli e offenderli con le loro opinioni antisraeliane.
Due professori si distinguono per la severità della censura. Uno è Joseph Massad.
Avrebbe detto di non tollerare la negazione delle atrocità israeliane nella sua classe. Massad è anche accusato di aver domandato a uno studente israeliano fuori dall'aula quanti palestinesi avesse ucciso. Il professore ha rigettato le accuse e sostiene di essere vittima di una campagna orchestrata per privarlo del diritto alla libera espressione.
Figure di spicco sono rapidamente scese in campo. Alan Dershowitz, professore di Legge ad Harvard, ha visitato la Columbia e dichiarato che i professori del MEALAC incoraggiavano i terroristi in Medio Oriente. Presentando il documentario in Israele, Natan Sharansky, ministro per gli Affari della Diaspora, ha parlato dei campus come di « isole di antisemitismo » . Campus Watch , un'organizzazione di « accademici americani preoccupati per gli interessi degli Stati Uniti e per la loro frequente denigrazione nei campus universitari » , ha reso pubbliche le accuse secondo le quali la Columbia sarebbe diventata un focolaio di violenza antisraeliana sponsorizzato dagli arabi. Phyllis Chessler, autore di The New Anti Semitism , ha scritto: « L'accademia si è totalmente e fatalmente palestinizzata » .
A una conferenza sull'antisemitismo tenuta alla Columbia, lo stesso Chessler ha paragonato un gruppo di simpatizzanti con la causa palestinese al partito nazista.
Inevitabilmente, giacché siamo negli Stati Uniti, è stato evocato lo spettro del Maccartismo e Lee C. Bollinger, il preside della Columbia University, ha nominato una commissione di indagine sull'intera vicenda. In seguito a prudenti deliberazioni, la commissione ha deciso che non c'erano le basi per accusare i professori di antisemitismo, sebbene le parole di Joseph Massad fossero « andate oltre i limiti comunemente consentiti » . Una volta espresso il verdetto della commissione, però, è immediatamente scattata contro i suoi membri l'accusa di antisemitismo.
È tutto un gran caos. Mai nella storia gli ebrei sono stati tanto al sicuro negli Usa quanto oggi, in particolare a New York e ancor di più in un'istituzione come la Columbia University, dove il 25% degli studenti è di religione ebraica, come molti professori. Quando due anni fa 572 persone hanno firmato una petizione per ottenere che l'università si sganciasse dai partner israeliani, in 33.285 hanno firmato per opporsi.
Eppure, la Columbia University sembra essere diventata un covo controllato da palestinesi maccartisti. Dal canto suo, Joseph Massad ritiene che il Maccartismo sia dal lato sionista, sostenuto da razzisti divorati dall'odio per gli arabi musulmani. Massad è la vittima degli attacchi di Campus Watch e di altri che, dice, tengono « archivi Gestapo » su di lui.
Il ragionamento di Massad tende a una certa ambiguità. L'antisemitismo esiste, sostiene, ma le sue vittime sono gli arabi e i musulmani « uccisi in decine di migliaia dall'antisemitismo cristiano euroamericano e dall'antisemitismo ebraico israeliano » . Qualsiasi cosa si pensi delle politiche mediorientali dell'amministrazione Bush o dell'Unione europea, sembra difficile che « l'odio antiarabo e antimusulmano, scaturito dall'antisemitismo » ne costituisca la principale forza motrice. Affermare questo, tuttavia, non fa di Massad un antisemita.
Di certo, i motivi di gruppi come Campus Watch , fondato dallo storico conservatore Daniel Pipes, sono dubbi. Il suo scopo dichiarato è « sviluppare una rete di studenti impegnati e membri della facoltà interessati alla promozione degli interessi americani nei campus » . L'idea che gli accademici abbiano il dovere di promuovere gli interessi nazionali è difficile da accettare. Chi, in ogni caso, definisce questi interessi? Questa è di certo una materia opinabile, che non andrebbe affidata ad agitatori che sentono la necessità di « monitorare e ottenere informazioni » sugli universitari le cui opinioni non concordino con le loro.
In un certo senso, Pipes e i suoi colleghi non sono tanto diversi da quelli che pretendono di smascherare. Come Massad, che chiama i suoi avversari politici « antiarabi » o « antimusulmani » , il popolo di Campus Watch non esita a muovere l'accusa di « antiamericanismo » o « antisemitismo » , anche nei casi in cui l'accusa non sia meritata. Ognuno vede nel razzismo e nell'odio irrazionale la fonte di tutto ciò che di sbagliato esiste nel mondo.
Ciò che spinge Joseph Massad e altri intellettuali di sinistra a difendere la causa palestinese, è irrazionale solo in piccola parte. Sono convinti che il potere degli Stati Uniti sia usato per promuovere un nuovo modello di imperialismo nel mondo non occidentale, che Israele sia il giocattolo del neocolonialismo americano e che i palestinesi siano le vittime di politiche razziste. Esistono buone ragioni per dissentire, ma accusare semplicemente Massad o, per fare un nome, Noam Chomsky, di antiamericanismo o antisemitismo significa cadere nella stessa trappola di chi non vede altro che il razzismo.
La migliore analisi che io abbia sentito del caos esploso alla Columbia è di Moshik Temkin, un dottorando in storia americana.
Per quanto concerne l' « intimidazione » , Temkin ritiene che gli studenti americani si sentano intimiditi solo perché non hanno familiarità con opinioni eterodosse su Israele.
Critiche alle politiche israeliane che sarebbero normali, se non banali, sulla stampa israe liana, sono denunciate a New York come espressioni di odioso antisemitismo.
Come esempio, cita il caso di Rashid Khalidi, un professore palestinese americano di studi mediorientali, che Temkin descrive come « abbastanza moderato » . Khalidi è rispettato nel suo campo e non è mai stato accusato di aver intimidito nessuno. Eppure, trovatosi a insegnare nell'ambito di un programma educativo per docenti scolastici tenuto dalla Columbia in cooperazione con il Dipartimento per l'Educazione della Città di New York, è stato rimosso a causa delle sue opinioni su Israele. Rispondendo alle accuse di Daniel Pipes, Khalidi nega di aver definito Israele uno Stato « razzista » ma è uno strenuo oppositore di quello che indica come il sistema dell'apartheid israeliano. Per questo motivo Khalidi è stato definito « odioso » , la sua nomina « un'abiezione » e Daniel Pipes ha usato l'espressione « estreme e malate » a proposito delle sue opinioni.
Temkin conclude sostenendo che i professori accusati possono sbagliare su Israele ma che i loro accusatori non intendono promuovere la « giustizia » , bensì « sopprimere il dibattito, soprattutto sull'occupazione » . Nonostante la commissione della Columbia abbia ampiamente assolto i professori del MELEAC dall'accusa, il dibattito su Israele è stato avvelenato. È più semplice discutere le politiche di Israele e Palestina a Tel Aviv che a New York.
Ad ogni modo, il verdetto della commissione della Columbia ha avuto poca risonanza a New York. La storia dell'antisemitismo che pervade il campus della Columbia è stata soppiantata da uno scandalo ben più succulento, la morte di Terri Schiavo, la giovane donna della Florida che gravi danni cerebrali avevano ridotto allo stato vegetativo per oltre un decennio. Quando la sonda d'alimentazione è stata staccata, il marito Michael ha detto che Terri sarebbe finalmente riuscita a morire in pace. La sorella Suzanne l'ha paragonata a una vittima di Auschwitz.
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