Uzbekistan: quando il "male minore" è impossibile da individuare
lo scontro tra un satrapo post-sovietico e le strategie islamiste in Asia centrale
Testata:
Data: 17/05/2005
Pagina: 1
Autore: Mauro Martini
Titolo: L'altro grande gioco
A pagina 1 dell'inserto IL FOGLIO di martedì 17 maggio 2005 pubblica un'analisi di Mauro Martini sulla crisi in Uzbekistan e sulla strategia islamista in Asia centrale.

Ecco l'articolo:

Dopo Andijan e Kurasu, una terza cittadina uzbeka, Paaktabad, si è unita all’insurrezione contro il regime di Islam Karimov e le truppe speciali non si sono tirate indietro, causando 200 morti che, sommati ai 500 denunciati nei giorni scorsi, portano a 700 il bilancio provvisorio steso dalle organizzazioni d’opposizione. Inutile pretendere una conferma dalle autorità, che si muovono ancora sulla linea tracciata da Karimov, di ritorno da Andjan dove aveva guidato di persona la cruenta "operazione repressione": c’è da registrare una decina di vittime tra i militari e un numero imprecisato di caduti tra gli insorti, che sarebbero tutti criminali, anche quando si tratta di donne e bambini, fomentati dagli islamisti radicali e dagli americani. Il ragionamento del presidente è lineare: chi può aver diffuso rivendicazioni democratiche in una popolazione povera e ignorante se non gli stessi attivisti che hanno già ben lavorato a Tbilisi, a Kiev e a Khisinau? Karimov in queste ore ha scelto la Russia: al Cremlino l’hanno giudicato un dittatore della peggior specie, ma nessuno ha messo in discussione il suo diritto a fronteggiare l’ondata islamista che dalla valle del Fergana punta a Taskent. Putin è preoccupatissimo. Da un lato non gli sfuggono le analogie con la situazione in Cecenia: la pregiudiziale islamista elude l’impiego di armi politiche e obbliga al più spietato ricorso alla forza, così come in Uzbekistan si è fatto un unico fascio del radicale Movimento islamico, legato ad al Qaida, e del più sfumato Hizb al Tahrir. Dall’altro è consapevole che il vero obiettivo dei combattenti della valle di Fergana è di destabilizzare Taskent per trasformare la valle medesima nel centro territoriale del nuovo Califfato dopo la perdita dell’Afghanistan. La dinamica dell’insurrezione uzbeka è abbastanza chiara. Nel 1992, al momento di trasformarsi da leader comunista in satrapo postsovietico, Karimov ha promesso una ricchezza che non si è mai vista. Anzi, all’accentramento delle ricchezze (materie prime energetiche e oro) nelle mani di pochi spezzoni delle nomenklature della capitale è corrisposto, in provincia, l’impoverimento dei ceti più deboli e dei ceti medi, i quali sono passati nei ranghi dell’islamismo, attraverso l’opera di penetrazione di Hizb al Tahrir. Questo ceto medio fa da congiunzione tra islamisti radicali e miseri descamisados, che portano in piazza tutte le rivendicazioni, tra cui quelle democratiche del ceto medio. Pur essendo a conoscenza del volto reale dell’impresentabile presidente, a Washington lo hanno coccolato a lungo, strappandogli all’inizio della guerra in Afghanistan la base aerea di Kandashan, autentico schiaffo in faccia a una Russia che ancora considerava suo territorio lo spazio ex sovietico. Oggi la scelta è tra due mali, di cui è pressoché impossibile stabilire il minore. Se George W. Bush abbandona Karimov al suo destino, è inevitabile l’esplosione di un potente focolaio islamista in grado di mandare in pezzi, armi in pugno, la suddivisione dello spazio centroasiatico sopravvissuta all’Urss. Se invece gli offre ancora l’appoggio incondizionato degli ultimi anni, vacilla il principio cardine dell’iniziativa statunitense, secondo cui la lotta al terrorismo internazionale si fonda sulla diffusione della democrazia. Gli Stati Uniti non possono permettersi di perdere influenza sull’Uzbekistan. Per motivi energetici, certo, ma anche perché Taskent è un nodo fondamentale nella cintura di contenimento che Washington sta costruendo pezzo per pezzo per impedire al momento giusto alla Russia di potersi saldare con la Cina in un’alleanza contro la Casa Bianca. L’Asia centrale è già di per sé una regione complessa, con il Tagikistan che ospita truppe russe al suo confine esterno e con il Kazakistan che dovrebbe essere il prossimo teatro di una "rivoluzione colorata". L’Uzbekistan sembrava offrire una relativa stabilità da sfruttare serrando Putin nella sua stessa trappola: vincolarlo alle esigenze della lotta internazionale contro il terrorismo e quindi obbligarlo a lavorare per debellare il rischio della trasformazione in Califfato della valle di Fergana, distraendolo dall’opera di penetrazione statunitense nelle altre repubbliche centroasiatiche. Alla Casa Bianca una decisione va presa a breve: o affiancarsi alla Russia nella difesa a oltranza di Karimov oppure valutare se vi è una via per separare all’interno dell’insurrezione l’opzione islamista da quella democratica per sorreggerla fino al prossimo anno – anno di elezioni – magari individuando un candidato credibile nella sua laicità e nelle sua fede democratica.
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