La sinistra moderata prende le distanze dagli squadristi rossi antisemiti
ma senza fare i conti fino in fondo con gli errori del passato
Testata:
Data: 12/05/2005
Pagina: 21
Autore: Piero Fassino - un giornalista
Titolo: Gli ebrei e le ragioni del dialogo - La linea dell'Unione su Israele
LA REPUBBLICA di giovedì 12 maggio 2005 pubblica a pagina 21 un articolo di Piero Fassino, segretario nazionale dei DS, "Gli ebrei e la ragioni del dialogo".

La presa di posizione di Fassino, contro l'antisemitismo dell'estrema sinistra, che si presenta sotto forma di antisionsmo, è molto positiva.
E' però accompagnata da una ricostruzione storica del conflitto arabo-israeliano tutt'altro che precisa: "C´è stata" si legge nell'articolo "una lunga fase – tra il ´48 e il ´91 – nella quale sia ebrei, sia palestinesi hanno pensato che ciascuno avrebbe potuto affermare il proprio diritto solo negando il diritto dell´altro".

In realtà sono stati gli arabi, nel 48, a rifiutare il piano di spartizione proposto dall'Onu, accettato dagli ebrei, e a scatenare la prima delle guerre volte a distruggere Israele.
Fassino scrive poi: "La possibilità di dare a quei popoli pace si ebbe solo quando – soprattutto tra il ´91 e ´95 – si affermò in ciascuno dei due protagonisti la convinzione che il proprio diritto si sarebbe meglio affermato non contro, ma insieme al diritto dell´altro. E difatti quelli che furono gli anni della Conferenza di Madrid, dei colloqui di Oslo e dell´intesa di Washington tra Arafat e Rabin.
L´assassinio di Rabin prima e poi il fallimento del generoso tentativo di mediazione di Clinton a Camp David hanno richiuso quella speranza".
Scompaiono da questa ricostruzione il terrorismo suicida che ha iniziato a colpire Israele subito dopo gli accordi di Oslo e la responsabilità di Arafat nel fallimento della mediazione di Bill Clinton (responsabilità denunciata dallo stesso ex presidente americano).

Il proposito di Fassino e dell'Internazionale socialista di contribuire al dialogo tra israeliani e palestinesi è certamente positivo. Deve essere sostenuto però, ci sembra, dal coraggio di guardare con veridicità alla storia del conflitto.

Ecco l'articolo:

Caro direttore, negli stadi si ascoltano cori che scandiscono slogan antiebraici e antisemiti, come avvenuto l´altro giorno in occasione della partita tra Acilia e la squadra del Maccabi, da parte di gruppi di destra che esibivano croci uncinate e invocavano "i forni". Mesi fa un gruppo dei collettivi autonomi ha impedito all´ambasciatore di Israele di parlare in un´aula dell´Università di Firenze. Qualche settimana fa a Torino lo stesso è accaduto al vice ambasciatore che è potuto intervenire solo perché protetto dalla polizia e qualche giorno dopo la docente che aveva organizzato l´incontro ha subito pesanti intimidazioni. Periodicamente vi è chi propone di boicottare le relazioni con università israeliane. Brutti, bruttissimi segnali.
E´ fin troppo naturale – nel 60° anniversario della liberazione dal fascismo, dal nazismo e da quella guerra che conobbe l´enorme orrore della shoah – chiedersi come sia possibile che tornino parole e atti lugubri che hanno causato tanti lutti, sofferenze e atrocità.
"Il ventre immondo è sempre fecondo" scrisse all´indomani della seconda guerra mondiale Bertold Brecht. Credo che tutti dobbiamo sentire il dovere di non accettare in nessun luogo e in nessun momento il riemergere di manifestazioni di antisemitismo e antiebraismo. E bene ha fatto il sindaco di Roma a promuovere iniziative di reazione all´aggressione subita dal Maccabi.
E´ un antisemitismo che oggi, in particolare, si alimenta della delegittimazione morale dello Stato d´Israele e nella negazione agli ebrei del diritto ad affermare la loro identità di nazione. E, dunque, per combattere quelle forme di antisemitismo diventa essenziale guardare a Israele e al conflitto israelo-palestinese con animo libero da manicheismi e pregiudizi. In Medio Oriente non sono in conflitto un torto (Israele) e una ragione (i palestinesi). In quella terra martoriata sono in conflitto "due ragioni": il diritto sacrosanto di Israele a vivere nelle certezza del suo futuro e senza paura dei suoi vicini; il diritto, altrettanto sacrosanto, dei palestinesi ad avere una patria e uno Stato indipendente. Solo riconoscendo la piena legittimità di questa doppia aspirazione si avrà pace in Medio Oriente.
È la storia a dircelo. C´è stata una lunga fase – tra il ´48 e il ´91 – nella quale sia ebrei, sia palestinesi hanno pensato che ciascuno avrebbe potuto affermare il proprio diritto solo negando il diritto dell´altro. Il risultato sono state cinque guerre, una intifada e una sequenza inarrestabile di sofferenze e lutti. La possibilità di dare a quei popoli pace si ebbe solo quando – soprattutto tra il ´91 e ´95 – si affermò in ciascuno dei due protagonisti la convinzione che il proprio diritto si sarebbe meglio affermato non contro, ma insieme al diritto dell´altro. E difatti quelli che furono gli anni della Conferenza di Madrid, dei colloqui di Oslo e dell´intesa di Washington tra Arafat e Rabin.
L´assassinio di Rabin prima e poi il fallimento del generoso tentativo di mediazione di Clinton a Camp David hanno richiuso quella speranza. Ed è tornata prepotente in entrambi i campi la tentazione di far prevalere le proprie ragioni negando quelle dell´altro, come si è visto in questi anni scanditi da terrorismo, occupazioni militari, rappresaglie e conflitti acutissimi.
Oggi una nuova finestra di opportunità si apre. La elezione di Abu Mazen e la formazione del governo Sharon-Peres costituiscono una formidabile – forse l´ultima – occasione per costruire quella pace per decenni invocata e inseguita. Serve che ebrei e palestinesi tornino a parlarsi, a riconoscersi, a condividere le soluzioni del loro destino. E serve che chi vuole sostenere la pace non solo non compia nessun atto che la ostacoli, ma neanche accetti comportamenti – come quelli da cui ho tratto spunto per questo articolo – che alimentino intolleranza e nuovi conflitti.
Tra qualche settimana l´Internazionale Socialista riunirà tutti i suoi leader a Tel Aviv e a Ramallah, per rendere evidente il sostegno alle ragioni del dialogo e di una pace fondata sul reciproco riconoscimento. E´ un atto concreto. Tanti altri se ne possono fare. Far vincere la tolleranza, il dialogo, i diritti di ciascuno è anche una nostra responsabilità.
Molto positivo anche l'editoriale pubblicato sulla prima pagina di EUROPA, quotidiano della Margherita, "La linea dell'Unione su Israele".

Solo un passaggio è tale da generare una legittima inquietudine: l'Unione, si dichiara, deve promuovere il "dialogo tra israeliani (quelli che ci sono, non quelli che piacerebbero a noi) e palestinesi (idem)".
Ma la leadership palestinese è stata in passato, con Arafat, una leadership terrorista. Ed'è stato sbagliato, allora, da parte dell'Europa e di forze politiche come la Margherita, pretendere che Israele fosse comunque disponibile al "dialogo".

Quell'errore, che non ha certo favorito la pace, dovrebbe essere, quanto meno, una lezione per il futuro.

Ecco il testo:

Gli attivisti che l’altro ieri a Roma hanno contestato Piero Fassino (ma non solo lui) solo perché in un imminente viaggio in Israele prevede anche di dialogare con Sharon, sono della stessa risma dei giovanotti che a Torino e in altre università italiane impediscono con ogni mezzo a docenti o invitati di esporre le ragioni di Tel Aviv nel conflitto con i palestinesi.
A costoro – ai fischiatori di piazza Santi Apostoli, e indirettamente ai loro compagni dei collettivi universitari – martedì ha platealmente offerto la propria solidarietà l’onorevole Diliberto, segretario dei Comunisti italiani nonché uno dei leader che siede al tavolo dell’Unione, e che con gli altri contribuirà a stendere il programma, e un domani auspicabilmente a governare l’Italia.
Secondo noi questo fatto non va bene.
La solidarietà di Diliberto a questi "amici" dei palestinesi, che neanche concepiscono il dialogo e certo non fanno l’interesse dei palestinesi, non è sorprendente. È da tempo che il segretario del mini-Pci s’è ritagliato un ruolo tutto suo, una nicchia politica dalla quale parte per salutare gli hezbollah libanesi o per coprire Castro sempre e comunque.
Non è (solo) entusiasmo tardogiovanile, è la copertura di uno spazio certo piccolo e minoritario, ma vitale per i Comunisti italiani. Essendo ormai scaduta da tempo la rendita acquisita col tentativo di salvataggio del governo Prodi finito in scissione (anno 1998), a dare senso al Pdci rimangono solo l’estremismo internazionalista e quella falce e martello sul simbolo, che durerà almeno fino a quando Bertinotti non si deciderà a togliere la sua: un minuto in più di Rifondazione, per passare alla storia come gli ultimi comunisti nella terra del grande Pci.
Niente di male, affari loro.
Quando però questo marketing elettorale marginale si mischia alle cose serie, il cortocircuito può fare danni. E sul tema cruciale della collocazione internazionale e del perseguimento del dialogo tra israeliani (quelli che ci sono, non quelli che piacerebbero a noi) e palestinesi (idem), l’Unione non può permettersi variazioni sul tema.
Senza chiedere abiure a nessuno, torniamo a maggior ragione oggi su quello che abbiamo sostenuto due giorni fa: ci vogliono parole chiare dalla sinistra e dal centrosinistra sul tema "diritto all’esistenza dello stato di Israele". Qualsiasi missione di dialogo di leader ulivisti in Medio Oriente è un’ottima iniziativa, ma sarà bene essere molto espliciti negli scritti e negli atti. Sceglierà poi Diliberto se questa linea sarà accettabile per lui o se vorrà tornare alla sua amata università.
Magari per dare una mano ai boicottaggi contro Israele.
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