Antisemitismo all'Università : nelle reazioni manca la chiarezza e abbondano le minimizzazioni
le denunce di Giorgio Israel ed Elena Loewenthal
Testata:
Data: 10/05/2005
Pagina: 2
Autore: Giorgio Israel - Elena Loewenthal
Titolo: L'insinuazione non sconfigge lo scempio
IL FOGLIO di martedì 10 maggio 2005 pubblica a pagina 2 un'intervista a Giorgio Israel, che replica ai rettori che hanno minimizzato gli episodi di antisemitismo che hanno avuto nelle loro università.

Ecco il testo:

Roma. "Le reazioni dei miei colleghi mi hanno stupito: sono di un’ambiguità sconcertante". Giorgio Israel, docente di Storia delle matematiche all’Università la Sapienza di Roma, avrebbe sperato che insegnanti e rettori commentassero diversamente l’ultimo episodio di antisemitismo studentesco avvenuto all’Università di Torino (dove la professoressa Santus è stata minacciata, usata come bersaglio per le uova, invitata a esplodere su un autobus "come i bambini ebrei", e gli stessi studenti hanno contestato a furia di "assassino" il diritto di parola del viceambasciatore di Israele Elazar Cohen, intervenuto alla lezione della professoressa per parlare di medio oriente". Israel aveva denunciato sabato, con un’intervista al Corriere della Sera, il clima di "acquiescenza, se non di compiacenza" negli atenei italiani
verso manifestazioni squadriste che violano la libertà d’insegnamento, spesso ridimensionate dagli stessi docenti in contestazioni un po’ vivaci da condannare blandamente. "Il rettore dell’Università di Pisa Marco Pasquini ha reagito definendoli ‘fermenti sociali, una delle ricchezze dell’Università’: ma quale ricchezza? Sono la manifestazione del degrado più profondo". I docenti assicurano comunque che si tratta di episodi isolati, da loro immediatamente
condannati. "Nemmeno io ritengo che si tratti di un virus dilagante, ovviamente:
ho già detto che nella mia Università non è mai accaduto niente del genere, e che in Italia la situazione è certo migliore rispetto a quella francese, ma sono eventi di una gravità estrema, che dovrebbero ricevere in risposta un segnale chiaro, e invece non vengono nemmeno sanzionati, ma condannati a parole, con le solite manifestazioni di solidarietà. Cosa se ne fa della solidarietà Shai Cohen, consigliere per gli affari politici dell’ambasciata di Israele, al quale nella facoltà di Scienze politiche di Pisa è stata impedita la parola da una trentina di studenti con la kefiah che gridavano ‘Israele boia,
Cohen boia’? Il preside ha preferito interrompere la lezione e non chiamare le forze dell’ordine, ma avrebbe dovuto reiterare l’invito e garantire a Cohen il diritto di parola: invece ha preferito soprassedere e parlare di intollerabile atto di violenza". Israel ritiene che si tratti di "casi isolati", come dicono i suoi colleghi, soltanto perché "si evita di chiamare nelle Università italiane rappresentanti israeliani: si invitano palestinesi e islamici a parlare di Palestina e il diritto di parola viene giustamente sempre garantito,
invece quelle pochissime volte che si cerca un dialogo, un approfondimento, anche con gli israeliani, va sempre a finire malissimo". A Pisa, dove Shai Cohen è potuto uscire dall’aula magna senza essere toccato dietro la promessa del preside agli studenti di non chiamare la polizia. A Firenze, dove l’ambasciatore israeliano Ehud Gol è stato contestato prima ancora che cominciasse a parlare al grido di "fascisti", "assassini", "Palestina rossa", e il rettore ha spiegato che però i facinorosi ce l’avevano con "la politica
di Israele" e non con gli ebrei. A Bologna, dove un incontro è stato annullato dopo i fatti di Firenze, "vista la situazione nella nostra facoltà". A Torino il consigliere Elazar Cohen è riuscito a parlare solo perché la professoressa Santus aveva preventivamente chiamato la polizia, "ed è stata assai criticata per questo", spiega al Foglio Israel. "Non voglio entrare nei complicati rapporti della docente con i suoi superiori, ma è evidente che è terrorizzata: il preside non avrebbe dovuto certo metterla a confronto con quei giovanotti che già le avevano tirato uova e persino lanciato un razzo. Ed è inaccettabile
che vicende del genere vengano derubricate con leggerezza a contestazioni,
perché esiste una simpatia politica di base per queste persone, e perché ancora si pagano i guasti che arrivano dal ’68, quando le minacce fisiche erano considerate in fondo normali". Il rettore Decleva, della Statale di Milano, ha detto: "Nessun allarme. Se Israel ha elementi per sostenerlo, lo dica: ma non
sono cose che si possono affermare così". Israel ribatte che gli elementi sono sotto gli occhi di tutti, e nessuno afferma niente di diverso da quel che succede, "è strano che il rettore Decleva non li veda, e anzi la cosa mi inquieta: in ogni caso un’autorità accademica deve garantire la libertà di insegnamento e la libera espressione del pensiero, e impedire che l’Università venga sfregiata da eventi del genere. Bisognava intervenire e riparare. Non è successo".
Sull'antisemitismo all'Università di Torino LA STAMPA pubblica a pagina 39 (nella cronaca di Torino e provincia: collocazione che ci pare inappropriata data la rilevanza nazionale del caso e il coinvolgimento di un'istituzione come l'Università) "l'opinione" di Elena Loewenthal, che riportiamo:
Le cose hanno un nome ed è doveroso usare quello giusto per chiamarle: questa è una regola fondamentale del vivere sociale, ovvero del tanto decantato comunicare. Negare la parola a un rappresentante dello Stato ebraico invitato all'Università, è un atto di antisemitismo bello e buono. Si chiama così, ed è inutile tentare scivolose arrampicate sui vetri per dimostrare che è qualche cosa di diverso. Quello è il suo nome, in nome di una vecchia storia secondo cui gli ebrei sono un'entità provvisoria, labile e discutibile, la cui licenza di esistere è soggetta al beneplacito altrui. Questa provvisorietà è il cardine della teologia antigiudaica trasmigrata nell'antisemitismo moderno. Direttamente di qui viene l'idea che Israele (e il sionismo, cioè il suo risorgimento) vada zittito, con le parole e con i fatti.
Il fatto che queste cose succedano, e ripetutamente - con una orchestrazione tanto puntuale quanto sconcertante - è una vergogna. Anche qui, perché avere paura delle parole? Spesso conoscono il mondo meglio di noi. Domenica, nel folklore della Fiera del libro, circolava un lenzuolo bianco con sopra scritte parole sacrosante: «Basta con gli scempi».
Questa catena di episodi antisemiti è uno scempio di cui è doveroso averne abbastanza. Dovremmo essere stufi e indignati tutti, ebrei e non. Perché l'antisemitismo è una faccenda che riguarda non soltanto gli ebrei, anzi soprattutto chi non lo è e deve fare i conti con la persistenza del pregiudizio dentro - non fuori - di sé.
Ma lo scempio non deve cedere il passo all'insinuazione. Cogliere l'occasione di una pagina vergognosa come la cronaca di quanto è accaduto qualche giorno fa all'Università torinese per rivelazioni vaghe e retroattive è una diluizione che annacqua la vergogna e fomenta il rischio di un sorriso di sufficienza. Essere ebrei significa un sacco di cose: il peso di una storia, la costanza di una fede, la tenacia nella speranza e la consuetudine con una disperazione tutta particolare.
C'è solo una parola che forse racchiude tutto questo insieme, ed è «scomodità». Prima ancora che tragico o esaltante, essere ebrei è scomodo: lo sappiamo dal giorno in cui veniamo al mondo e per l'eternità a seguire, visto che le nostre tombe sono le più gettonate, in fatto di profanazioni. Per questa ragione e spinti da una certa - forse chissà, infondata - fiducia verso una civiltà capace di imboccare la via giusta dopo tanti e tanti scempi del passato, noi ebrei no, non abbiamo più paura di portare il nostro nome.
elena.loewenthal@lastampa.it
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