L'alleanza non più scontata, ma solida, tra Israele e Turchia; ipotesi sul terrorismo islamista in Egitto
le analisi di Emanuele Ottolenghi e Carlo Panella
Testata:
Data: 03/05/2005
Pagina: 1
Autore: Emanuele Ottolenghi - Carlo Panella
Titolo: Erdogan in Israele. L'alleanza tiene, è produttiva, ma non è più scontata - Dopo gli attacchi il Cairo arresta 200persone ma dice:è terrore fai da te
IL FOGLIO di martedì 3 maggio 2005 pubblica sulla prima pagina dell'inserto un articolo di Emanuele Ottolenghi sulla visita in Israele del premier turco Recep Tayyp Erdogan, che riportiamo:
Nell’ottobre del 1998, la Turchia mobilitò l’esercito al confine con la Siria. Damasco proteggeva Abdullah Ocalan, il leader del PKK, offriva sostegno logistico alla sua organizzazione terroristica, e aiutavano nell’addestramento di membri del PKK nella Valle della Beka’a in Libano. La Siria si trovò con l’esercito turco pronto all’invasione e con una manovra militare sul Golan iniziata dagli israeliani, in sincronia con l’operazione turca. Di fronte al rischio di guerra su due fronti, la Siria capitolò rapidamente. Dopo poche settimane Ocalan era sotto chiave ad Ankara. L’episodio mostra a che livello di cooperazione Turchia e Israele erano arrivati alla fine degli anni Novanta, cioè prima che scoppiasse l’Intifada e in Turchia andasse al potere l’AKP, il partito dell’attuale premier Recep Tayyp Erdogan, eletto nel 2002. Turchia e Israele hanno sempre avuto relazioni diplomatiche di basso profilo, ma di stretta collaborazione militare sin dal 1949. Negli anni Novanta, i due paesi si sono scambiati gli ambasciatori e, da un rapporto defilato, Israele e Turchia sono passati, per un decennio, a un’alleanza strategica, costruita su stretti rapporti militari e diplomatici e un volume di scambio commerciale imponente. Ma negli ultimi anni, il volume di letteratura antisemita disponibile ad Ankara è aumentato in maniera preoccupante. Questo non toglie che i due paesi condividano – o meglio condividevano – sia nemici sia interessi. Oltre alle tensioni con la Siria, Turchia e Israele hanno altro in comune. L’influenza turca sul Caucaso e l’Asia centrale post-sovietica giovava agli interessi di entrambi: soddisfaceva le mire di egemonia regionale della Turchia e offriva a Israele un’influenza occidentale e laica sui paesi musulmani come contraltare a possibili penetrazioni iraniane e saudite. La paura del fondamentalismo di Teheran, la minaccia comune di Saddam Hussein e i rapporti burrascosi con il mondo arabo – oltre che l’alleanza con l’America e il desiderio turco di entrare nell’Unione europea – erano ulteriori motivi di vicinanza. Ma con l’accesso al potere del partito islamico di Erdogan le cose sono cambiate. Recentemente la Turchia ha voltato pagina nei rapporti con la Siria – la loro pluridecennale contesa territoriale sul sangiaccato di Alessandretta si è conclusa a favore della Turchia – e con l’Iran. Il nuovo governo di Ankara ha giocato la carta islamica cercando – e ottenendo – la guida dell’organizzazione dei paesi musulmani. La scelta di non allinearsi con gli Stati Uniti nella guerra in Iraq può certamente essere interpretata come una svolta europeista, mirata a non alienare Francia e Germania alla vigilia della decisione europea sulla futura entrata turca nell’Unione, ma può anche esser vista come un tentativo di annacquare la politica atlantista della Turchia a favore di una linea più filo-araba. Infine, sull’Iraq Ankara nutriva timori che Israele fosse troppo vicino ai curdi e sostenesse una loro possibile indipendenza. A Intifada già cominciata, le critiche nei confronti d’Israele si sono fatte sempre più frequenti, fino al ritiro di due diplomatici turchi e l’accusa, mossa da Erdogan, in occasione dell’uccisione mirata del leader di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin, di praticare ‘terrorismo di Stato’, dopo che il premier turco si era già pronunciato contro Israele in un’intervista con il quotidiano israeliano Ha’aretz. La visita di Erdogan di ieri mette fine un periodo di tensioni e, a giudicare dal livello della delegazione, offre nuovi spunti. I rapporti militari continuano e Israele porterà a termine l’ammodernamento della flotta di F-4, nonché dei carriarmati M- 60 in dotazione all’aviazione e all’esercito turco. Le dichiarazioni di Erdogan sull’antisemitismo – recentemente in preoccupante crescita in Turchia – sul terrorismo, sulla volontà turca di cooperare nel contenimento della minaccia nucleare iraniana e sulla disponibilità turca ad assistere processo di pace lasciano tutte ben sperare. E sulla questione Iraq, entrambi i governi preferiscono una stabilità in funzione anti iraniana per Israele e anti-curda per Ankara. Rimane l’ombra dall’ascesa al potere Erdogan, che ha portato a importanti cambiamenti in politica estera e nella società turca. Israele e Turchia rimangono in buoni rapporti, ma l’alleanza strategica maturata negli anni Novanta non può più essere presa per scontata.
Nella stessa pagina, anche un articolo di Carlo Panella sui recenti attentati terroristici al Cairo.

Ecco il testo:

Le autorità di polizia del Cairo e il ministro dell’Interno, Habib al Adii, sostengono una versione molto riduttiva e in qualche modo confortante sugli ultimi attentati del Cairo. Secondo quanto trapela abbondantemente dagli ambienti degli inquirenti – il dato è già strano per l’Egitto – e quanto sostenuto in una intervista dal ministro al quotidiano al Gomhiria, si tratterebbe di una sorta di self-made kamikaze, di "terroristi fai da te", non collegati ad al Qaida (e questo è molto probabile), né ad altre reti terroristiche (e questo è meno convincente) che agiscono "in risposta a quanto sta accadendo nella regione araba". Frase generica che significa che, secondo il ministro, questi terroristi dilettanti reagiscono alla situazione irachena. Sta di fatto, che nel pomeriggio di ieri è di nuovo scattato un allarme rosso perché Mohammed al Yusri, fratello dell’attentatore di sabato, identificato come Ihab Yusri al Yusri, starebbe tentando di portare a segno un attentato in una tra le tante zone turistiche del Cairo, ora più presidiate del solito. Il quadro fornito alle autorità è quindi quello di un quartetto (i due fratelli e la sorella al Yusri, più la fidanzata di uno di questi) che sarebbe partito dal villaggio di al Faft, situato nell’alto Egitto, per organizzare una sorta di weekend di paura nella capitale. Un’iniziativa di fanatismo familiare, senza alcun retroterra organizzativo. Ma – e qui la versione ufficiale è poco chiara – la polizia sospettava da giorni di Ihab Yusri al Yusri e pensava che avrebbe agito il 26 aprile, in occasione della visita di Putin al Cairo. Intercettato il 30 dello stesso mese, dopo quattro giorni di inutili ricerche, Ihab Yusri si è fatto esplodere, buttandosi nella sottostante piazza Riad e ferendo otto turisti, tra cui un’italiana. Il fratello Mohammed, unico superstite del commando, starebbe ora tentando di dare un senso alla maldestra avventura, portando a termine un ulteriore attentato. Sicuramente la morte delle due donne, con Nagat, la sorella di al Yusri, che assieme alla fidanzata, subito dopo la morte di Ihab, spara a un autobus, poi uccide la fidanzata del fratello e si suicida, depone a favore della versione riduttiva delle autorità. Ma il quadro è comunque poco chiaro: la famiglia al Yusri proveniva da Shubra al Kheima, quartiere miserrimo e sovrappopolato della periferia cairota (in cui domenica sono state effettuate varie retate e più di 200 arresti), da cui forse provenivano anche gli attentatori, che hanno ucciso tre turisti a Khan al Khalili, vicino alla moschea di al Azhar, il 7 aprile scorso. L’ipotesi che i due attentati siano in qualche modo collegati, che non si tratti di iniziative terroristiche familiari, ma che siano il prodotto di una qualche organizzazione estremista radicata nel territorio, in grado di mobilitare anche propaggini lontane, resta dunque valida. Non un terrorismo classico da grande organizzazione, collegato a importanti leader, ma un pericoloso terrorismo di base, legato alla moschea, alla predicazione fondamentalista di un qualche semisconosciuto imam, innervato nel territorio e nei clan familiari, sul modello di parte del terrorismo iracheno. La tradizionale rigidità e la mancanza di trasparenza delle autorità di polizia egiziana (e i loro metodi brutali, che hanno già portato alla morte in carcere di un sospettato per gli attentati del 7 aprile), non permettono di mettere a fuoco la vera dinamica della catena di attentati che si sussegue nel paese dopo quello all’hotel Hilton di Taba del 7 ottobre 2004 (34 morti), che ha interrotto la tregua durata dal 1997 a seguito del giro di vite repressivo, dopo l’attentato al tempio di Luxor (58 turisti uccisi a colpi di mitra). Resta il sospetto che il quadro non sia quello ufficiale e che alla tradizionale abitudine alla velina di regime si sia sovrapposta la paura di conseguenze negative sul flusso turistico. La versione fornita dalle autorità, con questo piccolo clan familiare impazzito che agisce a casaccio nella immensa metropoli, è sicuramente la più tranquillizzante, ma non per questo la più attendibile. Non bisogna infatti dimenticare che dopo l’11 settembre 2001 il turismo egiziano ha subito un tracollo verticale, che il flusso quasi normale di turisti è ripreso soltanto nel 2003 e che ogni azione verrà intrapresa dalle autorità cairote per impedire che quella crisi si ripeta.
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