Testimone d'eccezione L'eroe militare dello Stato ebraico fu inviato al fronte dal quotidiano « Maariv » . A 30 anni dalla caduta di Saigon, Martin van Creveld ricostruisce l'episodio studiando le analogie con la guerriglia a Bagdad.
Il generale israeliano Moshe Dayan conosceva la guerriglia in prima persona. L'aveva studiata nel 1937 dal capitano inglese Orde Wingate, per combattere i ribelli in Palestina. Con l'Haganah, le truppe clandestine ebraiche, combattè contro la Francia di Vichy in Siria, perdendo l'occhio sinistro coperto poi dalla celebre pezza nera. Per questo comprese immediata mente la debolezza strategica degli americani in Vietnam, durante una missione del 1966, anticipando la sconfitta storica del 30 aprile 1975, trent'anni fa. Dayan descrisse un esercito possente ma non flessibile, ignaro del territorio e della cultura dei nemici, capace di scaricare sul Vietnam tre volte le bombe usate nella II guerra mondiale, ma non di cancellare i vietcong. La sua testimonianza viene ora riletta da Martin van Creveld, il maggior storico militare israeliano, per dedurre paralleli con l'invasione dell'Iraq. Van Creveld prepara in questa pagina un manifesto prezioso per il comando americano: non ripetere l'errore di dare la caccia a forze leggere con mezzi pesanti, sconvolgendo nel frattempo la popolazione civile.Il 25 luglio 1966, Dayan arrivò a Saigon. Per due giorni fu sottoposto a un severo controllo prima di poter seguire come corrispondente di guerra israeliano le milizie statunitensi. Alla fine gli dettero un'uniforme americana, uno zaino, delle scorte d'acqua, un elmetto e — come scrisse lui — se fosse dipeso da loro, i soldati responsabili gli avrebbero dato anche un fucile e delle bombe a mano.
Il 28 luglio Dayan salì a bordo della portaerei Constellation che stava navigando a velocità di crociera al largo della costa vietnamita. Oltre che inviato di guerra era stato un militare in passato, e quindi aveva già sentito parlare di questo tipo di navi. Quando però vide la Constellation rimase col fiato sospeso davanti a tale meraviglia della tecnologia bellica. La portaerei aveva un'estensione di cinque acri, un territorio americano sovrano galleggiante, protetto — scriveva Dayan — « da attacchi dal cielo, dal mare, da terra, e da sottacqua » .
Se Dayan intendesse fare dell'ironia — dopotutto il nemico consisteva in piccoli uomini di carnagione scura con in testa dei cappelli di paglia — non lo disse. Ciò che notò con chiarezza era il fatto che ogni novanta minuti, in mezzo a un rumore assordante di spari e di motori roboanti, stormi di aerei da combattimento si alzavano in volo per andare a colpire diversi obiettivi. Tuttavia, quando chiese informazioni riguardo alla precisa natura di tali obiettivi, i militari non risposero alla sua domanda.
Alla fine Dayan scrisse che gli americani « non stavano combattendo contro un'infiltrazione nel Sud Vietnam o contro dei guerriglieri, e neppure contro il leader nordvietnamita Ho Chi Minh, bensì contro il mondo intero. Il loro vero scopo era di far vedere a tutti — compresa la Gran Bretagna, la Francia e l'Urss — il loro potere e la loro determinazione in modo da inviare questo messaggio: ovunque vadano gli americani, sono sempre insuperabili » .
L'inviato israeliano passò la maggior parte del mese di agosto visitando diverse unità in tutto il Sud Vietnam. Prima si unì ad una compagnia della marina che sorvegliava il territorio solo un miglio a sud della zona smilitarizzata con lo scopo di prevenire infiltrazioni nemiche dal Nord. Guidati dal tenente Charles Krulak marciarono su e giù dalle colline durante tre giorni e due notti. Attraversavano corsi d'acqua, a volte rischiando anche di affogare. A un certo punto Dayan perse l'equilibrio mentre era in acqua e dovette essere tirato fuori dai soldati. Nonostante tutto, l'unico obiettivo su cui spararono fu un animale non ben identificato, i cui lamenti avevano tenuto l'intera unità sveglia per tutta la notte. Trentacinque anni dopo, il generale in pensione Krulak, già comandante dei marines, mi rivelò che una sera, mentre stavano montando il campo per la notte, Dayan aveva chiesto cosa diavolo stessero facendo lì. Espresse la sua opinione, e cioè che la strategia militare statunitense fosse sbagliata. La truppa avrebbe dovuto essere « dove c'era gente » , non impegnata nel vano inseguimento dei vietcong tra le montagne, dove il nemico non c'era.
Qualche giorno dopo il desiderio di Dayan fu soddisfatto. Vicino a Da Nang andò a trovare un'altra unità della marina impegnata nel processo di pacificazione. I marines erano responsabili della sicurezza — qui trovò un'eccellente disciplina — , tuttavia la maggior parte del lavoro lo stavano svolgendo i civili.
Ancora una volta trovò gli americani impegnati e immensamente orgogliosi di quello che stavano facendo. Ancora una volta lasciò il distretto convinto che rimanesse ancora molto da fare, talmente tanto che dubitò del fatto che gli americani stessero davvero compiendo passi avanti. Tantomeno rimase colpito dai tentativi di aiutare i contadini sudvietnamiti nel migliorare la qualità della loro vita introducendo nuovi metodi di coltivazione, un più attento allevamento del bestiame e così via. Ciò fa venire in mente le statistiche che vengono diffuse fuori dall'Iraq riguardo le scuole e gli ospedali riaperti, le paghe dei medici aumentate e altri « miglioramenti » . Prima di giungere in Vietnam, l'inviato israeliano era stato a Parigi, dove il generale francese Niceault lo aveva avvisato che « la battaglia per conquistare il cuore e la mente » dei vietnamiti sarebbe fallita, perché si tratta di un popolo con tradizioni culturali ben radicate. Dayan si era già fatto un'esperienza in questo campo: durante il suo incarico come ministro dell'agricoltura in Israele ( dal 1959 al 1963) aveva utilizzato dei fondi americani per mandare in vari Paesi asiatici e africani dei connazionali esperti del settore con il compito di introdurre riforme agricole. Aveva visitato alcune di queste nazioni di persona, constatando quanto fosse difficile modificare tradizioni secolari. Chiaramente il tentativo di avviare un processo di modernizzazione con una guerra in corso — dove qualsiasi risultato era costantemente minacciato dai terroristi vietcong — era ancora più difficile.
Forse il vero incontro rivelatore durante il viaggio di Dayan fu la sua visita alla Prima Divisione Aerotrasportata. Costituita soltanto pochi anni prima, era la forza bellica più moderna del mondo. Operando in condizioni di assoluta supremazia aerea, la Divisione faceva praticamente quello che voleva. Era sufficiente un preavviso di quattro ore per far atterrare un intero battaglione in qualsiasi luogo nel raggio d'azione dei suoi elicotteri. Purtroppo però in quattro ore i nemici erano già spariti dal punto in cui erano stati localizzati.
Deve essere stato durante la visita alla Prima Divisione che capitò il seguente incidente. Dayan, come sua abitudine, volle visitare il fronte. Nel caso del Vietnam ciò consisteva nell'andare in ricognizione con le forze militari. La Divisione era riluttante all'idea, tuttavia la richiesta venne esaudita. Per paura che succedesse qualcosa che potesse intaccare la loro celebrità, gli ufficiali scelsero un percorso verosimilmente privo di vietcong. Come succedeva spesso le informazioni che avevano erano sbagliate. Si trovarono bersagliati dal fuoco nemico e furono inchiodati a terra. Guardandosi intorno da dove si trovava disteso, il capitano americano responsabile dell'operazione si accorse che Dayan era sparito. Alla fine riuscì a trovarlo tranquillamente seduto su una montagnetta erbosa. Con grande sforzo il capitano si trascinò vicino a lui e gli chiese che cosa stesse facendo.
« Cosa sta facendo lei? — rispose Dayan — Alzi le chiappe da terra e venga qui a vedere in che cosa consiste questa battaglia » .
Per Dayan il vero problema era il servizio segreto americano. Così scrisse sul primo quotidiano israeliano « Maariv » : « Secondo l'informazione ( dell'ufficiale in comando) c'era una divisione vietcong nella regione montuosa. Non era concentrata in una singola base ma divisa in diversi battaglioni, ciascuno di 350 uomini circa. Il piano di Norton era quello di far calare a terra un intero battaglione nell'area dove c'erano i vietcong e in seguito, secondo gli sviluppi della battaglia, far arrivare all'improvviso delle " truppe d'azione" per isolare le forze nemiche con degli attacchi laterali. Tutto ciò andava bene tranne, che per un piccolo particolare assente nella strategia: la posizione esatta dei battaglioni nemici era sconosciuta. Foto aeree e voli di ricognizione non erano riusciti a individuare gli accampamenti dei vietcong che erano trincerati, scavati come bunker e camuffati con la vegetazione della giungla. Le risorse dello spionaggio statunitense erano essenzialmente di natura tecnica — foto aeree e intercettazioni radiofoniche decifrate, dovute al fatto che i vietcong comunicavano con dei radiotrasmettitori — . Dai prigionieri di guerra si ottenevano pochissime informazioni: questi ultimi sputavano in faccia agli interlocutori americani e giuravano che sarebbero morti piuttosto che parlare » .
Contrariamente a quanto era stato scritto da altri sulle enormi necessità logistiche delle truppe statunitensi — dalla birra ghiacciata alle ragazze da night club — , Dayan era stato colpito favorevolmente dalla natura spartana della loro disposizione. Gli americani sapevano come improvvisare: buttare il giubbotto antiproiettile nell'elicottero, saltar su e via. L'intera divisione era « una forza enorme, veloce ed efficiente. Usava le sue armi in maniera molto efficace, compreso il supporto dell'artiglieria e quello tattico e strategico per via aerea » .
Dal punto di vista di Dayan erano superiori alle altre forze militari, così come i carri armati tedeschi erano stati più forti dei loro nemici all'inizio della II guerra mondiale. « Le procedure di battaglia degli americani funzionavano come una catena di montaggio. Prima veniva l'attacco con l'artiglieria di terra delle zone di atterraggio. Poi seguiva il bombardamento aereo. I singoli atterraggi erano coperti dagli elicotteri che lanciavano missili e facevano fuoco con le loro mitragliatrici quasi ai nostri piedi » . Era un'operazione spettacolare, senza dubbio, « ma dov'era la guerra? Dov'erano i vietcong? Dov'era la battaglia? » .
Ciò che accadde è che i nemici effettivamente c'erano, qualche centinaio di metri più in là, però. E la battaglia che Dayan non riuscì a vedere iniziò mezz'ora dopo, quando la compagnia che era atterrata 300 metri a sud si trovò intrappolata in un'imboscata dopo che aveva cominciato a muoversi. In pochi minuti l'unità fu messa sotto tiro e ridotta a brandelli, subendo la perdita di 25 morti e 50 feriti, compreso il comandante. Chiamando in soccorso la potenza di fuoco, la Prima Divisione contrattaccò. Trovata resistenza dalla parte nemica, chiesero via radio l'intervento dei pesanti bombardieri B 52. Con quale effetto non è chiaro.
Durante l'intera visita di Dayan gli ufficiali americani si dimostrarono impegnati a lavorare duramente e abbastanza franchi nel dare risposte per quanto le circostanze lo permettessero. Molti di loro erano soddisfatti di essere in guerra, la quale, a questo punto, era ancora in fase offensiva. Dayan trovò che il generale Westmoreland era piacevole e informale, anche se non possedeva « quell'espressione astuta » propria di alcuni comandanti più anziani. Non c'era motivo per dire che gli ufficiali americani fossero degli incompetenti, al punto da divertirsi a incendiare i capanni vietnamiti e da essere abbandonati dai loro stessi uomini. Questa immagine trovò spazio soltanto dopo la fine della guerra. Ma gli ufficiali avevano effettivamente un problema: quello di cercare di essere menzionati dalla stampa per farsi pubblicità e avanzare di carriera. Questo, secondo Dayan, non li rendeva uomini migliori e tantomeno li trasformava in comandanti più bravi.
Tuttavia, nulla poteva sopperire alla mancanza di servizi segreti precisi e tempestivi nel fornire informazioni. Ciò era dovuto in parte a ostacoli culturali oggettivi. Ovunque si andasse, i traduttori scarseggiavano e i pochi disponibili dicevano esattamente quello che pareva a loro. Altri ostacoli erano le condizioni geofisiche del Paese e la natura della guerra stessa. Usando le parole di Dayan, le informazioni disponibili agli americani erano limitate a: « 1) Ciò che riuscivano a fotografare; 2) Quello che potevano intercettare; 3) Le poche notizie che arrivavano a raccogliere da prigionieri, spesso di basso grado militare » .
Di conseguenza, per la maggior parte del tempo, si trovavano a combattere contro i mulini a vento.
Anche se gli americani erano riusciti nella missione bellica, per l'inviato israeliano era difficile concepire che i sudvietnamiti sarebbero stati capaci di avviare un governo autosufficiente all'ombra della gigantesca macchina militare che li « proteggeva » . Che in futuro questa protezione sarebbe stata tolta, nessuno era in grado di pronosticarlo. E quanto veniva ripetuto a Dayan riguardo agli obiettivi militari statunitensi, come la difesa della democrazia e l'aiuto della popolazione sudvietnamita, gli sembrava propaganda « infantile » . Anche se molti americani erano convinti di queste finalità, chiaramente nessun altro ci credeva.
Un anno prima che l'offensiva del Tet nel ' 68 evidenziasse il fatto che qualcosa non andava per il verso giusto, Dayan aveva già lasciato il Paese con la ferma convinzione che la situazione stesse peggiorando. Scrisse: « Gli americani stanno vincendo tutto, tranne la guerra » . Forse questa era una delle ragioni per cui, invece di tornare a casa passando dagli Stati Uniti come gli avevano chiesto sia l'ex capo di Stato Maggiore della Difesa americana Maxwell Taylor sia il segretario della Difesa Robert McNamara, Dayan scelse un'altra strada.
In questo momento i paragoni tra la guerra in Vietnam e quella in Iraq sono di moda. Molte persone enfatizzano le differenze tra le due situazioni. Io non sono d'accordo. Basandomi sulla testimonianza di Dayan, la mia tesi è che le somiglianze superano le differenze.
Il problema più significativo che gli americani dovettero affrontare in Vietnam era la mancanza dei servizi segreti adeguati — l'incapacità di distinguere il nemico sia dall'ambiente che li circonda, sia dalla popolazione civile — . Se l'opera di spionaggio fosse stata efficace, l'enorme superiorità nella tecnologia bellica avrebbe consentito agli americani di vincere la guerra. Nella mancanza di informazioni in cui si muovevano, gli americani assestarono tuttavia vari colpi, compreso l'impiego di sei milioni di tonnellate di bombe, che non centrarono mai l'obiettivo. L'unico effetto fu quello di disperdere i vietcong tra la popolazione civile. La consequenza peggiore fu che la mancanza di 007 portò gli americani a colpire per sbaglio dei civili. Ciò spinse vari segmenti della popolazione direttamente nelle mani dei vietcong e fece crescere l'odio di chi vide uccisi i propri parenti e amici.
La seconda sconfitta fu la campagna per conquistare il cuore e la mente dei vietnamiti. Molte delle cifre pubblicate riguardo ai progressi compiuti risultarono fasulle, create per alleggerire la coscienza dei connazionali in patria. In altri casi, i progressi realizzati dopo lunghi mesi di intenso lavoro venivano spazzati via in pochi minuti dagli attacchi dei vietcong, i quali distruggevano le proprietà e uccidevano i « collaborazionisti » . Essenzialmente l'idea che la popolazione vietnamita volesse essere « americanizzata » era una mera illusione. La vasta maggioranza desiderava soltanto essere lasciata in pace.
La terza osservazione di Dayan, quella più rilevante ai fini di un confronto con la situazione in Iraq, era che gli americani si trovarono nella posizione scomoda di abbattersi contro avversari più deboli. Così scrisse Dayan: « Qualsiasi confronto tra le due forze armate era stupefacente. Da un lato c'era l'esercito statunitense dotato di elicotteri, una forza aerea incredibile, armamenti, mezzi di comunicazione elettronici, artiglieria e altre grandi risorse. Senza contare munizioni, benzina, componenti di ricambio e attrezzatura di ogni sorta. Dall'altra parte invece c'erano le truppe nordvietnamite che avevano camminato per quattro mesi portandosi sulle spalle l'artiglieria, dotate di un semplice cucchiaino di latta per mangiare poche manciate di riso da un piatto di latta » .
Questo è il nocciolo della questione. Nella vita privata un adulto che continua a picchiare un bambino di cinque anni — anche un bimbo che originariamente lo avesse attaccato con un coltello — verrebbe accusato di commettere un crimine, perderebbe il sostegno degli osservatori e finirebbe arrestato, processato e imprigionato. Sotto i riflettori del palcoscenico mondiale, un esercito che continua ad abbattersi contro un avversario più debole, verrà giudicato come un aggressore che sta commettendo una serie di crimini, e finirà per perdere il sostegno dei suoi alleati, dei connazionali rimasti in patria e infine anche l'appoggio delle proprie truppe. Il genere delle forze militari impiegate ( il fatto che siano soldati di leva o professionisti), l'efficacia della propaganda, la natura del processo politico, possono portare l'opinione pubblica ad adottare questo punto di vista in poco tempo. Succede sempre così. Chi non lo comprende, non capisce niente della guerra e della natura umana in genere.
In altre parole, chiunque combatte contro i più deboli e perde, ha perso. Ma anche se lotta contro i più deboli e vince, in realtà ha perso ugualmente. Uccidere un avversario molto più debole è superfluo e crudele; lasciare che il nemico ti uccida, è inutile e stupido. Come dimostra il caso del Vietnam e innumerevoli altre situazioni, nessuna forza armata, per quanto ricca, potente, all'avanguardia o ben motivata, è esonerata dall'affrontare questo dilemma. Il risultato finale è sempre la disintegrazione e la sconfitta.
Anche se le truppe americane in Iraq non hanno ancora iniziato a ribellarsi ai loro ufficiali, il tasso dei suicidi tra i soldati è già eccezionalmente alto. Questo è il motivo per cui la presente situazione militare si concluderà, come la precedente, con le ultime truppe americane che fuggivano dal Paese attaccandosi alle slitte dei loro elicotteri.
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