IL FOGLIO di venerdì 29 aprile 2005 pubblica a pagina 1 dell'inserto un articolo di Carlo Panella sui recenti e tormentati rapporti tra la Chiesa cattolica e l'islam e su come, prevedibilmente, l'atteggiamento della Chiesa cambierà in futuro.
Ecco il testo:Roma. E’ possibile sviluppare un dialogo interreligioso tra la Chiesa e un Islam che vede non il più autorevole, ma sicuramente il più potente interlocutore – il regno saudita, custode della Mecca e della Medina – mandare in galera 40 poveri immigrati pachistani colpevoli soltanto del reato di aver celebrato una messa in casa loro, a Riad, com’è successo sabato scorso? Anche a questa domanda dovrà dare una risposta Papa Benedetto XVI, nella cui agenda campeggia il tema più scottante del dialogo interreligioso: quello tra cattolici e musulmani. Anche in questo campo è molto marcata l’eredità di Papa Wojtyla, con un bilancio contraddittorio. Giovanni Paolo II, con la sua predicazione contro le due guerre in Iraq (quella promossa dall’Onu nel 1991 e quella recente della Coalizione dei volenterosi), ha infatti conseguito un innegabile successo: non un solo musulmano al mondo può oggi legittimamente sovrapporre l’immagine della Chiesa a quella dell’occidente o può pensare che il Vaticano appoggi l’azione politica degli Stati Uniti. Neanche i proclami per il jihad contro "i crociati e gli ebrei" di Osama bin Laden osano chiamare in causa la Santa Sede. Ma, ribadita questa separazione tra Chiesa e Impero, impedito qualsiasi equivoco su una nuova crociata benedetta dal soglio di Pietro, il rapporto tra cristianità e islam è comunque appesantito da un’ipoteca inquietante. L’ipoteca politica, non solo teologica o di fede, viene dal campo musulmano. Buona parte dell’islam di oggi riversa infatti anche sul terreno del dialogo interreligioso l’inscindibile unità tra il momento della fede e quello della politica. Sovrapposizione che ha creato negli ultimi anni non pochi problemi e anche momenti d’impaccio – superati d’impeto da Giovanni Paolo II – che hanno lasciato traccia e anche amarezza in Vaticano. I wahabiti sauditi, la più ricca ed espansiva componente musulmana contemporanea, non solo vietano a suon di galera il culto dei cristiani e li imprigionano, ma intendono anche il dialogo interreligioso come parte inscindibile della loro strategia di contrasto al terrorismo. Non più quindi solo un terreno di comunicazione e riflessione su principi di etica e teologia tra diverse fedi, ma soprattutto uno strumento politico per contrastare il terrorismo. In netta alternativa alle strategie degli Stati Uniti. Chi dialoga sul terreno della fede con i sauditi si trova invischiato nella concezione del tutto particolare e per nulla condivisibile che essi hanno della lotta al terrorismo. La riprova di questa situazione si è avuta durante la visita del febbraio scorso a Riad, del ministro dell’Interno italiano, Giuseppe Pisanu. I dirigenti sauditi hanno proposto all’ospite italiano di creare un Centro internazionale antiterrorismo – su cui Pisanu ha concordato, firmando i protocolli di collaborazione – ma subito hanno escluso Israele tra le 50 nazioni coinvolte nel Centro e hanno affiancato a questa iniziativa una richiesta all’Italia di adoperarsi per l’intensificazione del dialogo interreligioso. Si è così verificato il ben strano episodio di un ministro dell’Interno italiano coinvolto ora in accordi tra super-polizie, ora in lunghi e intensi colloqui col ministro per gli Affari religiosi Saleh al Sheikh e con Abdallah Omar Nauseef, presidente
del World Muslim Congress, che da anni partecipa al dialogo promosso dal Vaticano tra le diverse fedi religiose. Qui sorge un problema, sinora purtroppo non rilevato né dalla Farnesina né dal Viminale. I sauditi sviluppano la lotta al terrorismo non solo intrecciandola impropriamente con il dialogo interreligioso, ma anche e soprattutto all’insegna in un radicale antisemitismo alla "Protocolli dei Savi di Sion", di cui sono devoti ammiratori. I sauditi, infatti, tanto condannano al Qaida, che li minaccia personalmente, quanto appoggiano esplicitamente gli attentati contro civili in Israele. Appoggio che si manifesta in un pubblico finanziamento delle famiglie dei "martiri" palestinesi, di fatto un incentivo alle stragi di civili ebrei. Non solo, sia il ministro dell’Interno saudita, Najaf bin Abdulaziz ibn Saud, sia il fratello, il reggente Abdullah, grandi propugnatori del dialogo interreligioso, in occasione di tutte le stragi terroriste, incluso l’11 settembre, hanno sempre accusato apertamente "ebrei e sionisti" di esserne gli autori, con la pretesa di essere creduti. Questo elemento evidenzia un altro dato politico: i
sauditi intendono usare il dialogo interreligioso come proposta strategica internazionale contro il terrorismo, in alternativa a quella degli Stati Uniti (che rifiutano senza mezzi termini). Là dove l’amministrazione di George W. Bush ha proposto nel G8 di Savannah una strategia basata sul rispetto dei diritti umani, i sauditi (che non intendono programmaticamente rispettarli, tanto da non firmare la Dichiarazione dei diritti umani dell’Onu), invece, puntano su un collegamento internazionale tecnico-poliziesco e su un isolamento dei terroristi provocato da una corale scomunica etico-religiosa non di tutto il terrorismo, ma solo di quello che li colpisce direttamente, benedicendo e promuovendo il terrorismo che fa strage fra gli ebrei. Una prospettiva sviluppata sul piano interno col martellare nella televisione di trasmissioni che ospitano dotte disquisizioni coraniche e autodafé mediatici, di vago sapore sovietico anni 30, di ulema che avevano appoggiato al Qaida e ora se ne dissociano. La strategia antiamericana raccoglie consensi nel mondo arabo, perché i sauditi non sono i soli musulmani che intrecciano il dialogo interreligioso con un virulento antisemitismo e con un’aperta strumentalizzazione politica. Dal 1986 in poi, dalla "giornata della preghiera" ad Assisi, alcuni episodi spiacevoli hanno coinvolto lo stesso Giovanni Paolo II e hanno lasciato una traccia di sconforto in Vaticano. Il primo riguarda la visita presso la Santa Sede di Hassan al Turabi, ricevuto dal pontefice il 13 ottobre 1993, su iniziativa della Comunità di Sant’Egidio. La visita intrecciava il momento pastorale con quello politico, perché in quel momento divampava la guerra civile sudanese, tra cristiani, animisti e islamici. Ma, proprio a causa di quella guerra civile, al Turabi era un ospite irricevibile, cui non si poteva e non si può dare la mano, anche in nome del dialogo tra fedi diverse. Egli infatti era ed è un leader integralista religioso collegato ai Fratelli musulmani, che ha avuto responsabilità dirette nell’esecuzione del grande riformatore musulmano, Mohammed Taha, impiccato nel gennaio 1985 a Khartoum per apostasia. E’ sempre stato elemento di punta di un integralismo religioso apertamente schierato col terrorismo, tanto che, nel momento stesso in cui stringeva la mano al pontefice, ospitava a Khartoum Osama bin Laden (di cui i sauditi avevano chiesto l’estradizione) e favoriva la piena complicità del regime di Hassan al Beshir con il quadro dirigente di al Qaida. Al Turabi è stato inoltre responsabile del golpe del 30 giugno 1989 del generale al Beshir, che ha fatto saltare un accordo di pace, chiudendo il capitolo della guerra civile e abolendo la svaria nelle zone abitate da cristiani e animisti. Al Turabi ancora oggi è l’ideologo di riferimento (benché ora perseguitato dal suo ex alleato al Beshir) di quei militari sudanesi
che proteggono le bande di Janjaweed e insanguinano il Darfur. Naturalmente, l’incontro in Vaticano tra il pontefice e il leader fondamentalista non ha prodotto alcun miglioramento nella guerra civile, ma ha offerto un’opportunità ad al Turabi per smentire con grande enfasi mediatica le evidenti responsabilità del governo sudanese da lui appoggiato. Il secondo episodio critico si è verificato il 6 maggio 2001, quando Giovanni Paolo II si è recato in visita alla moschea omayyade di Damasco. Gesto di ben diversa portata dalla storica visita nella Sinagoga di Roma. Il pontefice, in realtà, non è andato a rendere omaggio a un luogo di culto musulmano, ma si è recato a pregare cristianamente, in silenzio – attraversando la moschea – nella nicchia in cui è sepolto san Giovanni Battista, riconosciuto dagli islamici come profeta. La visita si è svolta con grande solennità ma, all’uscita dalla moschea, il Papa ha dovuto ascoltare un veemente discorso del presidente Bashar al Assad, che non solo ha polemizzato ferocemente con Israele, ma anche usato toni antisemiti, accusando gli ebrei di deicidio, di varie infamità religiose e di avere eletto il premier Ariel Sharon perché più "razzisti dei nazisti". Il disappunto del pontefice non è stato ovviamente reso pubblico, il portavoce Vaticano, Joaquín Navarro Valls, si è rifiutato di commentare le parole "di un capo di Stato ospite", ma l’episodio è stato molto grave. Un altro infortunio è accaduto il 3 ottobre del 2001, quando la Comunità di Sant’Egidio (che già aveva organizzato la vista di al Turabi) ha invitato lo sceicco Yusuf al Qaradawi al summit islamo cristiano organizzato a Roma. Al Qaradawi, al pari di al Turabi, è uno dei più noti teologi dei Fratelli
musulmani e ha colto l’occasione per una netta dissociazione e condanna degli attentati dell’11 settembre, ovviamente riportata con enfasi dalla stampa. Ma, in realtà, lo stesso al Qaradawi ha sempre riconosciuto e riconosce legittimità religiosa alle stragi terroristiche compiute da musulmani in Israele. Vero e proprio teologo delle stragi assassine, al Qaradawi "modernizza" l’islam ed emette, il 9 dicembre 2003, una fatwa in cui autorizza le donne musulmane a compiere attentati suicidi contro civili in Israele e in Cecenia (le donne secondo alcuni ulema erano escluse, perché rischiavano di esporre parti del corpo che devono essere celate all’uomo, anche da morte). Queste sono le parole del teologo
invitato a Roma per intensificare il dialogo interreligioso e condannare il terrorismo: "Nel nome del jihad una donna può partire per missioni suicide anche senza chiedere il permesso del marito, dei figli, o dei genitori. Il ricorso a una donna si rende talvolta necessario, perché in certe condizioni essa desta meno attenzione che un uomo. Una volta partita in missione, la donna islamica potrà allora anche muoversi senza coprirsi la testa con un velo o senza essere accompagnata da uno stretto congiunto (come vorrebbe invece l’ortodossia, ndr)". Non basta: il 23 aprile 2004, al Qaradawi emette un’altra fatwa in cui legittima il jihad degli indipendentisti ceceni. Nella fatwa, citata dall’agenzia cecena Kavkaz, al Qaradawi invita tutti i musulmani del mondo a sostenere la lotta dei mujaheddin ceceni, assicurando il paradiso in caso di morte. Pochi mesi dopo, la strage nella scuola di Beslan. Il 2 settembre 2004, al Qaradawi emette una fatwa con la quale autorizza l’uccisione di civili americani e occidentali in Iraq "perché aiutano le truppe americane d’occupazione", proibendo però che siano mutilati. Naturalmente questi episodi sono oggi ben chiari alla memoria della curia, ed è ovvio che influenzeranno le future scelte su un dialogo religioso con l’islam, che si inserisce in pieno nella dialettica post conciliare di cui Joseph Ratzinger è stato uno degli interpreti. Dialettica ecumenica in cui si legge in trasparenza lo stesso antagonismo che affiora in tutti gli altri campi del dibattito post conciliare. Molti degli episodi incresciosi qui ricordati, infatti, sono diretta conseguenza di un approccio al confronto con l’islam influenzato dalla figura e dalle opere del teologo Hans Küng. Ammirato e più volte citato dal cardinale Carlo Maria Martini sul tema del dialogo con l’islam, sicuramente tra gli ispiratori della prima fase di attività ecumenica della comunità di Sant’Egidio (che però non ha mai apprezzato né condiviso le sue polemiche con il Vaticano), il teologo svizzero è infatti l’alfiere dell’ecumenismo universale del cristianesimo. Nel suo libro del 1986, "Cristianesimo e religioni universali", egli auspica un incontro tra le "religioni del Libro", a partire da una forte sottolineatura dell’omogeneità etica delle tre fedi abramitiche. Proiettato nell’empireo teologico più astratto, ristretto nel confronto etico più rarefatto, il rapporto tra cristianesimo, islam ed ebraismo viene così sottratto alla storia e consegnato o alla metafisica o alla frase che conferma una frase, senza più alcun rapporto con la realtà, con l’oggetto della riflessione. E’ un ecumenismo della volontà e della testimonianza, che occulta le differenze, come gli antagonismi; che evita il tema delle identità; e che, purtroppo, ignora, con colpevole leggerezza, tutto quanto non rientri nell’afflato ecumenico. Ignora soprattutto le feroci polemiche teologiche storiche e soprattutto contemporanee dell’islam contro la cristianità (per non parlare dell’ebraismo). Ignora, programmaticamente, il tema centrale del rispetto dei diritti umani. Pur essendo apertamente criticato dalla Chiesa, proprio dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, il pensiero ecumenico ipervolontaristico di Hans Küng ha influenzato gli attori del dialogo interreligioso, in una fase in cui sembrava naturale lasciar correre gli entusiasmi di un’universale volontà di pacificazione tra le fedi. Ma l’emergere del terrorismo nel corpo dell’islam, il suo rapporto con il fondamentalismo, le palesi complicità da parte di tanti paladini del dialogo con la cristianità hanno chiuso quella stagione un po’ irresponsabile. Già il 31 maggio del 2001 si poteva così leggere su Civiltà cattolica, la rivista dei gesuiti, tradizionalmente collocata sulle trincee più avanzate del dialogo con le altre religioni, una realistica presa d’atto. In un duro articolo su quanto "i musulmani oggi dicono di Gesù e dei cristiani", si ricordava infatti che per l’islam il dialogo con le altre religioni ha senso solo se esse lo riconoscono come unica vera fede, accettando di fatto la sua egemonia e
che il dialogo interreligioso con l’islam reale del giorno d’oggi non può più ignorare "che nei catechismi e nei manuali dell’insegnamento religioso in uso nei paesi islamici, i cristiani sono messi sotto accusa tanto che sono apertamente accusati di essere miscredenti". Questa è la vicenda che sta alle spalle del pontificato di Benedetto XVI e gli darà spunti per decidere come e quando sviluppare
il dialogo interreligioso con l’islam, a partire naturalmente dalla sua "Dominus Jesus", che nel 2000 segnò un punto fermo contro una certa deriva iperecumenica. Nella sua omelia della messa di inizio pontificato, il Papa non ha fatto cenno ad alcun altra religione se non a quella ebraica, salutata
con parole inequivocabili, volutamente assieme alle confessioni cristiane non cattoliche: "Il discorso si fa pieno di affetto anche nel saluto che rivolgo a tutti coloro che, rinati nel sacramento del Battesimo, non sono ancora in piena comunione con noi; e a voi fratelli del popolo ebraico, cui siamo legati da un grande patrimonio spirituale comune, che affonda le sue radici nelle irrevocabili promesse di Dio".
Questa citazione intensa dell’ebraismo – certo non gradita a molte orecchie musulmane – è dunque un segno di quali intenzioni egli abbia nel perseguire, come certo farà, anche il dialogo con l’islam. Se infatti ci si riferisce alle sue non frequenti pronunce sul tema degli anni scorsi, risulta evidente una traccia. Pur apprezzando il patrimonio morale del mondo musulmano, il cardinale Ratzinger ha infatti espresso nel recente passato un giudizio tanto esperto quanto radicale e quasi polemico: "Sul versante critico si tratta di cogliere anche le debolezze culturali di una religione troppo legata a un libro considerato come verbalmente ispirato, con tutti i pericoli che ne conseguono". E poi: "Possiamo offrire il concetto di libertà di fede a una religione in cui è determinante la teocrazia, cioè l’inscindibilità tra potere statale e religione". Queste di Ratzinger sono critiche identiche a quelle fatte da Mohammed Taha nel suo tentativo di riformare l’islam e a quelle da cui partono oggi i più coraggiosi riformatori musulmani. Il rifiuto della dottrina del "Corano increato", preesistente a Maometto, parola diretta di Dio e quindi immodificabile e da applicare alla lettera (dogma che si è imposto un secolo dopo Maometto), apre infatti la porta alla valorizzazione solo delle parti del Libro legate alla rivelazione e a sminuire tutte le parti prescrittive. Invece, come sosteneva il cardinale Ratzinger, considerare il Libro come "verbalmente ispirato" da Dio è sintomo di "debolezza culturale", che si accompagna a una ignoranza dello stesso tema della libertà religiosa (di nuovo, apertamente, fortemente invocata da Taha, anche per questo condannato a morte). Parole inequivocabili nella bocca di un cardinale, oggi Papa.
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