Il CORRIERE DELLA SERA di mercoledì 27 aprile 2005 pubblica a pagina 3 un'intervista di Ennio Caretto all'ex direttore della Cia James Schlesinger sul caso Calipari.Per l'ex direttore della Cia ed ex ministro della Difesa americano James Schlesinger la tragedia di Nicola Calipari è incominciata col pagamento del riscatto di Giuliana Sgrena, « se davvero c'è stato » , un compromesso coi sequestratori « cui l'America è contraria » . Schlesinger, che l'anno scorso diresse la Commissione indipendente di inchiesta sugli abusi di Abu Ghraib, attribuendone la responsabilità alla « catena di comando » , aggiunge che tuttavia « quello del fuoco amico è un problema che va affrontato e va risolto » . Il rapporto del Pentagono sembra assolvere i soldati Usa da ogni responsabilità nella tragedia. Che ne pensa? « Non lo conosco, credo che non sia definitivo e perciò non posso pronunciarmi. Tutta l'America depreca la tragedia ed è vicina all'Italia. Ma se avete pagato un riscatto per la giornalista è stato un errore » . Perché? « Perché è un aiuto ai sequestratori. La politica degli Stati Uniti è cercare di liberare gli ostaggi. Ciò non significa rifiutare i contatti coi sequestratori, ma non si negozia » . Non si può escludere però che abbiano sbagliato anche i militari americani che spararono a Calipari.
« Il fuoco amico fa molte vittime.
Le cause possono essere diverse, dalle mancate comunicazioni alle condizioni sul terreno, alle regole d'ingaggio. Queste morti sono traumatiche anche per chi spara.
In Iraq il Pentagono ha indagato su quasi tutti gli incidenti, sono certo che prenderà delle misure » . Che tipo di misure? « Modifiche delle procedure, addestramento dettagliato per la gestione dei posti di blocco, loro rafforzamento e così via. Non a caso, oltre all'inchiesta sulla tragedia di Calipari ne è in corso un'altra sulle regole d'ingaggio »
Da pagina 9 de LA STAMPA riprendiamo un'intervista a Edward Luttwak sullo stesso argomento:La crisi sulla triste vicenda di Nicola Calipari si concluderà solo quando le autorità italiane accetteranno di dire in pubblico quello che già dicono in privato».
Edward Luttwak, studioso del Center for Strategic and International Studies, ha seguito da vicino la storia della morte del funzionario del Sismi e invita le autorità italiane a «smetterla di dire bugie».
Cosa dicono, in privato, le autorità italiane?
«Che sono d’accordo con le conclusioni raggiunte dai colleghi americani. Le persone coinvolte nelle indagini, e i professionisti che hanno gestito il negoziato da una parte e dall’altra, concordano sul fatto che il 4 marzo venne commessa una grave imprudenza. La strada per l’aeroporto di Baghdad è estremamente pericolosa durante il giorno, e durante la notte non bisognerebbe proprio percorrerla, a maggior ragione sopra una macchina con targa irachena, senza illuminazione o contrassegni particolari, e senza un collegamento radio in tempo reale con le pattuglie impegnate nella zona. La decisione di andare subito all’aeroporto, quella sera stessa, è stata un errore. Non so chi l’abbia presa e perché: forse c’era fretta di tornare a Roma per l’occasione mediatica, offerta dalla liberazione di Giuliana Sgrena. In ogni caso è stato uno sbaglio: in una situazione del genere, se non ti uccidevano gli americani l’avrebbero fatto gli iracheni. Per commettere una simile imprudenza ci vuole una ragione molto importante, che non conosciamo».
Gli italiani obiettano che gli americani erano stati informati, la macchina andava piano, si è fermata appena ha visto la pattuglia, ed è stata colpita senza ricevere segnali di avvertimento. Non sono elementi di cui tenere conto?
«Queste sono le dichiarazioni pubbliche. A livello privato la situazione è diversa».
Cosa avrebbe dovuto fare Calipari?
«Dopo la liberazione della Sgrena doveva avvertire gli americani che stava andando nella Green Zone protetta di Baghdad, e raggiungere l’aeroporto la mattina dopo con un convoglio blindato. Mi spiace discutere le azioni di un morto, che non può dare la sua versione dei fatti e difendersi, ma le autorità italiane conoscono la verità».
Roma ha sostenuto Washington in Iraq, ha mandato oltre 3000 soldati, e ha perso più di venti militari. Non meriterebbe un trattamento diverso?
«Il grande rispetto degli Stati Uniti per l’Italia, la gratitudine, e l’attenzione politica per un alleato così importante, si legge nel fatto che nessuno parla degli obiettivi della missione Calipari. Il Pakistan vi ha accusato di fomentare il mercato dei sequestri, pagando i riscatti per liberare i prigionieri, ma Washington su questo non apre bocca. Eppure in guerra, con i rapitori, non si tratta: gli unici contatti devono essere finalizzati a catturarli o ucciderli».
Come mai il Pentagono ha dato anticipazioni sul rapporto, mentre il Dipartimento di Stato ancora mediava: i due ministeri sono in contrasto?
«C’è impazienza da parte di alcuni funzionari per il protrarsi di questa commedia. Purtroppo tutti sanno cosa è accaduto quella tragica notte, e tutti sono estremamente dispiaciuti, ma proprio per questo bisognerebbe superare la crisi».
Le sembra che il governo italiano potrebbe firmare le conclusioni dell’inchiesta, che in pratica scarica su Calipari la responsabilità della propria morte?
«Questi sono giudizi politici che competono a Roma. Non posso darli io».
Dopo un episodio del genere, se Italia e Stati Uniti non trovassero l’accordo sul linguaggio di un rapporto comune, il nostro contingente potrebbe ancora restare in Iraq?
«La presenza delle truppe di Roma non dipende da questo tragico incidente, che non può essere la causa del ritiro. Come verrà valutato per la politica interna, però, è un altro conto».
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