Il ritiro da Gaza rinviato di tre settimane, l'attentato a Rafah
cronache, imprecisioni e scorrettezze di quattro quotidiani
Testata:
Data: 19/04/2005
Pagina: 24
Autore: Pietro Del Re - un giornalista - Umberto De Giovannangeli - Michele Giorgio
Titolo: Gaza Sharon rinvia il ritiro
I quotidiani di martedì 19 aprile 2005 pubblicano cronache sul rinvio di tre settimane del ritiro da Gaza e sull'attentato del 18 aprile a Rafah. Quest'ultima notizia è quasi nascosta dai quattro quotidiani che prendiamo in esame: non compare nei titoli ed'è relegata in poche righe conclusive nel testo degli articoli

Su LA REPUBBLICA troviamo a pagina 24 l'articolo di Pietro Del Re "Gaza Sharon rinvia il ritiro "Ma solo per motivi religiosi" ".
E' da segnalare negativamente il fatto che né il titolo né l'occhiello ("La data che era stata fissata, il 20 luglio cade in un periodo in cui agli ortodossi sono vietati i traslocchi") indicano la durata del rinvio (tre settimane), che potrebbe quindi essere creduto molto più lungo o indefinito.
Inoltre, stupisce il fatto che sul sito del quotidiano, che dovrebbe dare le notizie più aggiornate, quella dell'attentato a Rafah compare solo il giorno dopo i fatti, nell'articolo di Del Re ripreso dall'edizione cartacea. E con la scarsa visibilità cui abbiamo accennato.

Ecco il testo:

Per motivi puramente religiosi, il premier israeliano Ariel Sharon potrebbe decidere di rinviare di alcune settimane l´inizio del ritiro dei coloni dagli insediamenti di Gaza, previsto il 20 luglio prossimo. Lo smantellamento delle colonie coincide infatti con il nono giorno del mese ebraico di Av in cui gli ebrei digiunano in segno di lutto per la distruzione del primo e del secondo Tempio di Gerusalemme. Non solo: secondo i precetti dell´ebraismo ortodosso, in quei giorni non è consentito cambiare casa. «Penso che si debba compiere ogni sforzo per alleviare la crisi che queste persone dovranno attraversare», ha dichiarato in proposito Sharon, aggiungendo che sottoporrà la questione al consiglio dei ministri previsto per questa mattina. In realtà, lo slittamento della data dello sgombero è stato proposto domenica scorsa da Yonathan Bassi, capo della Commissione governativa incaricata di organizzare l´assorbimento in Israele dei circa ottomila coloni della Striscia.
Negativa la prima reazione del movimento dei coloni. «Respingiamo con oltraggio questo tentativo da parte del governo di mostrare simpatie verso le vittime della loro politica. Si tratta al contrario di puro cinismo», ha affermato Emily Amrussi, una loro portavoce. La richiesta di Bassi coincide con le prime, imponenti esercitazioni dell´esercito israeliano per riprodurre tutti i possibili scenari in cui si svolgerà la delicatissima operazione del ritiro, che nel complesso dovrebbe durare circa un mese e che prevede l´evacuazione dei ventuno insediamenti attualmente esistenti nella Striscia, oltre che della maggior parte degli avamposti militari. Sharon ha sempre respinto ogni ipotesi di rinvio per ragioni logistiche, fra cui l´esigenza di sistemare i coloni in altre abitazioni in tempo per l´inizio delle scuole, il primo settembre. Inoltre, un ritardo nell´avviare l´evacuazione concederebbe ai coloni oltranzisti e ai partiti dell´estrema destra nazionalista più tempo per preparare la resistenza allo sgombero.
Ma se da un lato gli israeliani lasciano Gaza, dall´altro continuano a costruire in Cisgiordania.
Le autorità di Gerusalemme hanno lanciato ieri una gara d´appalto per la realizzazione di cinquanta nuove abitazioni nell´insediamento di Elkana, che già conta più di tremila persone.
Una gara d'appalto per l'ampliamento di un insediamento già esistente, con la prevista costruzione di 50 case non è un piano di incontrollata espansione edilizia, né una "continua" costruzione di nuovi edifici.


Il bando arriva una settimana dopo l´incontro di Washington, durante il quale Bush ha chiesto a Sharon di attenersi alla road map che proibisce esplicitamente l´ampliamento delle colonie nelle aree palestinesi. Sempre ieri, due soldati israeliani
Si trattava in realtà di un militare e di un civile.
sono stati gravemente feriti a colpi d´arma da fuoco da miliziani palestinesi nei pressi di Rafah, proprio nella Striscia di Gaza. L´azione è stata rivendicata dai Comitati per la resistenza popolare che non hanno aderito alla tregua concordata l´8 febbraio tra palestinesi e israeliani. «Abbiamo agito per rappresaglia dopo l´uccisione di tre ragazzi palestinesi il 9 aprile a Rafah, in circostanze mai chiarite», ha dichiarato un portavoce dei Comitati.
Una commissione d'inchiesta israeliana ha determinato le circostanze dell'episodio. Secondo le sue conclusioni, scrive Graziano Motta su AVVENIRE del 19-04-05 ("Sharon: "Slitta il ritiro dalla Striscia di Gaza" ") sembra che i tre giovani palestinesi "intendessero mettere fuori uso o rubare una telecamera per poi favorire i contrabbandieri che colà operano".
Tali conclusioni dovevano essere citate per completezza di informazione.

La stessa mancanza è riscontrabile nelle ultime righe dell'articolo presente sulla STAMPA a pagina 13: "Sharon posticipa il ritiro da Gaza Il vicepremier Peres: «Sono sorpreso»", che riportiamo integralmente:

Ariel Sharon ha deciso di posticipare il ritiro israeliano da 21 insediamenti della striscia di Gaza e da quattro insediamenti nel Nord della Cisgiordania. Ne ha dato notizia ieri pomeriggio la tv israeliana. Secondo l'edizione online del quotidiano Haaretz, lo sgombero potrebbe slittare dalla data prefissata del 20 luglio fino alla metà agosto. La proposta di rinviare il ritiro era stata formulata da Yonathan Bassi, al quale il governo ha affidato l'esecuzione del piano di disimpegno per quanto concerne lo sgombero di oltre ottomila coloni. La motivazione addotta da Bassi è che la data fissata per l'inizio dello sgombero cade nelle tre settimane di lutto che gli ebrei religiosi rispettano per ricordare la caduta del primo e del secondo biblico Tempio ebraico. Poiché la maggior parte dei coloni che saranno costretti ad abbandonare gli insediamenti sono religiosi osservanti il governo, secondo fonti informate, preferisce non offendere le loro sensibilità religiose, in un momento già per loro altamente traumatico. Ma la motivazione addotta a sostegno della proposta è accolta con scetticismo soprattutto nei circoli dell'opposizione israeliana che osservano come la data di inizio del periodo di lutto per il Tempio era nota quando venne fissato il calendario con i tempi del ritiro. È più probabile, secondo questi circoli, che si tratti di un pretesto per nascondere il fatto che i preparativi per il trasferimento dei coloni in altre località in Israele sono ancora in alto mare. Anche Shimon Peres, in visita a Parigi, è rimasto sorpreso dalla decisione di Sharon. È stato lo stesso vice primo ministro ad ammetterlo in un'intervista alla radio israeliana. «Sapevamo tutti da tempo di questi avvenimenti», ha dichiarato Peres all'emittente, «Perché hanno aspettato fino all'ultimo minuto?». Frattanto un civile e un militare israeliani sono stati feriti ieri da cecchini palestinesi nel Sud della striscia di Gaza, al confine con l'Egitto. L’attentato è stato rivendicato dai Comitati di Resistenza Popolare che hanno detto di aver voluto vendicare la morte di tre giovani palestinesi uccisi alcuni giorni prima nella stessa area dal fuoco di soldati israeliani.
Su L'UNITA' Umberto De Giovannangeli sull'attenttato a Rafah si limita a riportare quanto dichiarato dal portavoce dei terroristi, senza un commento che ne segnali la pretestuosità: "Poco dopo Abu Abir, portavoce dei Comitati palestinesi di resistenza popolare, assume la paternità dell’operazione che - spiega - è giunta in ritorsione «a una lunga serie di infrazioni israeliane alla tregua»".

Da segnalare anche la sicurezza con la quale u.d.g. accredita i sospetti di imprecisati "circoli dell'opposizione israeliana" sulle reali motivazioni del ritiro. Facendoli del tutto propri il giornalista esordisce scrivendo: "Lo smantellamento delle 21 colonie può attendere altre tre settimane. Ufficialmente, per motivi religiosi. In realtà, per ragioni molto più «prosaiche», legate alle crescenti difficoltà incontrate sul campo nel dar seguito alla contestata decisione".

Ecco, da pagina 13, l'articolo: "Ritiro da Gaza, il premier Sharon rinvia di tre settimane"

Lo smantellamento delle 21 colonie può attendere altre tre settimane. Ufficialmente, per motivi religiosi. In realtà, per ragioni molto più «prosaiche», legate alle crescenti difficoltà incontrate sul campo nel dar seguito alla contestata decisione. Sta di fatto che il premier israeliano Ariel Sharon ha annunciato ieri sera che l’inizio del piano di ritiro dalla Striscia di Gaza e da quattro insediamenti nel nord della Cisgiordania sarà rinviato di tre settimane rispetto alla data indicativa del 20 luglio prossimo. La proposta di rinviare il ritiro è giunta da Yonathan Bassi, al quale il governo ha affidato l’esecuzione del piano di disimpegno per quanto concerne lo sgombero di oltre ottomila coloni. La motivazione addotta da Bassi è che la data fissata per l’inizio dello sgombero cade nelle tre settimane di lutto che gli ebrei religiosi rispettano per ricordare la caduta del primo e del secondo biblico Tempio ebraico. Poiché la maggior parte dei coloni che saranno costretti ad abbandonare gli insediamenti sono religiosi osservanti il governo, secondo fonti informate, preferisce non offendere le loro sensibilità religiose, in un momento per loro già altamente traumatico. «Io penso - ha commentato in proposito Sharon - che si debba compiere ogni sforzo per alleviare la crisi che queste persone dovranno attraversare». In serata, la decisione del rinvio. L’inizio del ritiro slitterà a metà agosto. «Cechiamo di fare di tutto per facilitare l’evacuazione e per permettere (ai coloni) di superare il trauma...Si tratterà effettivamente di giorni duri, difficili per la storia del popolo ebraico», dichiara Sharon.
Ma la motivazione ufficiale addotta a sostegno del rinvio è accolta con scetticismo soprattutto nei circoli dell’opposizione israeliana che osservano come la data di inizio del periodo di lutto per il Tempio era nota quando venne fissato il calendario con i tempi del ritiro. È più probabile, secondo questi circoli, che si tratti di un pretesto per velare il fatto che i preparativi per il trasferimento dei coloni in altre località in Israele sono apparentemente ancora in alto mare. Il futuro delle colonie continua a segnare i rapporti tra Gerusalemme e Washington. Le autorità israeliane hanno emesso una gara d’appalto per la costruzione di una cinquantina di nuove case nell’insediamento ebraico di Elkana, in Cisgiordania, a poca distanza dalla «linea verde», il vecchio confine armistiziale con Israele, antecedente il conflitto del 1967. L’iniziativa contrasta apertamente con la posizione degli Stati Uniti contrari all’espansione degli insediamenti ma è pienamente in linea con quella di Sharon per il quale aree nelle quali si concentra un forte numero di insediamenti dovranno restare per sempre in mano di Israele, in qualunque ipotesi di accordo con i palestinesi.
Il tutto mentre sul campo la tregua israelo-palestinese è di nuovo in bilico: questa è l’impressione manifestata da fonti militari a Tel Aviv al termine di una nuova giornata di incidenti. È il primo pomeriggio quando dalla zona di Rafah cecchini palestinesi aprono il fuoco contro una squadra israeliana impegnata in lavori di fortificazione sull’Asse Filadelfi, una stretta lingua di terra che corre fra il territorio egiziano e la Striscia di Gaza. La reazione della guarnigione israeliana che presidia il vicino fortino di Hardon è immediata. Quando gli spari si diradano viene rilevato che gli israeliani hanno avuto due feriti, uno dei quali in condizioni gravi. Poco dopo Abu Abir, portavoce dei Comitati palestinesi di resistenza popolare, assume la paternità dell’operazione che - spiega - è giunta in ritorsione «a una lunga serie di infrazioni israeliane alla tregua». Nel frattempo altri spari sono indirizzati verso il valico di Sufà (nel sud della Striscia) e verso un avamposto militare che protegge la colonia di Neveh Dekalim. Per Gerusalemme questa escalation di incidenti segnala la «mancanza di incisività» sul terreno degli apparati di sicurezza dell’Anp.
IL MANIFESTO non dedica molto spazio né al rinvio del ritiro da Gaza né alle violenze di lunedì.
L'articolo di Michele Giorgio "All'areoporto di Gaza non vola una mosca" tratta appunto della chiusura dell'aereoporto di Gaza da parte delle autorità israeliane, presentata come una ingiustificata misura di punizione collettiva .
Come se il terrorismo non avese mai minacciato Israele e fossero pertanto vessatorie le sue richieste di garanzie per la propria sicurezza.

Le forze di difesa israeliane sono chiamate "forze di occupazione", i terroristi palestinesi "militanti".

Il quotidiano comunista riporta anche un episodio non presente nelle cronache degli altri quotidiani da noi esaminati: "ieri, però", scrive Giorgio, "un agricoltore impegnato a dissodare il proprio campo, Abdel Karim Arafat, è stato ucciso a Beit Lahya da colpi esplosi da soldati di guardia all'insediamento ebraico di Nissanit".
Anche Graziano Motta di AVVENIRE riporta questa notizia precisando però che "l'episodio resta controverso".
Ma per il quotidiano comunista la colpevolezza degli israeliani non è mai controversa, soprattutto quando si deve dare la notizia di un attentato palestinese, che va allora "accompagnata" con quella di una violenza israeliana, per quanto incerte siano le informazioni di cui si dispone.
Il civile israeliano ferito a Rafah è etichettato come "colono".

Ecco l'articolo, da pagina 8:

Non c'è alcun passeggero nella hall dell'aeroporto internazionale «Yasser Arafat» di Rafah ma le misure di sicurezza sono ugualmente strettissime. «Stop - urla una delle guardie private che presidiano l'ingresso del parcheggio - scendete dall'automobile e fatevi da parte. Tutto ok, potete entrare». Il rigore delle procedure di sicurezza lascia perplessi. Perché, ci si domanda, tutte queste precauzioni in un luogo dove, al massimo, circolano una trentina di persone? «A molti sembrerà strano, ma noi cerchiamo di comportarci come se l'aeroporto fosse in funzione, regolarmente, in questo modo saremo pronti ad entrare in pieno servizio non appena diverrà possibile», spiega Maher Abu Shaban, uno dei funzionari dello scalo palestinese. Mentre parla l'altoparlante invita, in arabo e in inglese, i passeggeri diretti a Casablanca a dirigersi all'uscita 8 per l'imbarco. «Anche questi annunci servono a tenere in esercizio il personale», aggiunge Abu Shaban di fronte all'espressione meravigliata dei giornalisti presenti.
Quando l'aeroporto di Rafah - inaugurato nel 1998 dall'ex presidente americano Bill Clinton - tornerà a funzionare nessun palestinese lo sa. La decision spetta solo a Israele che alla fine del 2000, mentre infuriavano i combattimenti della nuova Intifada, rase al suolo il centro radar e inviò i suoi bulldozer a distruggere l'unica pista di decollo e di atterraggio. Milioni di dollari di danni fatti ad uno dei simboli della «pace di Oslo» che aveva dato ai palestinesi l'illusione di una sovranità, almeno nei cieli. «In realtà il nostro aeroporto anche a quel tempo era controllato dai servizi di sicurezza israeliani, noi ci limitavamo alle questioni tecniche, loro decidevano chi si sarebbe imbarcato e chi sarebbe sceso dagli aerei provenienti dall'estero», ricorda Mohammed Abdel Rahman, uno dei segnalatori incaricati di indicare ai piloti le zone di parcheggio per i velivoli.
All'epoca i giornali dello stato ebraico sottolinearono che quello di Rafah in realtà funzionava come un aeroporto israeliano a Gaza. Il cessate il fuoco ipotizzato a febbraio a Sharm El-Sheikh e finalizzato qualche settimana dopo al Cairo, non ha portato alcuna novità per quest'aeroporto. La calma che regna sul terreno non ha persuaso Israele a concedere ai palestinesi i vantaggi del trasporto aereo che, per due anni dall'inaugurazione nel 1998 fino al 2000, aveva consentito ai prodotti di Gaza, come i fiori, di raggiungere l'Europa e il mondo arabo. «La nostra terra è distrutta, abbiamo urgente bisogno di ricostruire l'economia e la riapertura dell'aeroporto ci darebbe un grosso aiuto, ci consentirebbe di arrivare nuovamente ai mercati stranieri», afferma Maher Abu Shaban.
Questo sogno palestinese non rientra nei programmi delle forze di occupazione. «È una questione di fiducia reciproca, per ora non c'è e pertanto non so quando potrebbe tornare a funzionare lo scalo di Rafah», afferma Mark Regev, portavoce del ministero degli esteri israeliano. Sul campo è cambiato ben poco da quando il presidente Abu Mazen ha convinto le formazioni palestinesi ad osservare l'accordo di tregua.
Anche se si muore un po' di meno a Gaza rispetto a qualche mese fa: ieri però un agricoltore impegnato a dissodare il proprio campo, Abdel Karim Arafat, è stato ucciso a Beit Lahya da colpi esplosi da soldati di guardia all'insediamento ebraico di Nissanit, mentre un colono e un soldato israeliani sono stati feriti da militanti dei «Comitati di resistenza popolare».
La vita resta un inferno e centinaia di migliaia di palestinesi vanno avanti grazie agli aiuti alimentari forniti dalle organizzazioni umanitarie. I mezzi d'informazione parlano solo del piano di evacuazione, a partire dal 20 luglio, delle 21 colonie ebraiche di Gaza e di altre piccole quattro in Cisgiordania. Un progetto che, con ogni probabilità, slitterà di tre settimane poiché la data fissata per l'inizio dello sgombero cade nelle tre settimane di lutto che gli ebrei religiosi osservano per ricordare la caduta del primo e del secondo Tempio. Non sono pochi coloro che ritengono che si tratti di un pretesto per nascondere il fatto che i preparativi per il trasferimento dei coloni in Israele sono apparentemente ancora in alto mare.
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