La politica del fatto compiuto e il "dominio" sui palestinesi: la politica di Israele
secondo u.d.g.
Testata:
Data: 15/04/2005
Pagina: 12
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: L'oltranzismo dei coloni che sognano il "Grande Israele"
L'UNITA' di venerdì 15 aprile 2005 pubblica a pagina 12 un articolo di Umberto De Giovannangeli sull'"oltranzismo dei coloni che sognano il "Grande Israele" ".
De Giovannangeli, correttamente, distingue tra una minoranza fortemente ideologica e una maggioranza pragmatica tra gli israeliani degli insediamenti.
Presenta però la politica israeliana dal 67 ad oggi come dominata da un generale consenso sulla strategia del "fatto compiuto": creare insediamenti per continuare a "dominare" i palestinesi.
Ciò non corrisponde a verità perchè nella società civile e politica israeliana è sempre esistita una consistente componente, non estranea a responsabilità di governo (pensiamo a Peres) disponibile a concessioni territoriali, mentre nel campo arabo e palestinese mancavano, semplicemente, interlocutori con i quali stipulare la pace.
Inoltre gli insediamenti non sono di per sè uno strumento di "dominio" e di oppressione. Come potrebbe esserlo il semplice fatto di una presenza ebraica nei territori?
Certo se le vite dei settler sono minacciate dal terrorismo risulta necessario proteggerle, e ciò si ripercuote sulla popolazione palestinese, che andrà soggetta a restrizioni militari e potrà essere convolta nel conflitto.
Ciò è dovuto però, appunto, alla violenza terrorista, non agli insediamenti.

Ecco l'articolo:

La condanna è stata pronunciata. Si tratta ora di eseguirla. È, al momento, una condanna politica, morale, senza appello, che qualcuno, però, potrebbe trasformare in qualcosa di più tragico. E definitivo. Una condanna a morte. Comminata a quello che un tempo era considerato un eroe, il mitico «generale bulldozer», e che oggi è divenuto ai loro occhi un premier imbelle, o peggio ancora un «traditore». Il suo nome è Ariel Sharon.
Da Kiryat Arba a Gush Katif, dai mega insediamenti di Ariel, Maaleh Adumim e Gush Etzion, -che si infilano come cunei in Cisgiordania, spezzandone la continuità territoriale - alla Striscia di Gaza: gli oltranzisti di «Eretz Israel» sono sul piede di guerra e avvertono: faremo di tutto per far fallire il piano di smantellamento di 21 insediamenti a Gaza e di 4 nel nord della Cisgiordania. «La battaglia in Parlamento si è ormai esaurita, ora inizia quella nelle piazze», tuona Effy Eitan, deputato dell'estrema destra. Il ritiro voluto da «Arik il traditore» è per l'Israele del rifiuto un sacrilegio insopportabile, l'abbattimento ingiustificabile di un dogma ideologico che ha da sempre connotato la destra oltranzista: il dogma dell'inviolabilità di «Eretz Israel», il Grande Israele. Quella condotta dall'ala più radicale del movimento dei coloni è una battaglia condotta senza esclusione di colpi. E di appelli. Come quello lanciato a tutti i riservisti da un gruppo di rabbini ultrà, fra cui l'ex rabbino capo ashkenazita Avraham Shapira, nel quale si chiede ai militari di disertare a partire da maggio. «Dopo Pasqua -avverte Shapira- ci arruoliamo tutti per difendere il Gush Katif», la zona di insediamento ebraico nel sud della Striscia di Gaza.
Ieri intanto il ministro della Difesa israeliano Shaul Mofaz ha deciso di far disarmare tutti i coloni degli insediamenti, prima dell'inizio delle operazioni di sgombero. Mofaz ha anche stabilito che, al fine di evitare incidenti, saranno disarmate anche le truppe che costringeranno i coloni che si rifiutano ad abbandonare le loro case. «Toglierci le armi significa metterci in balia dei terroristi, ed è un ulteriore gesto di rottura, di discriminazione», denuncia Avner Shimoni, portavoce del Gush Katif. E c'è chi, come lo storico militare Aye Yitzhahi, guida dei coloni di Neveh Dkalim, nel Gush, si dice certo di poter schierare oltre 400mila persone intorno alla zona di Gaza per resistere alla evacuazione pianificata. Il tutto in nome di Eretz Israel e della lotta contro il «Traditore»: Ariel Sharon.
Una lotta che dà corpo, come mai in passato, allo spettro della guerra civile. A testimoniarlo è anche la lacerazione che rischia di aprirsi all'interno di una delle istituzioni da sempre unificanti in Israele: Tzahal, le forze di difesa israeliane. Il piano di ritiro da Gaza ha proiettato anche all'interno delle forze armate lo scontro tra l'anima pragmatica di Israele e quella ancorata all'ideologia espansionista di Eretz Israel: diecimila soldati (circa un sedicesimo degli effettivi) hanno già raccolto l'appello dei rabbini oltranzisti all'obiezione nell'attuazione di ordini, l'evacuazione degli ottomila coloni da Gaza, che «minano l'integrità e la sicurezza della Terra d'Israele e realizzano la deportazione di ebrei». Da una indagine condotta dal quotidiano Maariv, emerge che il 36% dei soldati con la kippà non intendono essere parte attiva nello sgombero, e la spaccatura tra laici e religiosi è sempre stata lo spauracchio del sionismo. L'appello alla disobbedienza rivolto ai soldati ha scatenato polemiche e provocato inquietudine nella società e nel mondo politico israeliani. Ma l'ottuagenario rabbino che ne è stato l'artefice non fa marcia indietro e a l'Unità ribadisce che: «I militari religiosi devono chiarire ai loro comandanti che così come osservano il riposo sabbatico e così come non mangiano cibi impuri, così si rifiuteranno di sgomberare ebrei dalle loro case». Certo, i coloni oltranzisti sono una parte minoritaria della popolazione israeliana (oltre 240mila persone insediate in 155 insediamenti) che vive nei territori occupati; ma sono la parte più attiva, aggregante, motivata ideologicamente. Ogni loro discorso è impastato da un messianismo estremizzato in cui ad essere centrale non è tanto «Medinat Israel», lo Stato d'Israele, quanto «Medinat Halakah», lo Stato della Legge religiosa. La destra ultranazionalista e religiosa israeliana, di cui l'ala dura dei coloni è parte fondamentale, valorizza il rapporto fra il popolo ebraico e la terra (Eretz Israel). Ma a differenza della destra nazionalista europea, non ha il culto dello Stato. Nelle sue frange estreme vagheggia la riedificazione di una monarchia di stampo biblico, assistita da un sinedrio rabbinico.
Il loro atteggiamento di sfida è stigmatizzato con forza da Amos Oz, tra i più affermati e impegnati scrittori israeliani contemporanei: «I coloni che impongono i propri desideri allo Stato d'Israele - denuncia Oz - fanno provare a gran parte della nostra gente un tale livello di vergogna, di disperazione, alienazione e delusione da indurla a prendere seriamente in considerazione l'ipotesi di abbandonare il proprio Paese». «Riportare i coloni a casa e integrarli all'interno dei legittimi confini di Israele -aggiunge Oz- non costituisce un disimpegno nei loro confronti. Al contrario, è stata la creazione degli insediamenti nei territori occupati una forma di disimpegno che ha portato ad una drammatica spaccatura all'interno della società israeliana». Ma loro, gli irriducibili di Eretz Israel, si sentono nel giusto. E non si sentono isolati. Al loro fianco hanno non solo i partiti di estrema destra, ma ciò che più conta una parte significativa dello stesso Likud, il partito del premier Sharon. Si sentono «traditi» dal potere politico, e in questo possono trovare un qualche fondato motivo nella storia. Perché la crescita della colonizzazione ebraica nei Territori è stata una costante di tutti i governi israeliani, siano essi a guida laburista o Likud: e alla base, rileva Yoel Marcus, editorialista di punta del quotidiano Haaretz, c'era la convinzione che le colonie e l'uso della forza avrebbero creato un fatto compiuto, una «situazione irreversibile». Vale a dire che Israele avrebbe perpetuato il suo dominio sulle terre palestinesi.
La parola «compromesso» non fa parte dei propugnatori del «Grande Israele», pronti a marciare su Gerusalemme e a schierare 400mila «eroi» a difesa degli insediamenti di Gaza, in nome delle «Ragioni del Popolo Ebraico» di cui si autoproclamano avanguardia invincibile. Nessuno di loro è disposto a mediare su quello che considerano un Diritto naturale, inalienabile: vivere sulla Terra d'Israele. Anche se questo significa vivere blindati, come a Gaza o a Hebron. Anche se significa isolarsi dalla Comunità internazionale, che considera Gaza e Cisgiordania «territori occupati». Anche se significa colpire un primo ministro «traditore» e trascinare Israele, come ha paventato lo stesso Sharon, nel baratro della guerra civile.
Ma se la loro ideologia è tutta proiettata al passato, diverso e opposto è il discorso sugli strumenti di comunicazione che i coloni oltranzisti utilizzano per propagandare il loro credo politico e per «veicolare» le loro direttive. L'apparato mediatico di cui dispongono è possente: 8 siti internet (in ebraico e in inglese); 7 pubblicazioni (in ebraico); una radio (pirata) «Arutz 7» (Canale 7) ascoltabile su tutto il territorio nazionale; in fase di avanzata definizione sono i preparativi per lanciare una stazione televisiva, diffusa via satellite. «Quello dei coloni - spiega il professor Sergio Della Pergola, professore di Demografia all'Università Ebraica di Gerusalemme - è un insieme eterogeneo. Un'azione politica ben studiata dovrebbe isolare quello che è il nucleo più militante, accentuando le differenze fra i vari gruppi. Fra i coloni anche le motivazioni di ordine familiare, economico e sociale sono affiancate da posizioni ideologiche diverse, dai super-fanatici ai pragmatici». La parola d'ordine per Israele, sostiene Della Pergola, dovrebbe essere «Flessibilità e duttilità». Ma, conclude, «non è plausibile che le scelte di 230mila persone che hanno deciso di vivere nei Territori si impongano alle scelte di oltre quattro milioni e mezzo di ebrei israeliani che hanno deciso di non viverci». D'altro canto, il pragmatismo della leadership dei coloni è riservato ai tempi di calma relativa. Ma se il nucleo del movimento si sentisse, come appare essere oggi, con le spalle al muro potrebbe tornare a manifestarsi la vocazione apocalittica. Quella del «Muoia Sansone, con tutti i filistei».
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