Due interviste ad Amira Haas, tra informazione, propaganda e ideologia
sul Riformista e sul Manifesto
Testata:
Data: 06/04/2005
Pagina: 8
Autore: la redazione
Titolo: Due interviste ad Amira Haas, tra informazione, propaganda e ideologia
IL RIFORMISTA di mercoledì 6 aprile 2005 pubblica a pagina 8 un articolo di Anna Momigliano, "Come va oggi in Palestina? Domani andrà peggio" che riporta una conversazione con la giornalista israeliana Amira Haas.
Ecco il testo:

Amira Hass è real-pessimista. L’unica corrispondente israeliana che vive in Cisgiordania sostiene che la stampa occidentale cede alle illusioni dei trattati e dà troppa corda al culto delle armi nei Territori occupati con «impulso colonialista»
Amira Hass è l’unica giornalista israeliana in Cisgiordania, insieme ai Palestinesi. Dalla sua casa di Ramallah, scrive column infuocate per l’Haaretz, quotidiano di riferimento per la sinistra israeliana: la vita, lenta e surreale, nella West Bank, dove la libertà di movimento è un sogno lontano; gli effetti dell’occupazione militare; ma anche l’incapacità di costruire una reazione costruttiva da parte dei Palestinesi e l’inettitudine della leadership araba.
Ha ricevuto importanti riconoscimenti internazionali, come il World Press Freedom Award, e il premio Unesco per il giornalismo. La sua critica interna all’occupazione della Cisgiordania cede talvolta a una retorica simile a quella della gauche europea («terrorismo di Stato», «impulso colonialista») e per questo non gode di grande popolarità tra il pubblico israeliano, sinistra compresa. Di una cosa, sicuramente, bisogna darle atto: Amira Hass è l’unica giornalista occidentale che vive stabilmente nei Territori occupati, con tutti i rischi che ciò comporta, e da anni rappresenta l’unica fonte d’informazione costante sulla vita quotidiana a Gaza e nella West Bank, producendo un corpus di saggi e articoli che sono parte della memoria storica palestinese. «Sono interessata nella vita della gente comune molto più che a quella dei pesci grossi. Sarà che ho studiato scienze sociali, ma per me questa è Storia», racconta al Riformista, mentre è a Roma per promuovere il suo libro, Domani andrà peggio (Fusi orari), che presenterà sabato alla Casa della Cultura di Milano, insieme a Gad Lerner.
Il titolo si riferisce a un detto palestinese («Come va oggi? Alla grande, perché domani andrà peggio»), che ben riflette la sfiducia nel futuro che si respira in Cisgiordania. «E’ anche un invito a dirmi che ho sbagliato - spiega lei - ma per ora tutte le componenti politiche sembrano darmi ragione». E come mai tutto questo pessimismo? A molti sembra invece che le «componenti politiche» (una nuova leadership, il processo di pace riavviato, le prime città della Cisgiordania sotto il controllo dell’Anp e presto il ritiro da Gaza) siano molto più incoraggianti di quanto non lo fossero cinque-sei mesi fa. «Sono tutti entusiasti dei passi diplomatici. Beh, fanno male». Amira non ha molta fiducia nei suoi colleghi giornalisti: «la stampa, in tutto il mondo, sta commettendo gli stessi errori dei tempi di Oslo. Gli anni Novanta si ricordano ancora come un periodo di enormi passi avanti verso la pace, ma è una percezione sbagliata. L’errore è questo: i media prestano molta attenzione agli accordi, alle parole dei leader di una e dell’altra parte, senza guardare quello che avviene realmente sul campo. E sono tutti troppo entusiasti nel dare credito alle promesse sulla carta». Ma, al di là delle parole, si stanno facendo passi avanti: Israele ha restituito i prigionieri, Hamas ha bloccato gli attentati, Gerico e altre città sono già nelle mani dell’Anp, l’esercito di Gerusalemme presto se ne andrà anche da Gaza. Vuole dire che tutto questo non ha il minimo effetto sulle condizioni di vita dei palestinesi? «Senta, il fatto che non ci siano più soldati di Tsahal a Gerico non vuol dire che la città sia libera. Anche se adesso sono palestinesi i poliziotti che mantengono l’ordine in città, appena fuori, Gerico è ancora circondata dall’esercito israeliano e dai checkpoint. Non c’è libertà di movimento, ed è questo che ha le ripercussioni maggiori sulla qualità della vita». Dunque è la continuità del territorio che conta, secondo lei, e non le singole città liberate? «Israele continua la sua strategia coloniale nei Territori occupati: tagliando, sezionando, frammentando la West Bank in piccole enclave libere, che però non possono comunicare l’una con l’altra. Insomma, non ci sono segni tangibili che Israele concederà un minimo di continuità territoriale dentro l’Anp. E a differenza dei tempi di Oslo, oggi Sharon ha detto apertamente che non ha intenzione di lasciare la Cisgiordania. Continueranno a esserci checkpoint e colonie ebraiche, che di fatto frammentano tutta la West Bank». E’ questa la strategia della chiusura, cui fa spesso riferimento nel suo libro? «La strategia è questa: tagliare la West Bank in piccole enclave, in modo che Israele possa dettare ad hoc il grado di libertà di ognuna di queste enclave in quanto unità a sé stante, a secondo di quanto gli abitanti di questa o quella cittadina si comportino bene».
Almeno la striscia di Gaza, è ormai chiaro, sarà del tutto indipendente. Questa non è continuità territoriale? «Per niente. Gaza non è niente più che un’altra enclave, magari un po’ più grande. Fa parte della stessa strategia, con la quale sia il Labour che la destra hanno deciso di affrontare i Territori: facciamo in modo che i Palestinesi vivano in uno Stato che non possa essere autonomo. Non in un territorio, ma in frammenti di territori». Dunque lo smantellamento delle colonie è una presa in giro, ed è tutta colpa dello stato ebraico? «Non sto dicendo questo. E’ chiaro che non ci potrà essere la pace fino a quando Israele continua la sua colonizzazione della West Bank, ma anche i Palestinesi hanno le loro responsabilità. Per esempio, le spiegavo che esiste una percezione che il livello d’indipendenza di una città si possa misurare in base al fatto che i Palestinesi possano girare armati». Come nel caso di Gerico? «Esatto. Questa percezione, però, è dovuta in gran parte a un vero e proprio culto della armi che esiste nella società palestinese. Così si arriva a pensare che il progresso si basi sul fatto che un poliziotto arabo se ne va in giro con il mitra a tracolla, anziché lasciarlo sotto la scrivania, anziché sulla libertà di movimento o il miglioramento delle condizioni. Non c’è nulla di più sbagliato, e vuol sapere cos’è il lato più assurdo di tutto questo?». Non ne ho idea. «Che la stampa di tutto il mondo sta dando corda a questo modo di pensare».
Di seguito, invece, l'intervista ad Amira Haas di Michelangelo Cocco, dal MANIFESTO
Per Amira Hass «domani andrà peggio», perché mentre israeliani e palestinesi sembrano aver smesso d'ammazzarsi, lo Stato ebraico continua a colonizzare la Cisgiordania e la seconda intifada non è riuscita ad aprire la strada alla nascita di una Palestina indipendente nei confini del 1967. La giornalista israeliana del quotidiano Ha'aretz ha vissuto prima nella Striscia di Gaza e, nel 1997, si è trasferita a Ramallah, dove ha assistito alla nascita della rivolta armata scoppiata il 29 settembre 2000. È in Italia (giovedì 7 alle 21 sarà alla Casa della cultura di Milano) per presentare il suo libro - Domani andrà peggio (Fusi orari, pp. 233, € 15) - una raccolta di lettere scritte dalla Palestina per il settimanale Internazionale. Una serie di brevissimi racconti dai quali la Hass fa emergere decine di storie di ordinaria occupazione e resistenza: quelle di migliaia di famiglie palestinesi la cui vita è resa quasi impossibile dalle restrizioni israeliane e quelle di chi si oppone al regime senza sparare un colpo.

Possiamo dire che la seconda intifada è finita?

Quello che posso affermare è che non ha raggiunto nessun risultato sostanziale: il fallimento di quest'intifada lo abbiamo davanti agli occhi: l'attività di colonizzazione israeliana della Cisgiordania va avanti e sta accelerando. Questo è il principale metro per giudicare questa rivolta. Settemila ebrei verranno evacuati da Gaza, ma il governo israeliano ha progettato la costruzione di seimila nuove case in Cisgiordania, per 30.000 persone. L'intifada intesa come desiderio e diritto dei palestinesi di porre fine all'oppressione e all'occupazione militare israeliana però non è morta. C'è stata la prima e poi la seconda, forse seguirà una terza.

Le armi tacciono ma nessuno parla di pace...

Osserviamo le politiche israeliane: indicano che ci sono dei progressi nella direzione della pace? Assolutamente no, anzi è vero il contrario. Ma c'è anche una domanda che mi accompagna sempre: fino a che punto ci è permesso criticare la parte oppressa, come faccio io? Alcuni mi dicono che è un'attitudine colonialistica. Io rispondo che se lo faccio è perché ciò fa parte della mia impostazione di donna di sinistra e perché vivo tra i palestinesi. In qusta seconda intifada i palestinesi non hanno utilizzato le armi nella forma tradizionale della guerriglia, hanno fatto ricorso agli attentati terroristici all'interno d'Israele, una tattica che ha oscurato completamente la vera situazione del dominio israeliano sulla popolazione palestinese. Ma non è l'utilizzo delle armi che segnala l'esistenza o, al contrario, la mancanza di una resistenza.

Ma quale resistenza popolare è possibile sotto questa occupazione?

C'è già una resistenza popolare palestinese ed è permanente. È la capacità e l'insistenza da parte dei palestinesi a vivere quanto più normalmente possibile sotto il regime di restrizioni imposte dall'esercito occupante. La violazuione dei coprifuoco, i genitori che continuano a mandare i propri figli a scuola malgrado tutto, gli operai che fanno di tutto pur di raggiungere i posti di lavoro. Il problema è che i palestinesi non hanno in questo momento alcun leader capace di trasformare questa grande capacità di adattamento in resistenza.

«Domani andrà peggio». Perché un titolo così pessimistico?

Da un lato mi sembra appropriato rispetto al corso degli avvenimenti, dall'altro un invito ai lettori a fare di tutto affinché la mia previsione si riveli sbagliata. Israele sta creando nuove forme di dominio sui palestinesi, mentre si parla di possibilità che riparta il processo di pace. I media che stanno collaborando alla formazione di questa impressione hanno una grande responsabilità nel peggioramento della situazione, perché se descrivi una realtà che è l'esatto opposto di come le cose vanno sul terreno, allora contribuisci a far sì che nulla muti in meglio. La colonizzazione della Cisgiordania e la forma di apartheid che Israele sta creando, questa è la realtà.

Ha'aretz ritiene il piano di ritiro da Gaza un fatto positivo, perché assesta un duro colpo al movimento dei coloni...

Stiamo parlando di settemila ebrei che hanno il controllo del 20% del territorio della Striscia di Gaza, mentre a 1.200.000 persone sono imposte una serie di restrizioni che rende la loro vita invivibile. Quando discutiamo del cosiddetto «disimpegno» è come se stessimo discutendo di emendare questa terribile ingiustizia. Ora lo stesso fenomeno, di una minoranza di israeliani che costringe a delle terribili condizioni di vita una maggioranza di palestinesi contuinuerà e si estenderà in Cisgiordania. Io credo che Sharon abbia fatto intendere chiaramente che il ritiro da Gaza è un pretesto per continuare la colonizzazione e l'occupazione della Cisgiordania. Si stanno creando in Cisgiordania delle enclave palestinesi separate e ricchi insediamenti ebraici collegati a Israele attraverso un sistema di ottime strade. La realtà che si sta creando è una realtà di apartheid. Io sto scrivendo tutto questo e lo sto facendo certo non perché vorrei che i coloni rimanessero a Gaza.

Come è giudicata una giornalista israeliana che dice queste cose?

Una parte di loro mi considera una «traditrice», altri mi leggono con interesse e si sentono solidali con le opinioni che esprimo, questi ultimi mi percepiscono come una sorta di ambasciatrice di un'altra Israele.

Ha la possibilità di vedere il muro da entrambi i lati. Come lo osserva da una parte e dall'altra?

Visto dal lato palestinese il muro rappresenta una serie di disastri personali e collettivi: gente che perde la propria terra, la casa, separata dai propri cari, un'altra barriera che impone restrizioni agli spostamenti. Dal punto di vista israeliano è la testimonianza di uno stato di panico, di isteria collettiva. Le autorità israeliane hanno utilizzato un senso di paura diffuso tra i cittadini. Una serie di paure individuali è stata mostrata come una minaccia strategica per Israele. Ma questa è una bugia, perché gli attentatori suicidi non pongono in alcun modo una minaccia strategica per lo Stato ebraico, uno stato dotato di armamenti nucleari. Il muro ha contribuito a bloccare i kamikaze, ma è stato costruito in modo da far parte integrante di una politica di colonizzazione e per questo motivo deve essere rimosso.

Si parla tanto di aparthied per definire le politiche israeliane. È d'accordo?

Quello cui stiamo assistendo è un insieme di occupazione militare, un processo di colonizzazione e di apartheid in tutto il paese, mentre c'è una democrazia per gli ebrei, che sembra un ossimoro, ma è la realtà. Un insieme pericoloso perché il mondo sembra disinteressarsi a quello che sta succedendo, diversamente da quanto successe per il regime di apartheid, che si trovò contro l'opposizione sempre più forte della Comunità internazionale. Nello stesso tempo Israele, a differenza del Sudafrica, deve essere visto come una conseguenza storica della persecuzione degli ebrei in Europa e dell'Olocausto. Mentre il Sudafrica in quanto stato razzista non ha avuto alcuna legittimità fin dalla sua creazione, non si può dire lo stesso del concetto di Israele in quanto stato che garantisce pieni diritti ai cittadini ebrei ma non alla minoranza (20%) di cittadini palestinesi. Questo non significa ovviamente che Israele sia autorizzato a rimanere uno stato che discrimina una parte dei suoi cittadini.
Ci riesce difficile capire come si possano denunciare i posti di blocco in Cisgiordania e i disagi che provocano alla popolazione palestinese senza ricordare il terrorismo che costringe a istituirli , come si possa definire "isteria collettiva" la richiesta israeliana di sicurezza, di fronte alla realtà delle stragi suicide, come si possa affermare che in Israele vige un regime di apartheid quando gli arabi israeliani godono per legge di diritti civili e politici uguali a quelli degli altri cittadini.

Al di là dei rilievi sulle opinioni di Amira Haas bisogna osservare la differenza fra i due articoli.
Molto equilibrato, l'articolo di Anna Momigliano non manca di spunti critici verso le tesi spesso estremiste e faziose di Amira Haas.
IL MANIFESTO invece, utilizza l'intervista per la sua propaganda. Fin dal titolo: "I coloni dell'apartheid".
Assenti nell'intervista rilasciata a Cocco le critiche della Haas alla violenta cultura politica palestinese, presenti nell'articolo della Momigliano

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