L'UNITA' di giovedì 31 marzo 2005 pubblica un articolo di Graziella Gallozzi sul contributo dello spettacolo, e in particolare del cinema e della musica, al dialogo israelo-palestinese.
Vengono però citati ad esempio film, come "Route 181", "Il muro", e "Private" caratterizzati da una visione unilaterale del conflitto, per la quale Israele è l'aggressore e i palestinesi sono le vittime.
Non il miglior modo, ci pare, di contribuire alla riconciliazione tra i due popoli.
Ecco il testo:Palestina e Israele unite da un gol. E per parlare di cinema, c’è un regista che ha sempre raccontato nei suoi film la passione per il calcio: Ken Loach. Ma il calcio «bello» che unisce, che insegna la solidarietà e non certo la violenza o il razzismo, temi a cui troppo spesso ormai è assimilato questo sport. E ce lo racconta così, «bello» e «solidale» ancora nel suo breve e folgorante «episodio» di Tickets, film siglato a sei mani con Ermanno Olmi e Abbas Kiarostami, in cui tre giovani tifosi scozzesi del Celtic rischiano l’arresto per «salvare» una famiglia di emigrati albanesi, salvo poi farla franca grazie ai tifosi della Roma che, nonostante siano i loro «avversari» nell’attesa partita di Champions League, non esitano a fare da barriera contro i poliziotti che sono loro alle calcagna. Un piccolo apologo sul calcio che unisce, così come tante volte è accaduto nella realtà e come si è ripetuto l’altro giorno sul campo dello stadio di Gerusalemme con il gol del giocatore arabo della nazionale israeliana Suwan Abbas che ha permesso alla squadra di pareggiare contro l’Irlanda.
Palestina e Israele unite da un gol. A conferma di una pace possibile. Quella stessa pace che anche il cinema ha tentato negli anni di costruire. Raccontando le difficoltà quotidiane, le differenze culturali più di frequente (da Amos Gitai a Elia Suleiman), ma anche mettendo insieme gli occhi di registi palestinesi ed israeliani. L’esempio (laboratorio) più noto è quel Route 181, girato a quattro mani da Eyal Silvan, ebreo israeliano, e Michel Khleifi, tra i più noti registi palestinesi, impostosi a Cannes con Nozze in Galilea, affresco anche divertito su un banchetto di matrimonio in territorio palestinese dove, per l’occasione, è persino possibile una «tregua».
Documentario di grande impatto, Route 181 prende il titolo dalla risoluzione adottata dalle Nazioni Unite che prevedeva la spartizione della Palestina in due diversi Stati, uno ebraico e l’altro arabo. Un confine che divide il Paese da Sud a Nord e che è alla base del drammatico conflitto. Un «cammino» che i due registi compiono insieme dando voce ai due punti di vista. Storie e testimonianze di palestinesi e di israeliani raccontate nelle due lingue, l’arabo e l’ebraico. Per mostrare che un punto di vista comune ci può essere: quello della pace vissuta da israeliani e palestinesi in un unico paese.
Un «unico paese» la cui frattura, invece, è stata accentuata da quel muro, gigante di cemento che ferisce i territori per 700 chilometri, allontanando ancora di più l’orizzonte della pace. A raccontarcelo è proprio Il muro, straordinario e toccante film documentario di Simone Bitton, regista che in sé incarna proprio questo ideale di unità, essendo, come lei stessa si definisce, «un’ebrea araba», abituata a vivere tra Israele e Palestina. Col suo film la regista fotografa ha raccontato questo simbolo stesso del conflitto israelo-palestinese sia da una parte che dall’altra. Poiché, spiega lei stessa, «questa barriera non è semplicemente un muro di separazione-sicurezza come dice la propaganda israeliana, ma è un ulteriore atto per espropriare la terra ai palestinesi, per chiuderli in prigione, per spingerli ad andare via».
Eppure il cinema - come del resto la «politica» - continua a provarci. Magari anche attraverso dei laboratori rivolti ai più piccoli e basati sull’animazione. È successo l’estate scorsa, per esempio, al festival dei «Castelli animati» in provincia di Roma dove si sono dati appuntamento adolescenti israeliani e palestinesi, per dar vita ad un cartoon «super partes». Sotto la supervisione di Emanuele Luzzati e Giulio Gianini hanno realizzato Pace of Peace, che racconta di un supercammello capace di volare sopra la guerra e la violenza, trasformandole magicamente in realtà di pace con colonna sonora dell’israeliana Noa e del palestinese Rim Banned. E ancora: è maturato a Venezia il progetto del Comune «Tu, noi» che ha visto convivere per una settimana ragazzi palestinesi di Nablus, loro coetanei israeliani di Rishon Le-Zion, spagnoli e di tre licei veneziani: un’esperienza che nasce da un programma di lungo corso e che il regista del film su Ilaria Alpi Ferdinando Vicentini Orgnani sta trasfomando in un lungometraggio con riprese avviate a Gerusalemme e proseguite nella città lagunare.
Come di pace ci parla ancora un film italiano, diventato un piccolo caso, quel Private di Saverio Costanzo - figlio di Maurizio - vincitore dell’ultimo festival di Locarno. Qui la storia-metafora racconta della convivenza obbligata tra una famiglia palestinese e dei militari israeliani che si installano con la forza nella loro casa, espropriandoli di un intero piano. Alla fine sarà la totale «fede pacifista» del padre ad avere la meglio sull’assurdità e la prepotenza dei militari, dei quali non si rinuncia a mettere in luce anche l’umanità.
Un’umanità comunque «dolente» contro la cui rappresentazione in stereotipi si è sempre battuto uno dei grandi registi internazionali: Amos Gitai, anche per questo messo «all’indice», in passato, dal suo stesso paese, Israele. Del quale, però, non ha mai smesso di raccontare tradizioni, violenze e contraddizioni. Così come nell’ultimo e spiazzante Hotel Promised Land, sulla tratta delle ragazze dell’Est in Israele. Commercio di schiave garantito dalla «complicità» frontaliera dei trafficanti israeliani e palestinesi, accomunati stavolta non da un’ideale di pace ma uniti, purtroppo, dallo sfruttamento di altri dannati della terra.
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