Un corposo dossier la cui tesi è precostituita per allinearsi sulle posizioni palestinesi
sul supplemento Analisi XXI del quotidiano Europa
Testata:
Data: 29/03/2005
Pagina: 1
Autore: Federico Steinhaus
Titolo: Un corposo dossier la cui tesi è precostituita per allinearsi sulle posizioni palestinesi
Analisi XXI , Rivista bimestrale di critica internazionale è un supplemento al quotidiano "Europa".
Il numero 1 del 2005 è dedicato per metà ad un solo argomento, il conflitto israelo-palestinese; esso è stato suddiviso in due dossier, uno di opinioni ed uno di documenti, con il chiaro intento di fornire attraverso i documenti un supporto non solo ai lettori ma anche alle tesi illustrate dagli analisti. Nel suo editoriale di apertura il direttore Franco Danieli espone le finalità di questa rivista, che deve essere, egli sostiene, un nuovo strumento di indagine e di conoscenza. Esse sono degne del massimo rispetto : democrazia, tolleranza, libertà individuali e collettive, separazione fra Stato e religione, rispetto di tutte le idee, rifiuti di qualsiasi intolleranza ne sono i cardini.

Anticipiamo pertanto, a fronte di una così orgogliosa ed ambiziosa rivendicazione civile, quel che ci è sembrato di primo acchito il difetto congenito della parte monografica dedicata al Vicino Oriente: una esposizione di argomentazioni che tiene in conto quasi esclusivamente una sola tesi, la palestinese, e che implicitamente e talora anche esplicitamente dà a priori come viziata da malafede la tesi israeliana non può presumere di corrispondere a quelle iniziali aspirazioni.

Per meglio argomentare questa affermazione dobbiamo ora addentrarci in alcune delle "proposte per la pace" che costituiscono il corpo del primo dossier.



"Ophira addio!" è il titolo dell' articolo scritto per la rivista da Uri Avnery, notissimo giornalista israeliano fondatore e voce autorevole di Gush Shalom. Ophira è il nome dato dagli israeliani a Sharm el Sheik nel periodo tra la Guerra dei 6 Giorni e la restituzione del Sinai all'Egitto, e questo richiamo simboleggia l'abbandono di una mentalità che voleva privilegiare il possesso di terra rispetto alla ricerca della pace. Questo approccio di Avnery è tuttavia viziato da una visione dei fatti dettata dal "senno di poi", che ne travisa il contesto: come si può muovere questo rimprovero a Moshe Dayan ed alla classe dirigente israeliana di allora senza tenere in considerazione la natura della controparte, agguerrita e decisa a distruggere Israele?

Non è solamente questo il punto debole dell' analisi prospettata da Avnery. Egli afferma "La verità è che la democrazia palestinese esisteva già" anche prima delle recenti elezioni locali e politiche, e cita ad esempio la plebiscitaria elezione di Arafat a presidente nel 1996, benché una avventurosa signora Samikha Khalil avesse presentato la sua candidatura alternativa alla presidenza dell' Autorità Palestinese, ottenendo quasi il 10% dei voti di preferenza.

Poche righe più avanti, Avnery lamenta "l'incessante campagna di diffamazione di Israele contro Arafat" come causa del mancato riconoscimento della democraticità dell' Autorità Palestinese.

Simili incongrue ingenuità stridono con un pensiero che si può non condividere, ma che è sempre lucido e profondo.Ma esse, più forse della critica ragionata che pure vi trova molto spazio, tolgono credibilità all'insieme della costruzione teorizzata da Avnery.



Luciano Neri, esperto di politica internazionale ed in particolare mediorientale, ha scritto un saggio complesso ed articolato, "La "generosa offerta" e la terza via per la pace", nel quale critica le proposte del governo Barak con una durezza che non offre spazio ad opinioni diverse. Fin dalle prime righe, che contrappongono il commento di Sharon al vertice di Sharm el Sheik ("I palestinesi saranno giudicati per le loro azioni, non per quello che dicono") all' occupazione di terre palestinesi deciso per procedere con la costruzione della barriera difensiva ("il muro", scrive Neri) e più avanti ci dipingono un Peres che mira solo al potere personale a spese del suo partito e del paese, il pensiero di Neri emerge con chiarezza.

Sottolineate da cinque mappe tre delle quali sono intitolate alla "generosa offerta" di Barak (come nel titolo, le virgolette messe dall'autore sono più esplicite di qualunque commento) ed una è dedicata agli insediamenti israeliani, le parole di Neri sono degne di un pamphlet islamista più che di una pacata analisi: Barak è stato il "protagonista di opportunità perse e di leggende spacciate per proposte", e su questo motivo conduttore egli costruisce i suoi commenti, il più illuminante dei quali è: "Perché mai Arafat, che era un pragmatico e non certo un avventurista, avrebbe dovuto rinunciare ad una "generosa offerta" che restituiva, addirittura, il 95-97 per cento dei territori occupati?".

Proseguendo, Neri rovescia l' opinione comune e certificata anche da Clinton su quel vertice, affermando che erano stati i palestinesi a presentarsi con "ampie e generose concessioni" già fatte negli anni precedenti, e le elenca: essi avevano riconosciuto il diritto di Israele ad esistere (bontà loro), avevano rinunciato al 54% della Palestina ( Neri tuttavia non specifica cosa egli intenda per Palestina dal punto di vista storico e territoriale) nel 1947, poi avevano rinunciato ad un 24% della Palestina "cioè a più della metà del territorio assegnato ai palestinesi dall'ONU", e poi negli anni successivi avevano "accettato la pace con Israele in cambio del 22 per cento della Palestina storica: Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est".

Neri poi si lancia in una affermazione categorica quanto singolare: "Se la statura di un leader non è determinata solo dai successi che riesce a conseguire, ma anche dalla dimensione degli ostacoli che ha dovuto superare, Arafat non ha rivali al mondo".

Fortunatamente, nei successivi capoversi Neri smentisce sè stesso.I movimenti islamisti ed in particolare Hamas devono la loro forza alla frustrazione dei mancati successi del processo di pace, ma anche ad "una gestione del potere da parte dell'ANP e di Arafat fortemente caratterizzata da nepotismo e corruzione, da una visione autoritaria dello Stato". Arafat "ha pensato di utilizzare Hamas e i gruppi islamisti come strumenti di pressione, per accreditarsi come lo statista moderato con il quale trattare...Nel momento in cui gli era richiesto di diventare il Mandela del Medio Oriente, è diventato uno dei tanti rais autoritari del mondo arabo. Ha mantenuto la pena di morte consentendo che fosse praticata senza alcuna garanzia di legalità. Ha ritardato, fino a bloccarle, riforme in senso democratico e partecipativo".Ci auguriamo che Uri Avnery legga queste parole.

Neri ha anche il merito di usare, lui solo in tutto questo duplice dossier, la parola "terrorismo", che tutti gli altri autori dei saggi pubblicati evitano con la massima cura. Le "nuove leve politiche, accademiche e culturali palestinesi...definiscono gli attentati terroristici e civili non solo un errore, ma un orrore....un orrore che mina alle radici l' umanità essenziale che stabilisce la civiltà di un popolo e la giustezza di una lotta". Parole chiare e dure, che nessuno dei pacifisti ospitati in questa rivista ha avuto il coraggio civile e culturale di scrivere.



In una successiva ed anonima "cronologia dei principali eventi del processo di pace" la tesi di Neri sul vertice di Camp David del 2000 viene riportata tale e quale: "leggenda del tutto inverosimile", "non poteva che essere respinta dai palestinesi".



La rivista pubblica nelle pagine successive alcuni dei documenti (ma solo alcuni: fra le risoluzioni dell'ONU la sola 242 del 1967) sui quali si deve basare ogni negoziato.Purtroppo, della risoluzione 242 che sigillò lo status quo risultante dalla vittoria israeliana nella Guerra dei Sei Giorni, la rivista pubblica il testo contestato da Israele e caro agli arabi, secondo il quale Israele deve uscire "dai" territori occupati nel recente conflitto.

"Dai" e non "da": da tutti, cioè, e non solo da una parte di quei territori. La differenza deriva da un errore di traduzione del testo originario, stilato dalla diplomazia britannica nella lingua inglese che all'ONU fa testo come parametro per ogni ulteriore traduzione. Il documento recita, in inglese, "from", ovvero "da", ma fu tradotto come se vi fosse scritto "from the", cioè "dai".

E su questo errore, denunciato e documentato dagli estensori del documento stesso, si basa ancora oggi una delle controversie di principio fra palestinesi ed israeliani. Che la rivista sposi la tesi della giustezza del testo manipolato è deprecabile per chi pretende di fornire informazioni esatte.



Più avanti trova spazio la "Dichiarazione di principi Ayalon-Nusseibeh" sottoscritta dai due autorevolissimi esponenti israeliano e palestinese il 27 luglio 2002.

Si tratta, a differenza del cosiddetto Accordo di Ginevra fra esponenti del pacifismo militante, di una cornice ideologica e politica che non si addentra nello specifico delle assegnazioni di territorio o di risorse, ma ne traccia i parametri etici ed ideologici. Ciò comporta una certa indefinita genericità per un verso, ma anche un idealismo astratto che non sarebbe agevole ricondurre al contenzioso.

Nel punto 2, ad esempio, si sancisce che "nessun colono rimarrà nello Stato Palestinese", e si tace su eventuali scambi di popolazione concordati, o sulla presenza di cittadini dello Stato di Palestina all'interno di Israele.

Delle due cartine che corredano il testo una, punteggiata fittamente, è intitolata "Villaggi palestinesi smantellati i cui abitanti sono stati deportati nel 1948 e nel 1967", con un richiamo alle tesi più discutibili su quanto avvenne durante e dopo quelle due guerre.



Venti pagine sulle cento del dossier sono dedicate al corposo "Verità contro verità: Gush Shalom, 101 tesi per chiudere il conflitto" che pretende di contrapporre le due verità, palestinese ed israeliana, sulla natura e la storia del conflitto, allo scopo dichiarato di trovare una concordanza che le rielabori nel tentativo di assumere una verità unica a base della futura convivenza. Purtroppo questa lodevolissima intenzione è inficiata da una posizione israeliana che almeno in parte accetta di fare un'autocritica dolorosa e non sempre corrispondente alla realtà dei fatti storici, a fronte di una posizione palestinese che non fa autocritica e non ammette torti propri o colpe del mondo arabo nei confronti dei palestinesi.

Questa sostanziale unilateralità emerge in alcuni passi, ma è sempre avvertibile nel sottofondo.

Al punto 15 del capitolo dedicato alle radici del conflitto si afferma che alla fine del XIX secolo viveva in Palestina "mezzo milione di persone, il 90% dei quali erano arabi. Questa popolazione fu contraria, naturalmente, alla incursione dei coloni stranieri nella propria terra". Si noti la scelta delle parole: incursione, coloni stranieri. Ugualmente significativa è la scelta delle parole al punto successivo: "Un movimento arabo-palestinese autonomo si sviluppò nel paese dopo la creazione,da parte degli inglesi, di uno stato separato chiamato "Palestina", e nel corso della lotta contro l'infiltrazione sionista". Queste non sono le tesi della parte palestinese, sono "verità" affermate come tali dal documento. Ma verità non sono, per chiunque abbia studiato i fatti di quel periodo: le "incursioni dei coloni stranieri" consistettero nella vendita a filantropi ebrei occidentali di terre incolte da parte dei latifondisti arabi che le possedevano e che le avevano popolate di fellahin palestinesi, e questi ultimi furono lieti di poter vedere come grazie alle cure dei "coloni stranieri" esse fiorissero e dessero lavoro a tutti loro.Gli inglesi non "crearono uno stato separato chiamato Palestina", ma dopo la dissoluzione dell' Impero Ottomano, unitamente ai francesi e col consenso della Società delle Nazioni, si spartirono quelle terre. Il nazionalismo arabo-palestinese si affermò solamente alla fine degli anni Venti, dopo che gli inglesi avevano creato il regno di Transgiordania ritagliandolo dalla Palestina storica (che singolarmente non viene mai computato come facente parte della Palestina storica nelle analisi che spartiscono il territorio in percentuali, tanto agli israeliani e tanto ai palestinesi).Fu solo allora che l'opposizione alla presenza inglese ed ebraica divenne corale e violenta, mai però collegata all'idea di una patria palestinese territorialmente distinta dal resto degli stati arabi.

Al punto 21 si addita la "lunga oppressione coloniale" della Palestina, trascurando il fatto che essa durò in tutto meno di 30 anni e fu meno oppressiva di quella esercitata altrove, e la si mette a confronto con "la memoria di un passato glorioso, i tempi dei Califfi" - che palestinesi non erano di certo.

"Indipendenza e catastrofe" si intitola il capitolo dedicato alla percezione della nascita di Israele, in cui la parola "indipendenza", politica ed oggettiva, storicamente esatta, viene contrapposta a quella di "catastrofe" che è soggettiva dei palestinesi. Vi si critica al punto 31 il fatto che la Dichiarazione d'Indipendenza di Israele non definisca i confini dello stato, anche se a noi non risulta che questa sia una prassi abitualmente seguita nelle dichiarazioni di indipendenza, che sono di natura ideologico-politica. Ma al punto 35 si afferma, con il sussiego di chi possiede la verità, che "entrambi i fronti praticarono la pulizia etnica come parte integrante del metodo di lotta. Pressoché nessun arabo rimase nei territori catturati dagli ebrei e nessun ebreo rimase nei territori occupati dagli arabi": stravolgere la realtà, ignorare documenti, dimenticare dichiarazioni pubbliche e scritte, per concedersi alla controparte non è a nostro parere di grande aiuto per chi, da parte israeliana, afferma di voler cercare la verità.

Proseguiamo. Al punto 39 si afferma che - contrariamente a quanto fece Israele - in una guerra convenzionale ai rifugiati si consente "abitualmente" di tornare alle loro case. Crediamo che tedeschi, polacchi, alsaziani, cecoslovacchi e chissà quanti altri abitanti di terre contese avrebbero qualcosa da ridire in proposito.

La dose viene rincarata nel capitolo intitolato "Uno stato ebreo". Al punto 42 vi si afferma che Israele ha "perseguito una energica politica di cancellazione dell'entità nazionale palestinese dopo la guerra del 1948, e che "con l' aiuto di Israele il sovrano giordano Abdullah ha assunto il controllo sulla Cisgiordania", che invece nella realtà storica e non virtuale degli estensori di questo documento fu annessa alla Transgiordania con decisione unilaterale sostenuta dalla Gran Bretagna.

La Guerra dei Sei giorni del giugno 1967 è un altro dei miti da demolire, per gli autori di questo mal riuscito esercizio di armonizzazione delle percezioni e dei ricordi. Non è vero che solo dopo quella guerra ed in conseguenza del suo esito Israele - anzi "la pacifica e progressista Israele" come scrivono - sia divenuto uno stato occupante."In questa leggenda non c'è niente di vero", scrivono al punto 47. Ma come non potrebbe pensarla così chi poi, al punto 55, afferma come verità che prima del 1967 "i palestinesi hanno (solamente) fatto ricorso a diversi metodi di resistenza, in particolare a incursioni"?

Nuovamente, e vi scorgiamo la mano di Uri Avnery, al punto 68 si stigmatizza Shimon Peres, "molto più condannabile" in quanto nella realtà egli non è altro che "un falco sionista tradizionale", che ha gestito in prima persona un "sanguinoso periodo". Ugualmente Barak ha commesso una "evidente assurdità" quando a Camp David nel 2000 ha preteso che Arafat dichiarasse che l' accettazione di quelle offerte "costituiva la fine del conflitto". I palestinesi avevano già fatto "il massimo delle concessioni" lasciando ad Israele "il 78% dei loro territori", e comunque oltre a ciò non potevano rinunciare "al ritorno in Israele degli esuli". Anche se questa è semplicemente la percezione da parte palestinese di quegli eventi, va detto che non vi è traccia nel testo di una contrapposta percezione israeliana senza che essa sia classificata come irreale e priva di fondamento.

L'intifada scoppiata nel 2000 dopo la rottura di Camp David fu una "inevitabile fase di scontri violenti", benché agli israeliani essa venga presentata ed "appaia", per ordine del governo, come un crimine contro dei civili (punti 74-75).Il fatto che i movimenti pacifisti israeliani siano collassati a seguito di questi "scontri violenti" è la prova di quanto il "radicamento debole di molte delle loro convinzioni" fosse fasullo (punto 76) - non certo di quanto la sistematica uccisione di civili abbia svuotato il desiderio di pace degli israeliani.

Le cifre dei morti (punto 78) sono quelle propinate dalla propaganda palestinese, che non opera all'interno di esse alcuna distinzione sul "come" essi siano morti, ed i terroristi uccisi da Israele erano "militanti". Certo, "l'arma più efficace e più potente (unica aggettivazione usata per definirla) è rappresentata dagli attentati suicidi che hanno portato il sanguinoso confronto nel cuore delle città israeliane" (senza menzione delle vittime di questa potente ed efficace arma); ma vi è stato anche (punto 86) "l'attacco generale del governo di Sharon e dei vertici delle forze armate contro la popolazione dei territori occupati" che in qualche modo giustifica "i micidiali attacchi palestinesi all'interno di Israele" (portati contro chi? Il documento ne tace).

Gli ultimi 12 punti del documento presentano ai lettori il nuovo Movimento per la Pace, che "deve essere fondato sulla comprensione che il conflitto è uno scontro fra il movimento sionista-israeliano, spinto dal proprio codice genetico alla conquista della totalità del paese con l' espulsione della popolazione non ebrea, ed il Movimento nazionale palestinese (che merita l'iniziale maiuscola non concessa al sionismo) mosso ...a creare uno Stato palestinese sulla totalità del paese".

Con questa citazione, da incorniciare a futura memoria, concludiamo l'analisi di questo documento che si autoproclama oggettivo, pacifista e desideroso di armonizzare le due contrapposte percezioni di un secolo di storia comune, ma che nella realtà, dinanzi ai momenti più delicati di questa storia, sposa la sola tesi arabo-palestinese.



L'ultimo documento del ponderoso dossier è un "Manifesto per la cultura e la democrazia" firmato da alcuni personaggi della cultura palestinese. Le sue parole iniziali sono: "La Palestina è il cuore del mondo arabo".Un ottimo inizio per tendere la mano agli israeliani, non c'è che dire! La Palestina che essi auspicano si manifesterebbe in un progetto "che si estende senza limiti per poter includere tutti coloro che sono stati privati del proprio diritto di appartenenza in seguito a processi di occupazione, annessione ed espulsione", e dovrà bandire "qualsiasi discriminazione etnica o religiosa": in altri termini, essi perseguono la mondializzazione del problema palestinese.

Il progetto mira alla lotta "per restituire al popolo palestinese i diritti legittimi dei quali è stato privato", riaffermando che "la nostra appartenenza culturale e politica, come palestinesi, è all'interno del mondo arabo", all'interno del quale si dovranno introdurre "la libertà e l' uguaglianza contro tutte le forme di oppressione, sfruttamento, arretratezza, dittatura e fanatismo religioso e/o nazionalistico". Buona fortuna!



Chi ha avuto la pazienza di leggere l'analisi di così numerose citazioni comprenderà certamente su quali considerazioni sia fondata l' affermazione iniziale che accusa il dossier di unilateralità e di mancanza di quella oggettività che esso invece sbandiera nei suoi presupposti. Esso fornisce ai lettori un ponderoso materiale su cui riflettere, ma non quel che promette, una visione equilibrata. L'idea che si evince da una semplice lettura dei saggi e dei documenti è che Israele abbia torto marcio, che tutti i governi israeliani abbiano sempre agito in malafede, che i fondamenti stessi dello stato siano marci a causa delle sopraffazioni imposte dai sionisti ai palestinesi; ciò avviene perché le tesi a difesa di Israele presumono di non aver bisogno di essere documentate, mentre le accuse di parte palestinese vengono esposte con cura e senza cenno di valutazione critica.

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