Sull’Unità di lunedì 21 marzo 2005 Umberto de Giovannangeli propone uno spaccato di vita della società libanese vista attraverso gli occhi dei giovani; da una parte vi sono i giovani della Beirut bene che manifestano per l’indipendenza del proprio paese e per le libertà democratiche, dall’altra vi sono i giovani "militanti" di Hezbollah con il loro rifiuto della modernità e della società occidentale in chiave islamica. Al di là delle pure considerazioni sociologiche, che nell’articolo di Udg a tratti ricordano la dialettica marxiana dello scontro tra classi, la situazione libanese viene analizzata attraverso la lente distorta del relativismo culturale estremizzato in nome del quale ogni posizione viene giustificata, compresa quella terrorista e liberticida di Hezbollah. In questo modo, i manifestanti della Piazza dei martiri e i loro sogni di un Libano migliore sono posti sullo stesso piano di chi, in nome dell’oscurantismo religioso, non accetta la diversità dell’altro.
Di seguito l’articolo.DALL'INVIATO BEIRUT La «Gucci revolution» contro l'«orgoglio del chador». I giovani di Piazza dei Martiri e quelli che ritrovi a qualche chilometro di distanza nella periferia meridionale di Beirut, dominio di Hezbollah. I due volti del Libano si riflettono anche in comportamenti, look, modi di vita, gusti musicali che mai come in questi mesi appaiono distanti anni luce, tra loro inconciliabili. La stagione degli attentati, tre autobomba in sei mesi, ha solo in parte diradato la presenza giovanile nei caffè di Hamra, Achrafiye, Rue Monot, divenuti il ritrovo informale dei giovani protagonisti della «primavera di Beirut».
Con alcuni di loro passiamo una serata insieme, per capire meglio aspirazioni, ideali e soprattutto concezione di vita di una generazione che sente con orgoglio di fare la storia del proprio Paese. Samir, Fares, Pierre, Roula sono compagni di studi all'Università americana di Beirut (l'Aib), fondata nel 1866 da un missionario protestante americano, Daniel Bliss. L'appuntamento è all'Hard Rock Cafe, ipermoderno punto di ritrovo dei giovani della classe media di Beirut. Il locale è affollatissimo, la musica assordante, gli hamburger molto costosi e poco commestibili. È stata Roula, 21 anni, a decidere di incontrarci qui. Trascorrere qualche ora in questo posto serve molto più di tante dissertazioni sociologiche per capire lo spirito della «Gucci revolution». I ragazzi dell'Hard Rock Cafe rivendicano il loro essere «100% libanesi», ma il loro Libano è parte dell'Europa, un po' newyorkese, di certo ha poco a che vedere con il contesto mediorientale. «Certo - dice Samir - ci piace la musica rock, amiamo vestire bene, ma questo non contrasta affatto con il desiderio di vivere e lavorare in un Paese che sentiamo nostro». «Fino a pochi mesi fa - l'interrompe Fares - i discorsi più in voga nel mio corso universitario riguardavano dove avremmo voluto emigrare. Poi è scoppiata la "rivoluzione" e tutti noi abbiamo capito che il nostro futuro è qui, e che lottare per un Libano democratico, indipendente, è il modo migliore per evitare che tanti ragazzi abbandonino il Paese». Pierre è stato uno dei primi a «occupare» Piazza dei Martiri. «All'inizio - racconta - avevamo piantato due tende, pensavamo a un gesto simbolico, poi però la piazza si è trasformata in una immensa tendopoli ed è divenuta uno straordinario luogo di socializzazione». Fares è sunnita, Roula e Pierre cristiano maroniti, Samir si professa «moderatamente ateo». «La forza di questo movimento - ripetono - è di aver rotto vecchie logiche di appartenenza etnica o religiosa e di cercare di realizzare una democrazia non confessionale». Una tesi sostenuta anche da Denise Ammoun, storica e giornalista indipendente: «L'opposizione - osserva - è pluralistica, ma solidale e non è scoraggiata: i suoi membri hanno uno scopo comune, la fine del regime mandatario siriano e il ritiro delle truppe di Damasco, dopo le elezioni si vedrà».
Ma a unire i ragazzi della «primavera di Beirut» non è solo il riconoscersi nei colori bianco-rossi, quelli della bandiera nazionale; a unirli è anche l'appartenere comunque a classi sociali medio-alte, l'essere acculturati, il guardare i programmi di Mtv piuttosto che sintonizzarsi su Al-Manar, la Tv satellitare di Hezbollah. Amano la libertà e cercano il successo: anche per questo Rafik Hariri, l'ex premier ucciso nella strage di San Valentino, è il loro modello: miliardario, ma proveniente da una modesta famiglia di Sidone, e paladino dell'affrancamento del Libano dall'occupazione siriana. Per i ragazzi dell'Hard Rock Cafe Hariri incarna il «sogno americano» in chiave libanese. Chiedo a Roula se ha superato qualche volta la «frontiera» che separa il Distretto centrale di Beirut, cuore pulsante della città, dalla periferia meridionale, popolata dalla moltitudine sciita, la zona dove si trovano i campi palestinesi di Sabra-Chatila e Burj al-Barajnah. Roula arrossisce e poi confessa: «No, non ci sono mai stata, non è tanto per paura ma perché non mi sentirei nel mio mondo…». Il «mondo di Roula» è quello europeizzante, con le ragazze in jeans attillati e magliette sopra l'ombelico. È la musica di Eminem o degli U2, è l'attenzione all'ultima moda. Soprattutto, è una gerarchia delle aspettative che, soprattutto tra le ragazze, rompe con la concezione patriarcale della società ancora fortemente radicata nel mondo arabo: «Sì, forse un giorno potrei sposarmi e avere dei bambini, ma ora voglio finire gli studi, realizzarmi nel lavoro e, perché no, impegnarmi in politica», afferma decisa Roula. La musica diviene assordante, è ormai passata la mezzanotte e Pierre ricorda ai suoi compagni che è ora di «tornare alle tende», perché è il loro turno di presenza in Piazza dei Martiri.
Il «mondo di Roula» dista solo qualche chilometro da quello di Hassan, ma in realtà la distanza, culturale, identitaria, di stili di vita, è abissale. I «due mondi» possono ambire alla reciproca tolleranza, ma mai all'integrazione. Hassan, 23 anni, è sciita. La sua famiglia è composta da nove persone e lui è il fortunato tra i sette fratelli, perché lavora come tecnico delle luci ad Al-Manar. Hassan ci accompagna nella visita dell'«orgoglio mediatico» di Hezbollah. Tra i modesti edifici del quartiere, c'è una palazzina più bassa delle altre che passa inosservata. L'unico segnale della sua importanza è rappresentato da quattro guardie in tenuta mimetica armate di kalashnikov e radio trasmittenti, che stazionano all'ingresso di un piccolo vicolo cieco. La perquisizione è minuziosa, poi finalmente entriamo. Se si eccettua l'ampiezza degli spazi, ovviamente più angusti, tutto il resto è quello che ogni stazione del mondo presenta. Apparecchiature, lettori betacam, monitor, telecamere, cassette ovunque, e nei corridoi che costeggiano le sale di montaggio c'è il solito convulso via vai di producers, giornalisti, tecnici al lavoro. Sembra il regno della modernità. E lo è nella strumentazione. Ma non nel messaggio. Perché il mondo di cui Hassan si sente parte non incrocia mai, se non per esprimere diffidenza e ostilità, quello dei ragazzi della «Gucci revolution».
Hassan sa dell'esistenza dell'Hard Rock Cafe che lui definisce senza mezzi termini «un luogo di perdizione». Hassan ha tre sorelle più piccole, che adora, ma non esiterebbe un solo istante a ripudiarle se decidessero di rinunciare al chador e di «prostituire il proprio corpo e la propria anima come quelle di Hamra». Se per Roula un look spinto è anche espressione di libertà, per Hassan è provocazione, osceno esibizionismo, è rinnegare l'Islam. Se parli di politica, della necessità di sviluppare un dialogo interlibanese che eviti una nuova ondata di violenza, spingendoti anche a giustificare la richiesta dell'opposizione di un ritiro totale delle armate siriane, se parli bene di Hariri (ieri per la prima volta la gente hezbollah ha reso omaggio alla tomba dell'ex premier in Piazza dei Martiri) Hassan riconosce la controparte, ma quando il discorso torna sugli stili di vita, sull'idea di famiglia, di relazione tra i sessi, i due «mondi» tornano a contrapporsi. «Parlano bene "quelli" - incalza Hassan - abituati alla bella vita e a comandare. Se fosse stato per loro noi sciiti saremmo rimasti dei paria, da tenere ai margini. Invece abbiamo dimostrato di essere una forza compatta, decisa, con cui occorre fare i conti».
Orgoglio e riscatto in chiave islamica: sono i sentimenti che tocchi con mano parlando con gli amici di Hassan. L'incontro avviene in una «ahweh» (caffetteria) piena di ritratti di Nasrallah e impregnata di fumo e degli effluvi dolciastri dei narghilé. «Se ho potuto studiare lo devo allo sceicco Nasrallah (il leader del "Partito di Dio", ndr.) e con Hezbollah ho riscoperto l'orgoglio di sentirmi sciita», ci dice Issam, 25 anni, primogenito di una famiglia di otto figli. «Sì - gli fa eco Khalil, 22 anni - Hezbollah rappresenta il nostro riscatto sociale e l'orgoglio nazionale per essere gli unici ad aver inferto una lezione a Israele". Di donne, nemmeno l'ombra. «Questo non è un posto per loro», s'inalbera Issam. Qui a trionfare è l'«Hezbollah generation», con le sue certezze, i propri miti - gli «shahid» i martiri della jihad - la diffidenza verso tutto ciò che è «Occidente». Anche quando l'«Occidente» è una ragazza in minigonna, stesso passaporto - libanese - ma mondi opposti.
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