"La democrazia non si esporta e non si impone con le armi. Condivide però l’idea che essa sia un valore universale al di là delle convinzioni religiose e delle particolarità locali? In che modo ciò vale per l’Iran?".
Questa è la domanda con la quale Gabriel Bertinetto chiude la sua intervista all'ambasciatore dell'Iran in Italia, pubblicata pagina 6 dall'UNITA' di martedì 15 marzo 2005.
Il suo interlocutore coglie ovviamente l'occasione per magnificare la "democrazia" in versione islamista in vigore nella Repubblica islamica.
Le domande precedenti avevano del resto consentito altre apologie propagandistiche del regime teocratico e un'attacco a Israele. Inevitabile, se si chiede al rappresentante di una spietata dittatura terrorista e antisemita "Come vi difendete dall'accusa di sostenere gruppi terroristi?" o "Come giudica l'ultimo Sharon?" e non si fa poi il minimo commento critico alle sue risposte.
Ecco l'articolo, "Bush non può decidere il destino dell'Iran" ( e neppure gli iraniani, secondo il governo che l'ambasciatore rappresenta)«È infantile offrire un gazebo a chi progetta di costruire un grattacielo». Con questa immagine l’ambasciatore iraniano in Italia Bahram Ghassemi, 49 anni, minimizza la doppia rimozione di veti (all’ingresso di Teheran nel Wto ed alla fornitura di parti di ricambio per la sua aviazione) che gli Usa presentano come contributo ad una soluzione del contenzioso sul programma nucleare della Repubblica islamica. Meno diplomatico Sirus Naseri, capo della delegazione iraniana ai negoziati con la trojka europea, invitava ieri Washington a «buttare quelle proposte nella spazzatura». In una lunga intervista all’Unità, l’ambasciatore insiste più volte sul carattere pacifico del programma atomico del suo Paese, ed esorta a considerare con più attenzione il ruolo stabilizzatore della politica estera iraniana nella regione.
Signor Ghassemi, il suo governo liquida come irrilevanti le recenti offerte americane. Ma il dialogo non può nascere anche da concessioni minime, simboliche?
«Sì, da poche parole e piccoli passi a volte inizia la costruzione di opere importanti. Ma ciò che più conta è l’atmosfera in cui le parti si incontrano, senza dimenticare la sincerità delle intenzioni. Ora ci si può chiedere se esista un clima di fiducia e se gli argomenti usati siano veri o pretesi. Oggi questa fiducia manca, e dubitiamo della buona volontà della controparte. Qualche volta penso che intorno al nostro programma nucleare si stia orchestrando una grande finzione. Sorvolo sull’invasione irachena dell’Iran con l’appoggio diretto e indiretto di Usa, Russia, Europa, sino alla fornitura di armi chimiche poi usate contro di noi. Mi soffermo sull’esperienza dell’attacco all’Iraq con il pretesto di armi di sterminio mai trovate. Evidentemente forse gli scopi erano diversi. Il ché mi induce a dubitare della buona fede Usa verso di noi. Ricordo che l’Iran ha aderito al trattato di non proliferazione nucleare, ha firmato il protocollo aggiuntivo a quel trattato, ed ha accolto numerose ispezioni dell’Aiea, dalle quali non è risultata alcuna rilevante nostra violazione. Certo possono esserci punti da chiarire e ci sforziamo perchè ciò avvenga. Ma in quanto siamo un grande paese per il peso demografico, la posizione geografica, la rilevanza storica ed il ruolo che ci competerà in futuro, riteniamo nostro diritto avvalerci di tecnologie nucleari per perseguire finalità civili e pacifiche. Ripeto: ci siamo più volte dichiarati disponibili a fornire le garanzie richieste ed a fugare ogni preoccupazione. Ma non si può proporre un gazebo a chi sta costruendo un grattacielo. È infantile da parte americana offrire un contentino per ottenere da una grande nazione la rinuncia a un progetto giustificato dagli scenari energetici internazionali e da una popolazione di considerevoli dimensioni».
Perché non accogliete la formula suggerita dalla trojka europea (Francia, Germania, Inghilterra), e cioè l’abbandono dell’arricchimento dell’uranio che vi espone al sospetto di un utilizzo a scopi militari, in cambio della fornitura di tecnologie nucleari con applicazioni esclusivamente civili?
«Noi partecipiamo con le migliori intenzioni, attraverso una serie di commissioni, al dialogo con gli europei. Siamo pronti a offrire garanzie che servano a costruire la fiducia ed a rimuovere i dubbi. Ma davvero non vediamo ragione di lasciare l’arricchimento dell’uranio che noi svolgiamo per fini pacifici, per acquisire dall’esterno altre tecnologie con cui realizzare gli stessi scopi. Abbiamo proposto piuttosto agli europei di partecipare al nostro programma atomico e constatare direttamente in che modo esso vada avanti. Ecco perché certe argomentazioni, da parte statunitense, ci paiono strumentali. Purtroppo gli Usa perseguono una politica unilaterale e si perdono in illusioni di successo, mentre le cose stanno diversamente. Ad esempio in Afghanistan, che non è affatto un capitolo chiuso, o in Iraq dove permane l’incertezza. Fino a quando resteranno le truppe straniere? Fino a quando si manterrà questo stato di insicurezza? Perché voi e noi dobbiamo pagare il prezzo di errori altrui? Non si rende conto Bush che questa prolungata permanenza fomenterà sentimenti anti-americani dai quali non potrà certamente beneficiare?».
Al clima di fiducia di cui lei parla, non giova la ricorrente minaccia Usa di attacco militare all’Iran. Ma è utile il linguaggio aggressivo spesso usato dai vostri governanti nei loro confronti?
«Non siamo stati noi a cominciare. Noi proseguiamo per la nostra strada e non abbiamo commesso violazioni. E poi chi ha dato agli Usa la qualifica di capoclasse? C’è l’Onu, c’è l’Aiea, e le decisioni vanno prese sulla base dei rapporti dei loro ispettori. Non credo che nessun soggetto, se minacciato, se ne stia in silenzio. Alle minacce si risponde a tono. Ma guardiamo alla storia. Mai l’Iran figura come aggressore. Ci siamo solo difesi da attacchi esterni. Attirerei l’attenzione di chi imbastisce una campagna propagandistica contro di noi, sul ruolo che siamo svolgendo in rapporto all’Afghanistan, all’Iraq, all’Asia centrale, o per il transito del petrolio nello stretto di Hormuz. Un ruolo di mediatori. Siamo un’ancora di stabilità. Il nostro programma nucleare? L’inizio risale all’epoca dello shah, ma quel regime era subalterno agli Stati Uniti, e allora andava bene. Sottolineo un punto: le armi di sterminio non sono una garanzia di sicurezza né per noi né per i nostri vicini, e non sono affatto un elemento della politica della Repubblica islamica o della sua dottrina militare. Sappiamo quale sia la nostra posizione nel contesto regionale e sulla scena mondiale complessiva. Conosciamo la congiuntura internazionale, e la nostra sicurezza la cerchiamo altrove, non in quegli arsenali. Qualunque aggressione verso di noi non resterà senza risposta, ma ripeto che siamo contro la guerra, consideriamo la violenza controproducente per noi, per la regione, per il mondo».
Come vi difendete dall’accusa di sostenere gruppi terroristi, o di ingerenza negli affari di altri paesi, ad esempio il Libano dove appoggiate gli Hezbollah?
«Purtroppo molti concetti e termini del linguaggio politico internazionale risentono del punto di vista americano. Gli Hezbollah sono un’organizzazione ufficiale in Libano, con un largo appoggio popolare. Potremmo allora ritorcere sugli Usa l’accusa di avere sostenuto inizialmente i Talebani in Afghanistan. Più in generale trovo ingiusto attribuire all’Iran la responsabilità di qualunque evento nella regione mediorientale. Abbiamo avuto un approccio razionale alla questione irachena, per dare un contributo alla stabilità dell’intera regione. Ma da parte Usa vediamo solo l’unilaterale volontà di fare tutto da soli per il controllo esclusivo del pianeta. In Iraq hanno messo da parte la Ue, i paesi vicini, l’Onu. Vorrebbero continuare sulla stessa linea con noi e in tutto il medio oriente, salvaguardando solo gli interessi di Israele. A proposito, nessuno parla della capacità nucleare israeliana».
Poiché ha citato Israele, come giudica l’ultimo Sharon e le sue aperture ai palestinesi?
«Nel mio paese si dice che il passato illumina il futuro. E il passato di Sharon dice cose per le quali non condividiamo l’ottimismo che ispira la sua domanda. Gli eventi hanno dimostrato che avevamo ragione noi, quando alcuni anni fa in Europa si credeva che la pace in medio oriente fosse alle porte, e noi invitavano invece alla prudenza, dicevamo che non era così facile».
La democrazia non si esporta e non si impone con le armi. Condivide però l’idea che essa sia un valore universale al di là delle convinzioni religiose e delle particolarità locali? In che modo ciò vale per l’Iran?
«Certo la democrazia non si esporta. Non è acciaio, non è legno. È un concetto legato all’essere umano, si forma e si definisce all’interno della società in cui nasce e cresce. Come concetto astratto, posso convenire con ciò che lei dice. Ma le sue concrete manifestazioni sono ricche di sfumature, di affinità ma anche di diversità. Osservo che in qualche paese europeo, in nome della democrazia, si vieta il velo alle donne. In altri, e sempre nello stesso spirito, la legge non lo proibisce. Quanto all’Iran, il nostro cammino democratico, iniziato quasi cent’anni fa, fu non solo rallentato ma in qualche passaggio della nostra storia bloccato dalle stesse grandi potenze che oggi proclamano ovunque il principio democratico. Pensiamo al rovesciamento di Mossadeq nel 1953. La vittoria della rivoluzione islamica nel 1979 coincise con la richiesta di libertà e democrazia della popolazione. Seguirono anni difficili, il timore di colpi di Stato, l’invasione irachena, la necessità della ricostruzione economica. Nel giugno 1997 l’elezione di Khatami alla presidenza della Repubblica diede nuovo impulso all’intinerario democratico. Che segue un percorso tortuoso lungo il quale si cade, ci si rialza, si continua. Il nostro viaggio non è terminato. Stiamo impiegando troppo tempo? Non importa, pazientemente proseguiamo, da soli, senza imposizioni. E vogliamo proseguire con la pace intorno a noi. Consapevoli che comunque già siamo il più libero, democratico e indipendente paese della regione».
Sempre a pagina 6 troviamo un articolo su Israele "I liceali israeliani dicono a Sharon: non faremo i soldati", che riportiamo:
TEL AVIV Duecentocinquanta liceali israeliani sfidano Ariel Sharon. Ormai prossimi all'arruolamento, gli studenti con una lettera aperta al premier israeliano e ad altri dirigenti del Paese hanno annunciato che che si rifiuteranno di indossare la divisa dell'esercito perché contrari alla oppressione dei palestinesi. «Ci rivolgiamo a tutti i giovani che stanno per fare il servizio militare, e ai soldati già nell'esercito, perché riconsiderino la messa in pericolo delle loro vite e la partecipazione ad una politica di occupazione e oppressione»- scrivono gli studenti, secondo i quali «l'attuale politica non dipende da necessità di sicurezza, ma da una visione del mondo nazionalista e messianica».
I ragazzi «refusniks» (renitenti) hanno aggiunto di aver a cuore la sorte della democrazia israeliana che, a loro avviso, è minacciata per le ripercussioni negative della prolungata occupazione militare in Cisgiordania e a Gaza, assicurando però di amare il loro Paese e di essere pronti a svolgere un servizio civile in sostituzione dei tre anni di leva obbligatoria.
«Fra una settimana mi presenterò al Centro raccolta reclute (Bakum) di Tel Aviv e chiederò di essere congedato», ha anticipato ieri Eyal Brami, un portavoce del gruppo. «Sono pronto anche ad andare in un carcere. Se questo è il prezzo che devo pagare per la giustizia e per cambiare il Paese, sono disposto a pagarlo».
L'iniziativa è nata tre mesi fa. Poi la lista dei firmatari si è gradualmente allungata grazie alle comunicazioni internet. «Fra quanti hanno aderito alla protesta - spiega Brami - vi sono molti giovani di Tel Aviv, mentre altri vivono in località periferiche. Grosso modo, siamo metà maschi e metà femmine».
Il giornale principale di Israele, Yediot Ahronot, ha dedicato grande attenzione alla vicenda che giunge mentre le forze armate israeliane devono confrontarsi anche con la disobbedienza di militari di destra, che per motivi di coscienza si rifiutano di sgomberare colonie ebraiche nei Territori. Secondo il giornale, la stessa sinistra israeliana ritiene «uno sbaglio tattico» la lettera dei 250 liceali. Più sfumata la posizione del vicepremier Shimon Peres, leader del partito laburista. «Sul piano dei valori, hanno commesso un errore», ha rilevato. «Eppure non si può disconoscere che si tratta di giovani impegnati, che pensano col loro cervello e che hanno a cuore il futuro di Israele».
Peres ritiene che alla prova dei fatti, la maggior parte di loro in definitiva indosseranno la divisa. Brami tuttavia respinge le critiche. «Forse il nostro atto può sembrare non democratico», ammette. «Eppure la nostra è una lotta per difendere lo spirito democratico di Israele. Non penso che quanti vanno nei Territori ed obbediscono ciecamente agli ordini fanno un servizio migliore al loro Paese». Ma la disobbedienza della sinistra non è apparentabile con quella della destra? «Assolutamente no», si indigna il liceale. «I soldati di destra rifiutano gli ordini per difendere le colonie. Loro non lottano per la democrazia, ma per il nazionalismo».
In poche ore, via internet, è stata prodotta un seconda lettera, sottoscritta questa volta da liceali religiosi. Questi stabiliscono che «non esiste al mondo un esercito altrettanto morale che Zahal» ossia le forze armate israeliane. Rilevano poi che «la offensiva del terrorismo omicida è stata imposta ad Israele dai palestinesi» e dunque l'esercito ha il diritto e il dovere di difendere i civili israeliani. «Saremo fieri di indossare la divisa - concludono i liceali religiosi - anche per combattere l'atmosfera di demoralizzazione che la sinistra vorrebbe diffondere in Israele». Il presidente israeliano Moshe Katzav ha reagito dicendosi convinto che col tempo questi giovani cambieranno questo «atteggiamento sbagliato». «Qualcosa è andato storto nel processo di formazione della generazione più giovane»- ha dichiarato- «l'errore può essere corretto, non è irreversibile».
Accostati, i due articoli inducono a una riflessione. Per il rifiuto di prestare servizio militare i giovani israeliani rischiano qualche mese di carcere. Per le loro critiche al governo, ovviamente, nulla.
Che cosa accadrebbe a giovani iraniani che si comportassero come loro?
Israele resta la migliore confutazione delle tesi di chi propugna democrazie "adattate" al contesto mediorientale. La democrazia rispetta il dissenso, come fa Israele, oppure non è tale.
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