Ora L'Unità scrive su Arafat quello che non scriveva quando era vivo e potente
ma continua a disinformare su Israele e sul Medio Oriente
Testata:
Data: 14/03/2005
Pagina: 10
Autore: un giornalista - la redazione - Roberto Rezza
Titolo: Ramallah, caccia alla «borsa del tesoro» di Arafat - 250 liceali scrivono a Sharon: Non ci arruoliamo, l'occupazione è immorale - Saccheggiati gli impianti nucleari di Saddam
L'UNITA' di lunedì 14 marzo 2005 pubblica a pagina 10 il breve, ma esauriente articolo: "Ramallah, caccia alla «borsa del tesoro» di Arafat".
Peccato che della corruzione di Arafat, ampiamente nota anche allora, L'UNITA'non scrivesse quando il raìs era ancora in vita (se non, in parte, nell'ultimo periodo del suo "regno", quando anche i palestinesi iniziavano a parlarne apertamante)

Ecco l'articolo:

RAMALLAH Non si riesce più a trovare una borsa contenente un ingente quantitativo di banconote statunitensi che il presidente palestinese Yasser Arafat aveva con sè quando è partito per essere ricoverato a Parigi, nell'ottobre scorso. Quando la salma del dirigente palestinese rientrò a Ramallah - scriveva ieri il quotidiano israeliano Jerusalem Post - della borsa non c'era più traccia. Il giornale cita informazioni raccolte da Hafez Barghuti, il direttore del quotidiano palestinese al-Hayat al-Jadida. Ma i lettori di quel giornale, una notizia del genere non l'hanno mai letta. Dettagliatamente citato dal Jerusalem Post, Barghuti ha preferito invece non divulgarla di persona, almeno per ora. Nella Muqata, l'ex-quartier generale di Arafat, non ci sono conferme dirette, anche se l'esistenza della famosa borsa era ben nota a Ramallah. Solo pochi mesi fa un ex collaboratore di Arafat, Jawid al-Ghussein (74 anni), ha descritto ad un giornale britannico il piacere evidente che il leader palestinese provava nell'affondare le mani tra le mazzette di banconote per distribuirle ai suoi collaboratori. Fino alla fine degli anni Novanta al-Ghussein (allora direttore del Fondo nazionale palestinese) versava ad Arafat un assegno mensile di 10 milioni di dollari. Il presidente, ha ricordato, «faceva il pieno di contanti» tutti i giorni.
L'UNITA' on-line è, in quanto a ostilità e disinformazione anti-israeliane, una versione "extra" del quotidiano cartaceo.
Oggi propone, in home page, l'articolo "250 liceali scrivono a Sharon: Non ci arruoliamo, l'occupazione è immorale", a cura della redazione.
Partendo dalla notizia del titolo l'articolo si impegna a "dimostrare" che il governo Sharon non avrebbe nessuna intenzione di seguire la Road Map.
L'approvazione dello smantellamento di 24 avamposti illegali in Cisgiordania, infatti, servirebbe al governo soltanto a "far vedere di continuare il suo cammino lungo la Road map".
Seguono considerazioni sull'illegalità di tutte le colonie secondo "la Convenzione di Ginevra" (che in realtà ammette, se compiuto per motivi di sicurezza, l'insediamento di civili in territori contesi) "e la comunità internazionale" e sul fatto che con lo smantellamento dei 24 avamposti verrano trasferiti soltanto alcune centinaia di coloni della Cisgiordania, su un totale di 230.000 (il che non comporta affatto un disimpegno dalla Road map, che non richiede uno smantellamento immediato degli insediamenti e non esclude trattative sullo status definitivo di alcuni di essi).
Veniamo infine informati del fatto che "Ramallah, Betlemme, Qalqilya, Tulkarem e Gerico" sarebbero state occupate "dopo l'esplosione della nuova Intifada", non dopo un offensiva terroristica contro la popolazione civile israeliana.

Ecco l'articolo:

«La politica di occupazione militare è immorale e contrasta con i principi della democrazia. Non prenderemo parte a questa politica illegale». A scriverlo in una lettera recapitata lunedì al premier israeliano Ariel Sharon, sono 250 liceali israeliani che per questo gesto di rifiuto rischiano adesso lunghe pene detentive in un carcere militare o civile.

«La nostra coscienza e il nostro senso civico ci costringono a rifiutare l'arruolamento» aggiungono i firmatari della lettera, due dei quali dovranno presentarsi già la settimana prossima nel Centro raccolta reclute (Bakum) di Tel Aviv. La lettera dei liceali ha già avuto una ampia eco in Israele e si contrappone alla protesta di militari di destra contro lo sgombero di colonie nei Territori. Esponenti della sinistra israeliana si sono subito dissociati qualificandola «un errore politico, che fa il gioco della destra ». «La nostra protesta - ha replicato Eyal Brami, un portavoce dei liceali - rientra nel contesto degli ideali democratici, mentre la protesta dei militari di destra ha aspetti nazionalistici e anche razzisti».

È una tegola sul governo Sharon, che proprio in queste ore voleva far vedere di continuare il suo cammino lungo la Road map. L'esecutivo ha approvato lo smantellamento di 24 avamposti illegali eretti dai coloni in Cisgiordania dal marzo 2001. In tutto sono però soltanto 105 le colonie israeliane (illegali per la Convenzione di Ginevra e la comunità internazionale) individuate da una commissione speciale voluta dal governo. Sugli altri 81 a decidere sarà una commissione ministeriale che «entro 90 giorni» dovrà «esaminare i modi» per attuare le raccomandazioni contenute nel rapporto.

Entro agosto, le colonie a Gaza dovranno essere smantellate, e comunque entro dicembre 2005 non ci saranno più coloni isreliani nella Striscia. Le colonie di Gaza, ex territorio egiziano occupato durante la guerra dei sei giorni nel 1967, misurano complessivamente 54 chilometri quadrati sui 360 totali, dove attualmente, a fianco degli 8.000 israeliani, vivono 1,3 milioni di palestinesi.

In Cisgiordania invece, in un'area di 2.346 chilometri quadrati in cui vivono 2,3 milioni di palestinesi, gli insediamenti occupano una superficie di 380 chilometri quadrati con una popolazione di coloni di 230.000 persone. Il governo trasferirà quindi soltanto alcune centinaia di loro.

Per lunedì è previsto anche un incontro tra il ministro della difesa israeliano Shaul Mofaz ed il ministro dell'interno palestinese Nasser Yussuf per discutere l'attuazione degli accordi di Sharm el-Sheikh sul trasferimento della responsabilità della sicurezza nelle città di Ramallah, Betlemme, Qalqilya, Tulkarem e Gerico, occupate dall'esercito israeliane nel 2001, dopo l'esplosione della nuova Intifada.
Altro argomento sul quale L'UNITA' non lesina in disinformazione è l'Iraq. Esemplare un articolo sui furti negli impianti di ricerca nucleari iracheni dopo la caduta del regime.
La notizia può effettivamente richiedere una riflessione sulla negligenza della coalizione che ha liberato l'Iraq, ma non ha saputo imprdire i furti.
Nel contempo però dovrebbe indurre al dubbio sul "dogma" per cui non c'era un rischio connesso alle armi di distruzione di massa in possesso del regime iracheno o da esso progettate.
Roberto Rezza, autore dell'articolo "Saccheggiati gli impianti nucleari di Saddam" ne trae invece una conclusione del tutto particolare: "quel che è certo", scrive, è che gli Stati Uniti "hanno fatto di tutto" per dare una mano ai terroristi che volevano impadronirsi di armi nucleari.

Ricordiamo che il gruppo di al Zarqawi , legato ad al- Qaeda, operava in Iraq da prima della guerra.
E' sempre più evidente dunque che il rischio di un passaggio di tecnologia nucleare, chimica o biologica dal regime di Saddam Hussein al terrorismo jihadista esisteva davvero.

Ecco l'articolo:

NEW YORK Nessun servizio d'intelligence al mondo è stato sinora in grado di stabilire se in Medio Oriente qualche gruppo terroristico sia riuscito a mettere le mani su un ordigno atomico, magari rudimentale. Quel che è certo è che gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per dar loro una mano. Nelle settimane immediatamente successive alla caduta di Baghdad nell'aprile del 2003, tutti gli impianti di ricerca nucleari faticosamente mandati avanti dal regime di Saddam sono stati razziati sistematicamente da bande di saccheggiatori. Questo si legge nel primo rapporto prodotto dalle autorità irachene che hanno indagato sulla sparizione di apparecchiature e impianti in dotazione a strutture militari e civili.
Secondo le anticipazioni riportate domenica dal New York Times, a Baghdad il vice ministro dell'industria, Sami al-Araji, è convinto che sia entrato in azione un gruppo di persone molto preparate e organizzate, che sapeva esattamente cosa andare a cercare. Le modalità non son quelle da ladri che portan via l'orologio dal muro, sono piuttosto quelle del furto su commissione. «Sono arrivati con gru e montacarichi - spiega il vice ministro - sono andati a colpo sicuro». Il bottino ammonta a quasi tutto il materiale e la strumentazione che occorre per assemblare missili con testate chimiche, biologiche o nucleari. Tutto quello che i ladri hanno potuto trovare in otto dei dieci siti, praticamente dismessi, in cui il passato regime aveva fatto tentativi di riarmo.
Si tratta proprio degli impianti che l'amministrazione Bush faceva sventolare in fotografia sulla faccia dell'opinione pubblica americana per giustificare la guerra in Iraq. Degli impianti che costituivano «un pericolo grave e immediato» per la sicurezza del mondo intero, assicurava il segretario di Stato Colin Powell davanti all'assemblea generale delle Nazioni Unite. Ora si scopre che al momento dell'occupazione di quegli impianti non importava più niente a nessuno. All'arrivo delle truppe americane con gli inglesi al seguito la consegna era di mettere subito al sicuro gli impianti petroliferi e il relativo ministero. Davanti agli impianti che la Casa Bianca pensava nascondessero qualcosa agli ispettori dell'Onu, non fu mandata neppure una guardia.
Immagini riprese via satellite da due agenzie dell'Onu, Agenzia atomica internazionale e Unmovic (Monitoring, Verification and Inspection Commission), confermano il rapporto degli iracheni: nei siti sotto osservazione non c'è rimasto più nulla. A dire il vero è quasi un anno ormai che le due agenzie inviano alle Nazioni Unite regolari rapporti che evidenziano un'opera di costante smantellamento delle installazioni militari del passato regime iracheno. Situazione che non aveva mancato di denunciare neppure Charles Dueffler, quando era capo del team incaricato della ricerca delle famigerate armi di sterminio. Erano andati per scovare nuovi arsenali, hanno visto sparire quelli che c'erano.
Il governo iracheno sostiene di non avere idea chi potesse essere dietro ai saccheggiatori né in che mani siano finite merci tanto particolari. David Albright, una delle massime autorità in materia di armamenti nucleari, presidente dell'Institute for Science e International Security di Washington, sostiene che Siria e Iran facilmente sono i Paesi dove più hanno mercato quel tipo di apparecchiature che Saddam si era procurato a caro prezzo, quando segretamente negli anni '80 lavorava per costruirsi l'atomica.
Nessuno è stato in grado di fornire un inventario completo, ma si stima che siano andate smarrite 377 tonnellate di esplosivo, equipaggiamenti chimici, centrifughe e altri componenti per la produzione di uranio arricchito.
L'Agenzia atomica internazionale da Vienna ha più volte sollecitato le autorità irachene a fornire tutte le informazioni in loro possesso sulle disponibilità di materiale radioattivo, senza ottenere risposta. Mohamed E lBaradei, direttore dell'agenzia, ha definito la situazione grave sotto il profilo della proliferazione. Le Nazioni Unite hanno identificato in tutto 90 siti presi di mira dai saccheggiatori. Una raccomandazione del Consiglio di Sicurezza al precedente governo provvisorio iracheno per la sorveglianza degli impianti è caduto nel vuoto. Baghdad ora ammette come sono andate le cose.
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