Andreotti fa scuola: il terrorismo è colpa delle sue vittime
un strano dibattito nel quale tutti sono d'accordo
Testata:
Data: 08/03/2005
Pagina: 23
Autore: Francesca De Santis
Titolo: Terroristi si nasce o si diventa
Le dichiarazioni di Giulio Andreotti, pronunciate durante un convegno sulla perestrojka ( se fosse nato in un campo profughi libanese anche lui sarebbe diventato un terrorista) diventano oggetto, sull'UNITA' di martedì 8 marzo 2005 di un "dibattito" a più voci che coinvolge filosofi, psicoanalisti, scrittori e teatranti.

Abbiamo scritto "dibattito" tra virgolette perchè tutti gli interpellati sono sostanzialmente d'accordo nel ritenere fondate ed espressione di "buon senso" le parole del senatore a vita.
Nel complesso dunque, l'articolo, più che la registrazione di un dibattito, potrebbe essere definito un "monologo a più voci".

E dire che non sarebbero mancate le possibilità di sentire voci dissenzienti: per esempio quelle dei molti studiosi, dall'americano Scott Atran all'italiano Massimo Introvigne, che hanno indagato il fenomeno del terrrorismo con gli strumenti della sociologia e della psicologia e hanno negato la sua correlazione con la povertà.
Oppure quelle di chi, come l'israeliano Itamar Marcus, direttore del Palestinian Media Watch, o l'italiano Carlo Panella, ha documentato il ruolo della propaganda, rivolta soprattutto all'infanzia, nella formazione dei terroristi suicidi.
Oppure quelle di chi, come il regista francese Pierre Rehov o la giornalista italiana Fiamma Nirenstein, ha documentato come i campi profughi, in Libano come nei territori, siano mantenuti tali da chi vuole disporre dei loro abitanti come serbatoio di odio e di delegittimazione di Israele e siano dunque una conseguenza, non l'origine del problema.
Oppure quelle dei profughi ebrei dai paesi arabi, che non praticano certo il terrorismo contro i paesi che li hanno cacciati.
O quelle dei poveri del mondo che cercano di sopravvivere e non hanno nè il tempo nè la volontà di darsi al terrorismo.
O quella dei miliardari che si danno al terrorismo, come Osama Bin Laden. Non che L'UNITA' dovesse intervistarli. Bastava riportare i messaggi che lanciano al mondo.
Dove le loro motivazioni sono dichiarate, ed'è chiaro che non hanno nulla a che fare con la povertà o le difficili condizioni di vita di chicchessia.

Segnaliamo anche il titolo, che pone un'alternativa del tutto fuorviante: il problema infatti non è se "terroristi si nasce o si diventa", perchè nessuno pensa che il terrorismo sia inscritto nei codici genetici.
Piuttosto, la discussione verte sul COME si diventa terroristi. Se per i torti che si sarebbero subiti dalle società vittime del terrorismo o per l'influsso di ideologie che disumanizzano e demonizzano i gruppi ai quali le vittime appartengono.

Ecco l'articolo:

Profughi senza prospettive. Detestati, ignorati, visti come elementi di disturbo. Eppure disperati... Semplicemente «tragico» è l’aggettivo giusto per definire la situazione dei campi profughi del Libano, ma la stessa cosa si potrebbe dire anche per il Medio Oriente o per i Balcani o per alcune popolazioni dell’Africa di cui nessuno parla. Una lancia a loro favore, in questi giorni, l’ha spezzata il senatore a vita Giulio Andreotti, che durante il convegno torinese dedicato ai vent’anni della perestrojka ha detto: «Se fossi nato in un campo profughi del Libano, forse sarei diventato anch’io un terrorista».
Una frase inaccettabile o una provocazione? E, ancora, cosa significa oggi «diventare terroristi»? Siamo sicuri che la scelta derivi solo dalle decisioni del singolo, determinate da varie motivazioni, o esiste una «coltura» della follia suicida?
Scrittori, filosofi, storici, psicologi sono tutti d’accordo: l’affermazione di Giulio Andreotti esprime un’opinione diffusa che serve a puntare i riflettori sui problemi dei «disperati». «Si discute tanto di Libano, ad esempio, ma nessuno dice una parola per quelli che vivono da 50 anni nei campi dei rifugiati - dice Andreotti un una intervista di ieri su La Stampa - Mica poche decine di persone: da 300 a 500mila. Profughi senza prospettive». La frase pronunciata dal senatore a vita, secondo lo scrittore iracheno Younis Tawfik, è condivisa dal 90% degli arabi e da molti politici occidentali. «Prima nessuno osava esprimere una opinione del genere, mentre gli islamici in generale ora non hanno problemi ad ammettere che la pensano così - dice Tawfik -. Io personalmente non condivido quella frase ma è anche vero che il terrorismo oggi è l’unica arma che hanno i poveri. Loro ormai non hanno nulla da perdere nella vita. Non c’è altro modo per agire, per questo molti giovani scelgono di arruolarsi nell’esercito del terrore».
Non avere più nulla da perdere significa che il senso della vita sfugge, che la sofferenza è all’ordine del giorno è che ha superato di gran lunga la gioia di vivere... «Sono le terribili condizioni in cui una persona si trova a crescere che determinano certe scelte - aggiunge il filosofo Remo Bodei -. La mia impressione è che le parole di Andreotti siano spinte dal buon senso. La domanda da porsi è: se io fossi lì cosa sarei diventato? Bisogna mettersi nei loro panni e tener conto di certe esperienze senza per questo condividere il terrorismo che di sicuro non serve a modificare la situazione. Tra fame e violenza la manovalanza è disposta a tutto. Resta il fatto che certe condizioni, come quelle dei campi profughi, devono essere sanate».
Buon senso, dunque. Le parole di Andreotti, che durante il convegno hanno fatto rabbrividire l’immensa tavola rotonda che riuniva ex capi di stato, ministri, ambasciatori, filosofi, politologi, sono condivise anche da Massimo Cacciari: «Quello che dice Andreotti è evidente, non ci trovo nulla di provocatorio. Ingiustizia e ineguaglianza spingono verso certi gesti, a fare la guerra contro un nemico in disparità di mezzi». Secondo Moni Ovadia non tutti quelli che sono nei campi profughi scelgono di diventare terroristi, «ma di certo una vita disperata e isolata dal mondo può portare a scelte radicali». «È come dire se fossi nato nella periferia di Napoli sarei diventato camorrista... Ma Andreotti è una persona acuta, evidentemente voleva dire che la fame e la disperazione portano a degli eccessi, è un invito a riflettere non a sparare giudizi».
Ma cosa significa terrorismo? «A me fa venire in mente quello che anticamente era il destino - spiega il filosofo Sergio Givone -. Ma il destino non è più solo una necessità, dobbiamo farcene carico. E l’unico modo di farsi carico del destino è quello di darsi al terrorismo. Il che non significa giustificarlo. La tragicità di chi decide di diventare terrorista sta nel fatto che uno si fa carico di questa decisione. È una scelta disperata che distrugge se stessi e gli altri senza arrivare da nessuna parte». E di chi è la colpa? «La responsabilità è di chi sta dietro le quinte, perché il terrorista non è solo un belva che sbrana altre belve ma è un non-uomo che prende la decisione peggiore che poteva prendere. Non credo, quindi, che ci sia una predisposizione di certi uomini all’autodistruzione, ma che siano certe situazioni a influire sulla scelta di darsi al terrorismo». Che poi i media non si occupino di alcune popolazioni è un altro discorso...
«In fondo se Andreotti ha pronunciato quella frase è anche per dimostrare la sua sensibilità di fronte a certi problemi invisibili alla stampa» dice un altro filosofo, Roberto Esposito. «Eventi tragici che hanno toccato la famiglia, problemi di vivibilità complessiva... sono queste cose a scatenare il tutto. Non è vero, comunque, che tutti i terroristi sono musulmani, lo dimostra la storia, è sempre stata la sproporzione tra occupati e occupanti a determinare il terrorismo».
Immedesimarsi negli altri, comunque, aiuta senz’altro a comprendere certe decisioni. La pensa così Giulio Giorello (ancora un filosofo), che dice: «Mettersi nei panni altrui permette di capire perché gli oppressi scelgono la lotta armata. Naturalmente un conto è la lotta armata, altra cosa è colpire scientemente la popolazione. Terrorismo è un termine troppo generico, capisco chi si rivolge verso obiettivi militari, ma condanno tutti quelli che si scagliano contro i civili, quindi anche i bombardamenti su Dresda. I partigiani, per esempio, avevano un codice d’onore, non lottavano contro la popolazione...». In entrambi i casi, però, c’è la scelta precisa del singolo.
Ma trasformarsi in terrorista non è solo una semplice scelta presa quasi a tavolino, dietro c’è molto di più. Ce lo spiega lo psicoanalista Stefano Bolognini. «Esistono meccanismi dell’essere umano che sono di identificazione con le circostanze e ci sono altri meccanismi di identificazione con l’aggressore, ciò significa trasformare il passivo in attivo che serve a non sentire il senso di impotenza. Dunque, Andreotti con quella sua frase può applicare questo concetto sia ai campi profughi che a tutti i "traumatizzati" in genere, i quali diventano attivi dopo aver subito passivamente un trauma. E il terrorismo non nasce per caso. Di solito è il prodotto di un esperienza traumatica. Esiste una trasmissione "transgenerazionale" per cui una generazione successiva si porta dietro l’esperienza del trauma. Sarebbe utile elaborare il trauma, rivisitarlo a parole. Un tentativo in questo senso è stato fatto da alcune donne psicoterapeute di Bologna con le persone che hanno vissuto la guerra in Bosnia nel ’94. Hanno tracciato un "modello di elelaborazione" nel libro Traumi di guerra, che è stato pubblicato da Manni». Di traumi di guerra e di terrorismo si parlerà in un convegno che si svolgerà a fine luglio a Rio de Janerio.
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