Gli Stati Uniti, la libertà e la sicurezza del mondo
parlano Robert Kagan e Bill Kristol
Testata:
Data: 04/03/2005
Pagina: 15
Autore: Davide Frattini - Alberto Simoni
Titolo: il potere delle parole di Bush, come Reagan nell'89 - Tutti i fronti dell'America
A pagina 15 il CORRIERE DELLA SERA di venerdì 4 marzo 2005 pubblica un 'intervista di Davide Frattini a Robert Kagan.
Ecco l'articolo:

« Con Ronald Reagan abbiamo imparato che le parole contano, hanno un peso. Quando disse " mister Gorbaciov, butti giù questo muro", quando chiamò " impero del male" l'Unione Sovietica, impresse una spinta reale. Così se George W. Bush incalza per tre volte l'Egitto nei suoi discorsi, mette una grande pressione su Hosni Mubarak. E' il presidente degli Stati Uniti che parla. Ed ecco: per la prima volta vengono annunciate elezioni aperte a più candidati » .
Sul viso del corpulento Robert Kagan si apre il sorriso solido degli americani sempre a loro agio, anche in un pomeriggio nevoso all'estero. Saggista neoconservatore del Carnegie Endowment for International Peace ( i suoi articoli sono pubblicati da Weekly Standard , New Republic , Washington Post ), è in Italia invitato da Liberal per il convegno « Le nuove frontiere della libertà » — fino a domani — che celebra i dieci anni della rivista e della Fondazione animate da Ferdinando Adornato. Egitto, Iraq, Palestina, Libano. E' l'inizio di un 1989 per il mondo arabo? « I segni che vediamo sono straordinari. Siamo passati da una situazione di immobilità a una fase in cui le riforme sembrano possibili.
Tutti i dittatori della regione si sentono sotto assedio e dovranno fare delle concessioni » . I leader arabi saranno dei nuovi Mikhail Gorbaciov? « Gorbaciov avrebbe potuto intervenire militarmente, stroncare l'opposizione come fecero i cinesi a Tienanmen. Ma scelse di passare alla storia in un altro modo. Così credo farà Mubarak: se la volontà del popolo egiziano diventerà chiara, non userà la violenza. A questo punto, anche Bashar Assad non schiererà l'esercito per rimanere in Libano, lì per lui il gioco è finito. Invece all'interno, in Siria, potrebbe irrigidirsi » . Bush aveva insistito che con Yasser Arafat al potere non ci potevano essere progressi verso la pace. Dopo la morte del raìs palestinese, tutto sembra essersi rimesso in moto.
« Su questo punto è stato sicuramente vendicato. Gli europei hanno attaccato Bush perché non faceva pressioni su Israele e non considerava Arafat un interlocutore. Ora che i palestinesi hanno votato e hanno un nuovo presidente, ha senso spingere sugli israeliani: c'è un partner con il quale negoziare » . Angelo Panebianco ha scritto in un editoriale sul Corriere che Reagan venne definito « stupido cowboy » , « linciato in effigie sulle piazze europee » , ma « grazie al suo continuo gioco al rialzo portò l'Unione Sovietica all'implosione. E nessuno oggi può disconoscerne il valore » . Crede che fra dieci anni chi denigra Bush potrebbe ricredersi? « Gli esperti che consideravano un'utopia esportare la democrazia in Medio Oriente mi sembra debbano già rivedere le posizioni. Ancora una volta l'America sta dimostrando di essere una potenza rivoluzionaria. Gli europei preferiscono mantenere lo status quo, si innervosiscono se vedono troppi cambiamenti nell'aria. Come ho scritto sul Washington Post , Bush è tornato al cuore dei principi universali che hanno sempre forgiato la politica estera americana. " La più grande battaglia dell'epoca è tra libertà e despotismo", proclamò James Madison , il quarto presidente, nel 1823.
E gli americani, fin dai padri fondatori, hanno letto il mondo attraverso i termini di questa battaglia » . Lei è diventato famoso anche per lo slogan, « gli americani vengono da Marte e gli europei da Venere » . Nella nuova prefazione a Paradiso e potere ( Mondadori), ha scritto: « Per contrastare le minacce globali gli americani hanno bisogno della legittimità che solo l'Europa può dare » . Che cosa pensa dei viaggi diplomatici di Bush e di Condoleezza Rice? « Cercare di ristabilire l'armonia è stata la scelta giusta. La stampa europea ha attribuito la volontà di rappacificazione alla debolezza di Bush, alle difficoltà militari in Iraq. Credo invece che il presidente si senta ancora più forte e le sue aperture siano state per questo generose. Ma non mi sembra che Stati Uniti ed Europa stiano marciando con una sola strategia » . La Casa Bianca ha annunciato di voler appoggiare la via europea degli incentivi all'Iran perché rinunci al nucleare.
« L'amministrazione Usa non è pronta a colpire l'Iran. L'opzione militare è sempre l'ultima e Bush vuol prima dare un'opportunità alla diplomazia. Con gli europei dobbiamo essere d'accordo che se Teheran non rispetta gli accordi, dagli incentivi positivi si passa a quelli negativi: sanzioni, isolamento. E la possibilità di un intervento dev'essere sempre mantenuta viva » .
Da AVVENIRE riportiamo l'intervista di Alberto Simoni a Bill Kristol, "Tutti i fronti dell'America".
«Più simpatico e cordiale». L'asso nella manica che il presidente americano George W. Bush ha sfoderato davanti al leader francese Jacques Chirac e al cancelliere tedesco, Gerhard Schroder, è semplicemente la disponibilità. Prima di tutto ad ascoltare consigli e suggerimenti dagli alleati, quasi ex prima di sbarcare a Parigi e diventati qualche giorno dopo nuovamente "amici". Bill Kristol, direttore dell'influente settimanale neoconservatore Weekly Standard, non scomoda categorie politiche sopraffini né spiegazioni sofisticate per dipingere l'attuale quadro delle relazioni transatlantiche. A Roma dove è arrivato qualche giorno fa per partecipare al convegno sui dieci anni di liberal, Kristol riflette con Avvenire sullo stato delle relazioni atlantiche e sulla politica americana. Lo fa da una posizione di forza, essendo uno dei grandi sostenitori di Bush, al quale tuttavia dalle pagine della sua rivista non ha lesinato critiche per la gestione della guerra in Iraq, pietra dello scandalo nei rapporti fra Parigi e Washington.
Mr. Kristol, siamo veramente alla svolta nelle relazioni fra Usa e Europa, oppure è solo una questione di stile ?
«Lo stile è importante. Bush è stato molto "polite" (a modo, cordiale). Ha capito che tirare la corda e dare l'impressione di aver già deciso tutto non è l'atteggiamento appropriato. Si è reso conto che deve cambiare approccio».
Solo Bush allora è «un altro uomo»?
«Questo no, anche perché il capo della Casa Bianca davanti alla platea europea non ha mostrato cambiamenti nella sua politica. I temi sul tappeto restano quelli, la direzione che la Casa Bianca ha imposto al suo impegno internazionale non cambia se qualcuno arriccia il naso. Ma c'è modo e modo di presentare un'agenda agli alleati».
Sull'Iraq, prima del conflitto, non ci fu spazio per comporre le divergenze. Oggi quanto conta il capitolo-Baghdad sui rapporti bilaterali?
«Le elezioni del 30 gennaio sono state un punto di svolta. Anche per gli stessi europei e anche per t utti coloro che erano scettici sulla possibilità che l'Iraq andasse alle urne. Quella data resta però non solo decisiva per gli europei, ma per il mondo intero. È lo spartiacque. Certo la strada è ancora lunga ma il capitolo iracheno rientra nello stesso libro cui fanno parte le elezioni in Afghanistan e quelle in Palestina. Comunque un ulteriore elemento che spesso passa in secondo piano è che la collaborazione fra Usa e Ue ha contribuito a far sì che l'Ucraina decidesse il proprio destino. Ecco quanto successo a Kiev è la migliore dimostrazione che il dialogo fra le parti produce buoni frutti».
L'Iraq però resta ancora lontano dalla stabilità, per non parlare della pace. Quali le colpe da imputare agli Usa in questo?
«È stata una missione più difficile del previsto e parte della responsabilità è del Pentagono. Donald Rumsfeld ha sbagliato a non ascoltare i suggerimenti di quanti anche prima dell'inizio dell'invasione, gli avevano detto di utilizzare più truppe per controllare il territorio e prevenire rivolte».
Ue e Usa sembrano aver rafforzato il legame sul Medio Oriente. A parte l'appello congiunto Bush-Chirac alla Siria per il ritiro dal Libano, anche il nodo israelo-palestinese è meno incerto oggi.
«Sì e questa è una vittoria americana. Bush era stato duramente criticato nel primo mandato per come aveva condotto la vicenda, appoggiando Sharon e isolando Arafat, decretando il suo favore alla nascita di uno Stato palestinese purché privo di terroristi. Ora le stesse condizioni che Bush esigeva, Abu Mazen e Sharon cercano di seguirle. E sulla stessa lunghezza d'onda si sono sintonizzati gli europei».
Eppure ci sono dossier infuocati. Non crede che la partita Usa-Ue si giocherà su alcuni temi e non basterà a Bush essere "polite" e agli europei essere più accomodanti?
«La fine dell'embargo per la vendita di Bruxelles alla Cina di armi e tecnologia e il nucleare in Iran possono far saltare il banco».
Partiamo dall'Iran. Dove s'insidia il pericolo?
«Bush ha accettato il lavoro di mediazione degli Ue-3 (Gran Bretagna, Francia e Germania, ndr) ma gli europei devono mettere in conto e riconoscere che la loro attività diplomatica può fallire. E sulle conseguenze da applicare a Teheran già ora c'è dissenso».
Sulla Cina Chirac ha detto che la Ue annullerà l'embargo. L'America si oppone. Più lontani di così?
«L'Europa dovrebbe ritardare il processo di annullamento delle sanzioni. Anche perché i pretesi passi avanti di Pechino dal 1989 non sono così evidenti. I diritti umani sono ancora un optional e anche la cooperazione del regime comunista nella gestione della crisi regionali, penso alla Nord Corea, o in Iran è nulla. Non mi sembra che oggi, oltre 15 anni dopo la repressione di Tienanmen ci siano le condizioni per togliere l'embargo come dice Chirac».
Prima di Bush, in Europa è sbarcata Condoleezza Rice. Il nuovo segretario di Stato ha compiuto un tour de force per preparare al meglio la visita del capo. È cambiato il clima fra Casa Bianca e Foggy Bottom con la staffetta Powell-Rice?
«Il nuovo segretario di Stato ha sempre avuto, oltre che un ottimo rapporto anche un'influenza sul presidente. Fra loro c'è una sintonia intellettuale che mancava con Powell. E questo gioverà alla diplomazia Usa perché è fondamentale che fra Casa Bianca e Dipartimento di Stato ci sia una sintonia finissima».
Anche i neoconservatori sono contenti che Powell abbia lasciato.
«Powell è un personaggio di prestigio e di assoluto spessore. Molto amato in America ma anche qui in Europa. Era un realista e aveva perso il feeling con Bush. Con la Rice abbiamo - come neocons - più vicinanza intellettuale».
A oltre 3 anni dagli attacchi dell'11 settembre e a un anno dalle stragi di Madrid, se la sente di tracciare un bilancio, provvisorio, della guerra al terrorismo?
«È una sfida ampia, globale, che dati alla mano l'America sta combattendo bene. Eccezion fatta per la Spagna e per qualche attacco, a Istanbul e a Bali ad esempio, non ci sono stati gr avi attentati dopo l'11 settembre».
L'America è più sicura?
«Direi di sì, ma non lo scriva, non si sa mai cosa può accadere».
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