I "controrivoluzionari" libanesi che vogliono la libertà e l'indipendenza anzichè la guerra infinita a Israele
la "denuncia" di Stefano Chiarini
Testata: Il Manifesto
Data: 03/03/2005
Pagina: 11
Autore: Stefano Chiarini - Francesco Martone
Titolo: Diktat di Bush alla Siria - Il Muro e la Banca
Una visione "originale" della rivoluzione democratica in Libano è offerta, sul MANIFESTO, di giovedì 3 marzo 2005 dall'articolo di Stefano Chiarini "Diktat di Bush Siria".
Per "diktat" si intende la richiesta del ritiro della truppe siriane dal Libano, richiesta dalla maggioranza dei libanesi.
Ovviamente esso fa gli interessi di Israele tra i quali l'"all'eliminazione della resistenza libanese e palestinese e quindi ad un trattato di pace separato Libano-Israele senza che lo stato ebraico si sia ritirato dai territori occupati di Palestina e del Golan siriano e abbia riconosciuto i diritti degli oltre 300.000 profughi palestinesi che da cinquant'anni vivono nei degradati campi del Libano".
Dunque per Chiarini il Libano deve rimanere sotto controllo siriano per evitare che 1) i gruppi terroristici che lo usano come base contro Israele siano smantellati 2) il Libano firmi una pace con Israele, con il quale non ha contenziosi territoriali, indebolendo la posizione negoziale di Siria e Anp 3)i "degradati" campi profughi palestinesi vengano sanati o addirittura chiusi e i loro abitanti integrati nel paese dove vivono, togliendo un simbolo alla politica del rifiuto di Israele
Dato che minaccia di conseguire questi effetti la rivolta democratica libanese è una "Vandea nazionalista e filo-occidentale".
Per l'occasione anche il leader druso Walid Jumblatt diventa un "signore della guerra".
Hezbollah, invece, resta la "resistenza"

Ecco l'articolo:

Il presidente americano Bush, con il sostegno della Francia, della Gran Bretagna e di Israele, a poche ore dalle dimissioni del premier libanese Omar Karameh e dalle dichiarazioni del presidente siriano Assad, su un imminente ritiro delle ultime truppe siriane dal Libano, ha lanciato ieri un nuovo diktat chiedendo a Damasco che il ritiro sia «immediato e totale», «in modo che una buona democrazia possa avere la possibilità di fiorire in Libano». Poche ore prima il ministro degli esteri Usa, Condoleezza Rice, e quello francese, Michel Barnier, avevano annunciato che i due paesi starebbero studiando una serie di possibili misure necessarie per «stabilizzare» il Libano, dall'organizzazione e dal monitoraggio delle elezioni, previste per il prossimo maggio, all'invio di vere e proprie forze militari multinazionali. Se le truppe dell'ex potenza coloniale del Libano e quelle del nuovo impero dovessero tornare a Beirut sarebbe la prima volta da quel lontano 17 febbraio del 1984 quando il presidente Reagan, dopo i devastanti attentati dell'ottobre precedente contro il quartier generale francese (58 morti) e americano (241 morti) e di fronte al disgregarsi dell'esercito del governo di destra di Amin Gemayel sotto i colpi delle forze progressiste-musulmane appoggiate dalla Siria, dette l'ordine di ritirarsi dal paese dei cedri. Un ritiro che avrebbe portato di lì a poco all'abrogazione del trattato di pace separato del 17 maggio dell'anno precedente tra il governo israeliano e quello libanese. E di nuovo ieri il ministro degli esteri israeliano Silvan Shalom, in visita in Ungheria, glissando sull'occupazione da parte di Israele della West Bank, della striscia di Gaza e delle alture del Golan siriano, ha chiesto alla comunità internazionale di isolare Damasco dal momento che «la Siria non deve rimanere in Libano, l'occupazione deve terminare». Poi, spiegando perché questo passo sarebbe così importante, Shalom ha poi aggiunto: «E' molto, molto importante che i siriani se ne vadano dal Libano perché penso che questo renderà i libanesi più aperti al dialogo con Israele". In altri termini, la rottura degli storici legami tra la Siria e il Libano, aprirebbe la strada all'eliminazione della resistenza libanese e palestinese e quindi ad un trattato di pace separato Libano-Israele senza che lo stato ebraico si sia ritirato dai territori occupati di Palestina e del Golan siriano e abbia riconosciuto i diritti degli oltre 300.000 profughi palestinesi che da cinquant'anni vivono nei degradati campi del Libano. Il nuovo diktat di Bush, Sharon, Blair e Chiraq, ha spinto l'opposizione libanese, composta dalle forze della destra cristiano-maronita, dal signore della guerra e feudatario druso di origine curde, Walid Jumblatt, e dei seguaci dello scomparso ex premier Rafik Hariri, ad alzare la posta e a condizionare la partecipazione alle consultazioni per la designazione del nuovo governo «elettorale» al soddisfacimento da parte del presidente Emile Lahoud di condizioni praticamente impossibili da accettare: un «immediato» e «incondizionato» ritiro delle truppe siriane (presenti nel paese sulla base di due trattati bilaterali del 1991) e la destituzione del ministro della giustizia e di tutti i capi dei servizi segreti libanesi e della stessa guardia presidenziale. Se l'opposizione non dovesse partecipare alle consultazioni e boicottare il processo costituzionale di formazione del governo, si creerà in Libano un pericoloso vuoto di potere che potrebbe destabilizzare gli accordi di Taif che posero fine nel 1990 a quindici anni di guerra civile. L'intera comunità sciita, maggoritaria, per bocca del leader del movimento degli Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha invitato l'opposizione al dialogo e al senso di responsabilità ma senza molto successo. Gli sciiti e le loro forze politiche, Hezbollah e Amal, favorevoli al mantenimento dei legami storici con Damasco, sino ad oggi non hanno contestato la vandea nazionalista filo-occidentale e si sono tenuti in disparte ma non potrebbero più farlo se venisse rimesso in gioco il ruolo del Libano nel conflitto arabo-israeliano e la loro autonomia politica e militare nella periferia sud di Beirut e nel sud del paese. Gli sciiti ricordano bene le discriminazioni, l'emarginazione, la miseria e le umiliazioni patite quando al potere c'erano i cristiano maroniti filo-francesi e i ricchi sunniti alla Hariri per essere disposti a tornare a quei tempi. Il problema non riguarda solo gli sciiti ma anche le comunità sunnite legate anch'esse alla Siria. La situazione è particolarmente tesa a Tripoli, nel nord, la città natale del primo ministro dimissionario, Omar Karame, dove vi sono stati stati gravi incidenti con una vittima e dove le milizie armate sono di nuovo comparse per le strade.
A fianco dell'articolo di Chiarini troviamo quello del senatore verde Francesco Martone su un argomento già affrontato dal quotidiano comunista: "Il Muro e la Banca" è un consueto campionario di propaganda contro la barriera difensiva e il diritto di autodifesa di Israele.
Lo riportiamo:

«Win-win» nel gergo neoliberista della Banca mondiale significa più o meno «prendere due piccioni con una fava».Ovvero riciclare per virtuoso qualcosa che virtuoso non è. E così negli anni la Banca mondiale ha finanziato grandi infrastrutture a vantaggio di multinazionali con il pretesto di possibili ricadute positive sulla lotta alla povertà. O sostenuto a gran forza la privatizzazione dei beni comuni, quali l'acqua, per poi accorgersi che quei presunti vantaggi per i governi destinatari si traducevano in sussidi per le multinazionali. Secondo l'articolo uscito sul manifesto di ieri (e sull'Ips), la logica dietro l'intenzione di finanziare alcuni "checkpoint" lungo il Muro, sarebbe quella di migliorare la sicurezza per Israele ed incentivare la crescita economica della Palestina, visto che controlli più rapidi potrebbero velocizzare gli scambi commerciali e far perdere meno tempo ai palestinesi. Che il Muro sia contro il diritto internazionale come di recente stabilito dalla Corte internazionale di giustizia poco conta.

La Banca per statuto non dovrebbe prendere in considerazione altro che criteri di tipo economico. Peccato che oggi come in passato la selettività ed i criteri per la concessione di prestiti rispondano essenzialmente alle priorità strategiche del Dipartimento di Stato Usa o dei principali azionisti.

Non è la prima volta che la Banca prova a ricorrere a finanziamenti trasversali per cercare di evitare beghe di carattere politico. Lo fece con il Lesotho per aggirare l'embargo contro il Sudafrica dell'apartheid . Lo fa ora con la Palestina, che domani si troverà a dover ripagare i prestiti per i checkpoint gestiti dagli israeliani. Interpellato direttamente sulla questione in occasione di un recente incontro tra parlamentari e Banca mondiale svoltosi a Napoli, il direttore esecutivo italiano Biagio Bossone ha detto di non essere al corrente di tale progetto. Nonostante le intenzioni dichiarate del presidente uscente James Wolfensohn, trasparenza e controllo democratico restano una merce rara. A Napoli c'era anche lui, «Jim» in collegamento video da Parigi. Un discorso di commiato tra vari riconoscimenti di stima ed affetto. Spiccavano tra questi quelli di alcuni parlamentari, neolaburisti e socialisti, che hanno sposato la terza via globale propugnata da Wolfensohn.

Wolfensohn ha dato chiaramente ad intendere che la Banca mondiale non intende accettare alcun vincolo di sottomissione alle Nazioni unite. «Una Onu forte serve ad una Banca forte», ha detto, obliterando d'un tratto la proposta francese di un Consiglio di sicurezza economico e sociale e dimenticandosi l'articolo 58 della Carta delle Nazioni unite che attribuisce proprio all'Onu il compito di formulare politiche macroeconomiche. Quello che invece da oltre 60 anni fanno i tecnocrati della Banca e dell'Fmi. Non solo. Negando la possibilità di un rapporto diretto, politico e giuridico tra Banca e Onu, Wolfesohn ha di fatto avallato la possibilità che essa possa operare senza i vincoli fissati dalle agenzie Onu o da organi internazionali quali la Corte di giustizia dell'Aja, come nel caso del possibile finanziamento del Muro israeliano.

Wolfensohn era quello che agli inizi del suo mandato si impegnò a ridare «un sorriso sul viso di ogni bambino». I bambini palestinesi ringraziano.
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