Gli occhiali appannati di Sergio Romano
un commento di Federico Steinhaus a un editoriale dell'ex ambasciatore
Testata: Panorama
Data: 01/03/2005
Pagina: 21
Autore: Sergio Romano
Titolo: Gioco dell'oca con la memoria
PANORAMA nr. 9 del 3.3.05 pubblica a pag. 21 l'articolo di Sergio Romano: "Gioco dell'oca con la memoria"

L'editoriale di Sergio Romano del quale ci occupiamo segue un ragionamento
attorno al quale egli elenca fatti e situazioni: nelle scorse settimane sono
successe nel mondo molte cose di grande rilevanza, ma noi europei ci siamo
occupati solamente del lontano passato, trascurando del tutto il presente ed
il futuro. Ed occupandoci del passato noi europei, guarda caso, non abbiamo
trovato di meglio che discutere del destino degli ebrei.
Per Sergio Romano sono in particolare due i capisaldi di questa nostra
dissociazione dalla realtà vera e pulsante, che colpevolmente ci fanno
tuffare in un oceano in tempesta di ricordi: la Shoah ed il modo in cui la
Chiesa avrebbe disposto a proprio uso e consumo dei bambini ebrei ai quali
era stata salvata la vita da benefattori cattolici.
Da questo assunto Romano avvia una operazione di psicanalisi collettiva che
si occupa dei problemi mentali di noi europei, ed un posto d'onore vi è
riservato, ovviamente, alla Giornata della Memoria che ricorda la
liberazione di Auschwitz, che avrebbe scatenato una gara a chi ricorda
meglio e di più; ma altre ragioni sono da Romano trovate anche in timori ed
inclinazioni al pessimismo che ci indurrebbero a guardarci in uno specchio
(deformante) anziché proiettarci verso il luminoso futuro che altrimenti
potremmo edificare.
Il terzo motivo, anzi il primo nell'ordine di elencazione, al quale Romano
riconduce queste nostre devianze è l'età dei "veterani" (forse intendeva
dire: testimoni e vittime, non solo combattenti), che a suo dire sono
destinati a morire in massa entro i prossimi 12 mesi e dunque volevano
celebrare ed essere celebrati degnamente in questa loro ultima occasione di
apparire. E' superfluo dire che questi "veterani" (e vittime, protagonisti,
testimoni) sono in gran parte anziani o vecchi, ma non decrepiti, e noi ce
li immaginiamo intenti a fare gli scongiuri con molto impegno.
La domanda di fondo, non espressa da Romano ma evidente in ogni sua parola,
è se sia utile, opportuno e forse anche lecito ricordare le tragedie di quel
passato (che per molti, diciamolo con forza, sono ancora il presente per
quanto sono dolorose) quando invece la realtà del nostro tempo preme ed
impone decisioni.A questo punto dovremmo frammentare l'analisi, che Romano
invece unifica per dimostrare una sua tesi: il valore anche educativo del
ricordo e la capacità che abbiamo di affrontare la realtà corrono su due
binari separati, e si alimentano a vicenda. Il nostro essere di oggi si
edifica sul ricordo, la nostra etica individuale e collettiva è plasmata
dalla memoria, la rielaborazione del passato contribuisce alla nostra
capacità di affrontare il presente e dare una dimensione al futuro.Il
ricordo del passato che ci accompagna è la nostra arma segreta, che non ha
chi vive nel solo presente.
Singolare è anche l'insistenza con la quale Romano attribuisce la funzione
di guida in questa operazione di forzato ed artefatto rifiuto della realtà
contingente proprio agli ebrei, che ebbero un ruolo non decisivo nell'
istituzione della Giornata della Memoria e che della polemica su Pio XII
(alimentata da un solo quotidiano e condotta principalmente da esegeti
cattolici) furono più che altro stupefatti ed amareggiati spettatori. Se
colleghiamo queste considerazioni ad altre espresse dal medesimo personaggio
in diverse sedi non possiamo non chiederci cos'altro saprà escogitare per
alimentare il suo interesse, tutto in chiave negativa, verso gli ebrei.
Ma prima, per il bene di noi tutti, dobbiamo augurarci che egli si pulisca
bene gli occhiali, che ora gli appannano pericolosamente la vista.

Negli scorsi giorni George W. Bush ha visitato l’europa, gli spagnoli hanno votato l’approvazione del trattato costituzionale europeo, i portoghesi hanno eletto un nuovo parlamento, il premier israeliano ha incontrato il presidente palestinese, gli americani hanno ripetuto che non permetteranno la costruzione di armi nucleari all’Iran e i libanesi hanno pianto la morte, in un sanguinoso attentato, dell’uomoche aveva ricostruito Beirut dopo la fine della guerra civile. Basta dare un’occhiata alla stampa europea, tuttavia, per constatare che i fatti più importanti, nella maggior parte dei paesi dell’Unione, sono altri: la custodia e il battesimo dei bambini ebrei dopo la fine del conflitto, la liberazione del campo di Auschwitz, la conferenza di Yalta, l’esodo delle popolazioni italiane dall’Istria, il bombardamento anglo-americano di Dresda, lo status dei militari appartenenti alla Repubblica sociale italiana e la soppressione dei simboli dei due opposti totalitarismi: svastica e falce e martello.
Ciò che accade oggi sembra interessare all’Europa molto meno di ciò che è accaduto più di mezzo secolo fa. Il nostro calendario politico non è scandito dagli avvenimenti di cui siamo testimoni, ma da quelli di cui la grande maggioranza degli europei ha soltanto una conoscenza indiretta. Continuerà così probabilmente fino al 9 maggio quando Vladimir Putin presiederà, con la presenza del cancelliere tedesco, alle grandi celebrazioni di Mosca per la fine della Seconda guerra mondiale. Di qui ad allora ci aspetta un’impressionante sequenza di ricorrenze: il 25 aprile, la morte di Benito Mussolini e quella di Adolf Hitler, la caduta di Berlino.. Poi, dopo aver tirato il fiato per qualche settimana, il gioco dell’oca della memoria toccherà altre tappe: la conferenza di Potsdam, Hiroshima, Nagasaki, l’esodo di 12 milioni di tedeschi dalla Germania orientale e dalla Boemia.
Il primo motivo, probabilmente, è l’età di coloro che sono stati protagonisti, comparse o testimoni di quegli avvenimenti. Per i "veterani" il sessantesimo anniversario sarà probabilmente l’ultimo. Ricordo di avere assistito verso la fine degli anni Settanta alla tradizionale cerimonia con cui la Francia ricorda all’Arco di trionfo la fine della Grande guerra. Nelle manifestazioni precedenti il drappello di veterani si era progressivamente assottigliato.
In quella particolare occasione ce ne era soltanto uno, vecchio e malfermo, ma fieramente vestito dell’uniforme azzurra che aveva indossato nelle grandi battaglie della Somme e di Verdun. Non sono certo che abbia potuto assistere alle cerimonie dell’anno seguente.

Il secondo motivo è l’insistenza con cui è stato chiesto che il genocidio ebraico venisse solennemente ricordato con un particolare giorno della memoria. Quella richiesta e l’importanza che la commemorazione ha assunto in questi anni hanno scatenato una frenetica "corsa alla memoria" in cui tutte le vittime e i loro discendenti vogliono essere ricordati, rispettati, commemorati.E’ questo il senso del progetto di legge con cui alcuni deputati di Alleanza Nazionale hanno chiesto che le reclute di Salò vengano riconosciute come militari combattenti. Il privilegio riservato al passato di alcuni gruppi offende gli altri e suscita gelosie.
Il terzo motivo, forse il più importante, è il pessimismo di molti europei. Hanno paura della modernità, temono l’immigrazione, sono convinti che l’euro li abbia impoveriti, sono divisi tra il timore dell’Islam e la diffidenza per i metodi bruschi e bellicosi degli Stati Uniti.
Sessant’anni fa, quando le ferite erano ancora aperte e gli occhi pieni delle tragedie degli anni precedenti, gli europei, dominati dalla voglia di ricostruire e di vivere, si erano sbarazzati dei loro scomodi ricordi e si erano messi al lavoro. Dobbiamo a quella scelta la Comunità europea e la prosperità raggiunta dall’insieme del continente. Il futuro allora era sembrato molto più importante del passato. Oggi il futuro esiste e si chiama Unione Europea, ma è considerato una minaccia. Prima o poi l’Europa si convincerà che questa percezione è drammaticamente sbagliata. Ma per ora ricordare le sembra più importante che vivere.
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