Sugli eventi che stanno cambiando, in modo fino a poco tempo fa impensabile, il Medio Oriente, portandolo verso la democrazia e la libertà, pubblichiamo gli articoli di Fiamma Nirenstein e Maurizio Molinari da LA STAMPA, Angelo Panebianco dal CORRIERE DELLA SERA, Michael Ledeen e Carlo Panella dal FOGLIO.
L'"effetto domino" vale anche per il terrore
Ieri sera a Tripoli dove è nato il premier libanese dimissionario Kharami la rivoluzione popolare ha avuto il suo primo morto. Già si spara e mentre tutte le componenti (musulmana, cristiana, drusa) sembrano unirsi contro il governo e l’occupazione siriana, ha inizio una reazione che potrebbe diventare molto sanguinosa. La Siria è in agguato, dietro la Siria l’Iran, con loro gli Hezbollah, oltre a altri gruppi terroristici pronti a dare una mano. Significa che, quando si presenta l’ondata democratica e libertaria, si provoca una spaccatura, che in realtà esiste un genuino desiderio popolare di conservare lo status quo? No, i popoli arabi sembrano desiderare veramente la democrazia. Proprio come in Iraq dove questa domanda ce la poniamo a ogni attacco terroristico, la verità è che di fronte a una chiara volontà popolare c’è invece una trama di potere e di interessi (quelli baathisti in primis) che può anche strumentalizzare grandi fasce di popolazione che per etnia o per gruppo religioso ritengono più utile appoggiarsi a gruppi di potere decisi a mantenere lo status quo. Ma la gente in generale (anche molti baathisti), invece, ha un ruolo determinante nell’effetto domino di cui tanto si parla; è una fantasia che sia forzato importare la democrazia in Medio Oriente, per quanto dura, lunga e sanguinosa la battaglia possa essere. La sinergia è evidente: da una parte il popolo, dall’altra la determinazione degli Usa e dei loro alleati, e, piano piano, l’aggregarsi, come si è visto ieri, dell’intero Quartetto, volente o nolente ma costretto dai fatti.
Di sicuro Condy Rice non avrebbe affermato ieri che per il Libano occorrono elezioni democratiche se il popolo libanese non fosse sceso in strada ottenendo le dimissioni del governo. E d’altra parte, il popolo libanese non sarebbe sceso in piazza così impetuoso se non avesse sentito che nel Medio Oriente tirava un vento nuovo. E che dire della della Conferenza di Londra? Mai 25 stati compresi gli Usa si sarebbero riuniti a tifare, invitati da Tony Blair a Londra, per la democrazia palestinese, se la gente non avesse partecipato a elezioni autentiche, che hanno eletto col 65 per cento un leader molto diverso da Arafat. E se gli israeliani non avessero sfatato il mito che il terrorismo non si può battere. E in Iraq, oggi non esisterebbe speranza per il futuro se le elezioni fossero state disertate. E certo tuttavia queste non sarebbero mai avvenute se gli Usa e gli alleati non avessero combattuto una dura guerra. E che dire dell’Egitto, dove un gruppo aggressivo di dissidenti è sceso ieri in piazza per il detenuto politico Aiman Nur, guidato da sua moglie? Certo non sarebbe accaduto se Mubarak, spinto dal riaffermarsi della guerra alle tirannie, non avesse annunciato la sua riforma. Anche in Arabia Saudita già si promette il voto alle donne dopo le ultime elezioni farsa. E nella stessa Siria decine di intellettuali una settimana fa nonostante il rischio terribile hanno mostrato il volto in piazza; e se insieme al bisogno di respirare non si avvertisse che l’ossigeno stavolta c’è, si può giurare che la gente non manifesterebbe.
Immaginiamoci, poi, quello che si sta muovendo in queste ore in Iran, il Paese dove l’opposizione è da anni diffusa specie fra gli studenti e si ama quasi tutto quello che è occidentale, e più di ogni altra cosa la libertà; immaginiamoci quanto la discussione sia fitta e speranzosa nelle ore in cui l’arricchimento dell’uranio in Iran è diventato per gli Usa il maggior pericolo strategico e Bush ha più volte dichiarato di non potere nè volere ignorarlo.
Ciò che si vede chiaramente è che la rivoluzione in atto nel Medio Oriente, il famoso processo domino di cui si discute tanto è di fatto un processo popolare, di base. E’ diventare ridicolo affermare che i popoli arabi e iraniano non abbiano desiderio di democrazia, e che si voglia importarla per i comodi dell’Occidente. È invece vero che le forze in campo per bloccare la valanga sono agguerrite: guardiamo alle operazioni siriane di questi ultimi giorni. La Siria, dopo essere stata messa sotto accusa per avere aiutato prima Saddam Hussein e poi i terroristi baathisti, ha compiuto due mosse davvero impensabili, almeno a giudizio di quasi tutti gli osservatori internazionali: c’è stato l’assassinio di Hariri e poi l’attacco terrorista di Tel Aviv, che anche per i palestinesi è stato organizzato dalla Jihad Islamica da Damasco con l’aiuto degli Hezbollah. Perché la Siria ha interesse a siffatte tragedie, che non fanno che additarla alla riprovazione internazionale? Nel primo caso perché Hariri era un grande pericolo con tutti i suoi soldi, la sua influenza, i suoi rapporti con l’opposizione da un parte e con Usa ed Europa dall’altra. Poi perché la pulsione di una guerra percepita dalla leadership come di sopravvivenza ha il sopravvento. In terzo luogo, ma non meno importante, perché la Siria spera di suscitare una reazione di contrattacco da parte di Israele, come è accaduto in passato, così da bloccare la rivoluzione interna e ricompattare le fazioni libanesi. Ma Israele non si vendicherà facilmente, nè le fazioni si lasceranno abbindolare. Quindi resta un’altra strada: usare le forze del Libano per creare sangue e confusione. Come accade in Iraq. Ma i popoli mediorientali non si lasceranno sviare facilmente. Hanno tanto sofferto, sapranno ancora soffrire, stavolta per il futuro dei loro figli.
Fiamma Nirenstein
Nuovo monito di Usa e Francia alla Siria
Si stringe l'assedio politico al presidente siriano Bashar Assad: Washington e Parigi ammoniscono Damasco ad evitare «interferenze ed intromissioni» nelle elezioni libanesi mentre a Beirut l'opposizione si dice a favore della formazione di un governo tecnico che prepari il voto in programma per maggio.
Il passo congiunto francoamericano è arrivato da Londra, dove il Segretario di Stato Condoleezza Rice ha visto il ministro degli Esteri Michel Barnier a margine della conferenza sul Medio Oriente. «Diamo pieno sostegno alla volontà del popolo libanese di vivere in uno Stato sovrano libero da interferenze ed intimidazioni straniere» recita il testo di un comunicato bilaterale che chiama apertamente in causa la Siria, chiedendo un «totale ed immediato ritiro di tutti i soldati e i servizi di intelligence dal Libano» richiamandosi alla risoluzione 1559 dell'Onu. Washington e Parigi vogliono assicurare sostegno politico ai libanesi scesi in piazza e si dicono a favore di «libere e giuste elezioni parlamentari garantite dalla presenza di osservatori internazionali prima e durante le elezioni». L'intesa fra i presidenti George W. Bush e Jacques Chirac, siglata la scorsa settimana a Bruxelles, è il motore della pressione diplomatica che continua a crescere sulla Siria di Assad. Lo stesso Segretario generale dell'Onu, Kofi Annan, ha ribadito da Londra assieme alla Rice l'impellenza di un ritiro completo della Siria dal Libano così come del completamento dell'indagine in corso per appurare chi ha assassinato l'ex premier Rafik Hariri. «La situazione è tale che Damasco ha poca scelta, dovrà ritirare le truppe - ha detto il generale John Abizaid, capo del comando centrale delle truppe americane parlando di fronte alla commissione Esteri del Senato di Washington - perché è nel suo interesse dimostrare che opera per la stabilità regionale». Una convinzione che sembra trovare sostanza in quanto detto dal presidente Assad al settimanale «Time» assicurando di aver oramai deciso di ritirarsi dal Libano «nel giro di pochi mesi».
Il presidente siriano deve guardarsi non solo dall'offesiva diplomatica francoamericana ma anche dai passi dell'opposizione libanese. Il leader druso Walid Jumblatt, parlando a nome di una coalizione interetnica di diverse forze politiche, si è detto a favore a far seguire alle dimissioni dell'esecutivo la formazione di un «governo tecnico» il cui unico compito sarà di organizzare le elezioni politiche di maggio. «Nessun candidato ne dovrà fare parte» ha aggiunto Jumblatt per sottolineare la necessità di evitare complicità politiche. Il cartello elettorale delle opposizioni - che riunisce drusi, sunniti e cristiano maroniti - chiede la piena applicazione della risoluzione 1559 e quindi anche il disarmo della milizia sciita degli Hezbollah, sostenuta da Siria ed Iran. La Rice ha voluto dare sostegno anche a questa richiesta affermando che «nessun attacco dovrà più essere lanciato dal Libano meridionale», ovvero dall'area dove opera la guerriglia. Alcuni deputati degli Hezbollah a Beirut hanno risposto a queste pressioni dicendosi contrari ad un ritiro delle truppe siriane.
Maurizio Molinari
Il vento che soffia in Medio Oriente
Quando, negli anni Novanta del secolo scorso, gli analisti valutavano i progressi della democrazia nel mondo (oggi sono ormai in maggioranza gli Stati almeno formalmente democratici), erano sempre costretti a constatare l'esistenza di un «buco nero»: il mondo arabo-islamico, l'unico luogo della terra in cui nulla si muoveva, nulla sembrava destinato a cambiare. Il Medio Oriente era, come sempre, una palude stagnante, alla mercé di tirannie «laiche», monarchie corrotte, regimi clericali. La guerra in Iraq ha messo ora in moto potenti forze che scuotono l'area. Le prime elezioni libere in Iraq e in Palestina stanno scatenando un’onda democratica, un effetto di contagio, destinato a durare. La pacifica protesta di piazza che a Beirut ha fatto cadere il governo fantoccio dei siriani, è stata percepita, e così presentata a milioni di arabi dalle televisioni mediorientali, come un evento storico. La domanda di libertà e di democrazia si diffonde e il dittatore egiziano Mubarak, pressato dagli americani, è costretto ad accettare elezioni presidenziali con più candidati. Persino in Arabia Saudita la pressione per la democrazia si fa ogni giorno più forte.
La strada della democratizzazione del Medio Oriente sarà certo lunghissima, costellata da chissà quante stragi e omicidi. Il clero iraniano e il terrorismo di Stato siriano, ad esempio, non molleranno facilmente la presa nei loro Paesi (né rinunceranno di buona grazia all'azione di destabilizzazione in Iraq o in Palestina). Però la falla si è aperta e chiuderla, per i tiranni mediorientali, non sarà facile. È difficile negare che dietro a tutto questo ci sia la concezione visionaria di chi, dopo l'11 settembre, ha pensato che solo spingendo il Medio Oriente verso la democrazia fosse possibile, in prospettiva, essiccare le fonti del terrorismo islamico.
Può essere che tra dieci anni accada a George Bush ciò che è accaduto a Ronald Reagan, il vincitore della guerra fredda. All'inizio degli anni Ottanta, Reagan venne linciato in effigie sulle piazze europee, quando scelse di dispiegare gli euro-missili per bilanciare i missili sovietici. E da irresponsabile guerrafondaio venne dipinto quando lanciò il progetto di riarmo detto «guerre stellari». «Stupido cowboy», dicevano. Ma lo stupido cowboy, grazie al suo continuo gioco al rialzo, portò l'Unione Sovietica allo sfinimento e all'implosione. E nessuno oggi può più disconoscerne il valore. Magari fra dieci anni, chissà?, molti di coloro che hanno dato, ancora una volta, dello stupido cowboy a un presidente repubblicano, Bush, saranno costretti a ricredersi e ad ammettere che con la guerra in Iraq cominciò a cambiare il volto politico del Medio Oriente.
La caduta dell'impero sovietico portò democrazia e libertà ma provocò anche lutti e guerre, dal Caucaso ai Balcani. Pochi però, nonostante quei lutti, si augurerebbero la rinascita dell’Urss. In Medio Oriente la partita della democratizzazione è solo all'inizio e nessuno pensa che là dove la tirannia è sempre stata di casa possano impiantarsi di colpo democrazie come qui in Occidente le intendiamo. Ma un processo di cambiamento politico è in atto e, quali che ne siano gli esiti a breve termine, ciò è sicuramente un bene. Non si chiede a quelli che hanno condannato la guerra in Iraq di andare a Canossa, essi hanno il diritto di continuare a pensare che quella guerra fosse sbagliata o immorale. Si chiede loro, però, di non chiudere gli occhi, di riconoscere che la «storia è di nuovo in cammino», e che compito di noi occidentali è fare il possibile per aiutare il mondo arabo a liberarsi delle sue catene.
Angelo Panebianco
Democrazia
Si dice che un vecchio filosofo cinese insegnasse ai suoi studenti che una persona non può comprendere un evento semplicemente ricostruendo la catena di fatti che l’hanno determinato. Al contrario, è necessario immergersi nel contesto. Se questo vecchio saggio fosse vivo oggi e dovesse sintetizzare
le caratteristiche di questo momento storico, parlerebbe di "rivoluzione". Stiamo vivendo in un’era rivoluzionaria, cominciata più di un quarto di secolo fa, in Spagna, dopo la morte di Franco. Allora nessuno pensava che fosse possibile passare dalla dittatura alla democrazia senza troppa violenza, e molti spagnoli temevano che la terribile guerra civile del 1930 potesse ripetersi. Invece, grazie alla straordinaria generazione di leader politici, ad alcuni preti saggi e al sottovalutato re Juan Carlos, gli spagnoli passarono senza troppe scosse alla democrazia. Fu l’inizio dell’era della Seconda rivoluzione democratica. La Spagna ispirò il Portogallo. Spagna e Portogallo ispirarono l’America Latina, e, quando Reagan finì il suo mandato presidenziale, c’erano solo due governi non eletti sotto al Rio Grande: Cuba e Suriname. Queste rivoluzioni ispirarono i paesi satelliti dell’Urss e la rivoluzione democratica globale arrivò in Africa e Asia. Gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo positivo in quasi tutte queste rivoluzioni, grazie a un presidente visionario, Reagan, e a una generazione di leader rivoluzionari in occidente: Walesa, Havel, Thatcher, Giovanni Paolo II, Bukovsky, Sharansky e altri. Successivamente si è verificata una pausa di una decina di anni. Otto mesi dopo l’inizio della prima presidenza di George W. Bush, gli islamofascisti ci hanno scioccato al punto da farci riprendere la nostra missione. Durante il mandato di Reagan, la rivoluzione iniziò ai margini della principale area di conflitto, nella penisola iberica. Dopo l’11/9, la rivoluzione scoppiò violentemente alla periferia del medio oriente, in Afghanistan. Dopodiché si diffuse in Iraq, riuscendo anche a determinare la liberazione dell’Ucraina, e ora minaccia l’egemonia della Siria sul Libano, se non lo stesso regime siriano, costringendo i regimi egiziano e saudita ad assumere perlomeno la parvenza di un cambiamento democratico. Si è spesso detto che la Guerra fredda è stata vinta senza sparare un colpo, ma non è vero: si è combattuto in Afghanistan, Grenada e Angola. Le ripetute sconfitte degli alleati sovietici (Angola, Grenada) e dell’Armata rossa (Afghanistan) sono state decisive per distruggere la leggenda secondo la quale le leggi della storia garantivano il trionfo finale del comunismo. Parimenti, la sconfitta dei fanatici in Afghanistan e in Iraq, seguita da libere elezioni, ha distrutto due miti: quello dell’inevitabilità della tirannia nel mondo musulmano e quello del successo garantito per volere divino del jihad. Una volta crollati questi miti, altri nella regione hanno perso la paura dei tiranni e sono ora disposti ad affrontare il rischio di un confronto diretto. La rivoluzione dei cedri ha sbaragliato le marionette siriane in Libano, e sarò stupito se in futuro non cominceremo a sentir parlare di rivoluzionari democratici in Siria, emulati da iraniani. Molti coraggiosi che affollano le strade arabe colpite dall’improvvisa ondata democratica s’ispirano all’America e a Bush. Dovremo aiutarli tutti, in qualunque modo. Gran parte dell’aiuto sarà di natura politica, ma parte dell’attività di supporto potrebbe essere militare, come l’attacco ai campi del terrore dove sono addestrati gli assassini di massa della regione. Il presidente lo sa, ma in uno dei più frustranti paradossi attuali, questa visione è più popolare in medio oriente che tra alcuni dei nostri responsabili decisionali. Suggerire al presidente, in questo periodo drammatico, di offrire una ricompensa all’Iran per la promessa di non costruire atomiche o di cercare una "soluzione" diplomatica per il ruolo che la Siria ha spesso dimostrato di avere nella guerra del terrorismo contro i nostri amici e soldati rappresenta un tradimento della sua visione e della popolazione di Iran, Israele, Libano e Siria. Tuttavia, tale idea reazionaria è sorprendentemente diffusa tra i membri direttivi dei comitati del Congresso, tra gli "esperti" falliti dello Stato e della Cia, e tra una parte del Consiglio per la sicurezza nazionale. Contro i tiranni, la più potente arma letale a nostra disposizione è la libertà, che ora si sta diffondendo sulle ali della rivoluzione democratica. Sarebbe tragico se ci tirassimo indietro proprio ora che la rivoluzione sta acquistando lo slancio necessario per conseguire una gloriosa vittoria. Dobbiamo essere inflessibili nel chiedere che la popolazione del medio oriente designi i propri sistemi di governo ed elegga i propri leader. Il primo passo è un referendum nazionale per scegliere la forma di governo. In Iran si dovrebbe chiedere alla popolazione se vuole una Repubblica islamica. In Siria, se desidera uno Stato baathista. In Egitto, Arabia Saudita e Libia, se vuole mantenere la forma di governo esistente. Non dovremmo farci scoraggiare dalle minacce dei cinici, secondo cui la libertà peggiorerà la situazione perché le masse ignoranti opteranno per il fantasmagorico califfato di Bin Laden, che perde smalto giorno dopo giorno. Sia Mubarak e Gheddafi sia Assad e Khamenei stanno arrestando democratici, non islamici, e probabilmente le donne saudite non vorranno tenere il velo per il resto della loro esistenza. Più in fretta, per favore. I sedicenti esperti si sbagliano da anni. Viviamo un momento rivoluzionario. Approfittiamone.
Michael Ledeen
La minaccia libanese
Tace Hezbollah, tace Amal, parla al posto loro il ministro degli Esteri iraniano Kamal Kharrazi. Nei silenzi degli sciiti libanesi come nelle parole dello sciita iraniano è così contenuta una minaccia che aleggia sul Libano. Minaccia che Hassan Nasrallah ha pronunciato dopo l’uccisione di Rafiq Hariri e prima che il premier Omar Karame si dimettesse, quando ha messo in guardia contro il pericolo di una nuova guerra civile. Pericolo che il leader di Hezbollah vede innescato proprio dal movimento popolare che agita le piazze libanesi. Una folla che nei resoconti giornalistici pare comprendere tutto il caleidoscopio di etnie e religioni (cristiani, sunniti, drusi, palestinesi, armeni, greci), ma che pare non aver mai visto la presenza degli sciiti. Ma gli sciiti sono una componente fondamentale della società e del mondo politico libanese, sono il 34 per cento, più di un terzo della popolazione, ben più dei sunniti che sono il 21, più dei cristiani maroniti che sono il 23 e dei cristiani ortodossi che sono l’11. Gli sciiti sono forti politicamente, non tanto e non solo perché Hezbollah ha 9 parlamentari su 128 e ben di più ne conta il moderato Amal, ma perché queste due organizzazioni costituiscono un "partito siriano" nel paese.
Nelle strade di Beirut si sono viste anche –poche – bandiere di Amal e Nabih Berri, suo anziano e storico leader, presidente del Parlamento, politico levantino, vanta una lunga tradizione di mediazione (ma anche combattive milizie armate), ma il problema è Hezbollah. Tutto il sud del Libano è nel pieno dominio delle sue milizie e delle sue strutture. Tutta la frontiera con Israele è presidiata da Hezbollah in armi che dirige anche il piccolo gruppo palestinese del jihad islamico, autore della strage di Tel Aviv della settimana scorsa. Ma il problema è che Hezbollah non agisce né come partito libanese né come partito palestinese, ma come parte dell’"Internazionale sciita" che incita alla Rivoluzione islamica da Teheran.
Hezbollah, come gli ayatollah di Teheran, non può tollerare che si consolidi un processo di pace in Palestina (da qui l’attentato del jihad) e non può tollerare un processo di democratizzazione in Libano, esattamente come la Siria, alleata di Hezbollah e degli ayatollah iraniani, non può tollerare il processo di democratizzazione in Libano (Jack Straw, ministro degli Esteri inglese, ha accusato ieri Damasco dell’attentato contro Hariri) e in Iraq.
L’iraniano Kharrazi offre una sponda al siriano Bashar. Rice incalza: libere elezioni a Beirut
Per questo le parole di ieri di Kharrazi sono inquietanti, torbide: il ministro iraniano invita i manifestanti di Beirut a "non cadere nella trappola ordita dagli Stati Uniti che minacciano l’unità del paese e fanno gli interessi di Israele e ad avere pazienza fino a quando non vi sarà una soluzione, concordata in una riunione dei leader di tutti i gruppi libanesi". Un perfetto gioco di sponda con Damasco (il cui premier, Naji al Hotari, corse a Teheran due giorni dopo l’attentato contro Hariri) in cui rilancia la minaccia di guerra civile, dà un appoggio alla Siria e soprattutto disprezza il carattere popolare delle manifestazioni di protesta.
In questo contesto di tensione, acuita dall’incapacità di Bashar al Assad di gestire la crisi tra "riformisti" e baathisti interna al suo regime, il presidente libanese Emile Lahoud inizia le consultazioni per formare il nuovo governo. Lahoud è un fedele esecutore della volontà di Damasco (quindi di Teheran e quindi di Hezbollah), ma deve tenere conto di un’altra novità maturata con la crisi libanese: la stretta alleanza tra Washington e Parigi. Ieri Condoleezza Rice e Michel Barnier hanno infatti firmato da Londra un duro comunicato congiunto contro la Siria, intimandole di rispettare la risoluzione 1.559 dell’Onu che le impone il pieno ritiro dal Libano, e hanno espresso appoggio al processo democratico che si manifesta nelle piazze libanesi. Una svolta nella scena internazionale che chiude le ferite create dalla guerra in Iraq, cui Rice ha voluto aggiungere anche l’impegno degli Stati Uniti per organizzare elezioni libere, con la presenza di osservatori internazionali, in Libano. Esattamente quelle elezioni libere che Hezbollah, Damasco e Teheran (in parte anche Amal) non possono tollerare nel paese dei cedri.
Carlo Panella
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