EUROPA di martedì 1 marzo 2005 pubblica a pagina 3 un'intervista di Marilisa Palumbo all'analista del Middle East program del RIIA (Royal Insitute of International Affairs) Rosemary Hollis.
La quale incentra la sua analisi sul problema dei profughi palestinesi. Che conferirebbe al conflitto israelo-palestinese una dimensione regionale, al di là della portata dell'Anp.
Finchè i profughi non saranno soddisfatti degli accordi raggiunti o ipotizzati, argomenta la Hollis, potranno organizzare azioni terroristiche dagli Stati della regione che li ospitano, facendo naufragare il processo di pace.
Ciò che l'analista e la sua intervistatrice trascurano è che accogliere i profughi palestinesi in Israele significherebbe il suicidio demografico per questo paese.
Inoltre, non sono i "profughi" che organizano gli attentatti terroristici, ma organizzazioni come la Jihad islamica ospitate da stati come la Siria.
La dimensione "regionale " del conflitto, dunque, dipende in primo luogo dal sostegno al terrorismo da parte delle dittature dell'aria, non dalla mancata volontà di Israele di sottoscrivere compromessi che la distruggero come le rimprovera ("A meno che non venga adottata una linea leggermente diversa questo processo è destinato sin dall'inizio a trovarsi in ostaggio di elemanti su cui la leadership palestinese nei Territori e a Gaza non ha alcun controllo. Ma, mi spiace dirlo, non è quello che Israele vuole" ) la Hollis.
Ecco l'intervista:Esiste una dimensione regionale del conflitto mediorientale da cui non si può prescindere se si vuole avviare un serio percorso verso la pace. Rosemary Hollis, direttore del Middle East Programme presso la Chatham House (già Royal Institute for International Affairs), ne è convinta e lo spiega a Europa alla vigilia della Conferenza internazionale sull’Autorità palestinese organizzata da Blair a Londra.
Dottoressa Hollis, l’obiettivo della conferenza è costruire un ampio sostegno per la nuova leadership palestinese. Tuttavia Abu Mazen sembra più debole dopo l’attentato suicida di venerdì.
Gli eventi di questo fine settimana sono estremamente importanti rispetto al futuro del processo di pace israelo-palestinese, perché ci ricordano che in questo conflitto esistono dimensioni regionali che non possono essere ignorate, altrimenti ti travolgono. Il numero di palestinesi che vivono fuori dai Territori e da Gaza è almeno pari a quello dei palestinesi che ci vivono dentro. Abu Mazen è responsabile per loro come presidente dell’Olp, ma non lo è in quanto presidente dell’Anp.
Come si può pensare che possa controllare gruppi sul terreno in Libano e in Siria? Semplicemente non può.
Quanti sono i rifugiati palestinesi?
Nella Striscia di Gaza poco meno di un milione, e comunque sappiamo che tra l’80 e il 90% della popolazione della Striscia è costituita da rifugiati. Nei Territori i palestinesi sono circa un milione e mezzo, di cui oltre 500 mila rifugiati. Ma voglio sottolineare i numeri della diaspora. Un milione e 700 mila in Giordania, 400 mila in Siria, 300 mila in Libano: ci sono quindi 2,5 milioni di palestinesi fuori dalla Striscia e dai Territori e buoni 2,5 milioni dentro.
In questo momento tutti sono concentrati su una soluzione a due stati e il modo in cui quell’accordo sta prendendo forma in virtù del muro e del consolidamento dei maggiori insediamenti – è su questo che si è basato lo scambio epistolare tra Bush e Sharon l’anno scorso – esclude che i palestinesi abbiano uno stato che comprenda tutti i Territori, ma solo una parte di essi e Gaza. Inoltre i rifugiati non avranno il diritto al ritorno in quello che è ora Israele. Gaza con tutta evidenza non può assorbire altri palestinesi, quindi non ci può essere un diritto al ritorno neanche lì. Quanta capacità di assorbimento avrà la parte palestinese dei Territori? Non molta, il che significa che si parte dall’assunto che i rifugiati debbano andare da qualche altra parte.
Perché ignorare un problema determinante per la soluzione del conflitto?
Il motivo per cui non si parla della dimensione regionale e in particolare della questione dei rifugiati è che vogliono parlare di quel poco su cui possono fare qualcosa.
Non vogliono pensare alle grandi questioni che non sanno come risolvere.
Quella che si apre domani (oggi per chi legge, ndr) a Londra non è una conferenza di pace. Dopo le pressioni di Israele e Stati Uniti, Sharon non ci sarà. Cosa possono fare i palestinesi senza un impegno da parte israeliana?
I palestinesi mi hanno detto che l’agenda dell’incontro di domani è leggermente migliore di come temevano che fosse al principio. Inizialmente Blair l’aveva presentata come un modo per far riprendere il processo di pace, quindi con Israele presente. Ma gli israeliani, che erano contrari, per respingere la proposta hanno cambiato la caratterizzazione dell’incontro facendolo diventare una questione interna palestinese. A quel punto Israele ha detto che avrebbe aspettato ai margini il momento in cui i palestinesi fossero stati pronti a parlare. Ma poi c’è stata Sharm el Sheikh – che in realtà credo fosse quello che voleva fare Blair a Londra. Gli israeliani ci sono andati perché la cosa era organizzata direttamente dagli arabi. Sharon non era interessato a ritrovarsi a Londra a dover promettere cosa avrebbe fatto in cambio dei passi palestinesi, mentre era molto interessato a parlare direttamente agli arabi che prima lo avevano emarginato.
Così man mano che il momento della conferenza si avvicinava, e Sharm el Sheikh aveva già avuto luogo, il governo britannico ha pensato a cosa poteva fare di utile e ha scelto di dare legittimazione alla nuova autorità palestinese. Hanno perciò cambiato il titolo della conferenza – che è diventato The London meeting 2005 – Come sostenere l’Autorità palestinese – per dargli un’enfasi diversa. L’attenzione si sposta su cosa deve essere fatto per supportare l’Anp, non su cosa deve fare l’Anp.
Un gran cambiamento dunque…
Almeno a parole…
Tornando all’attentato di venerdì, cosa pensa delle accuse che Israele ha rivolto alla Siria? Credo che ci riporti a quanto ci si può aspettare che Abu Mazen controlli i Territori e Gaza, o che guadagni consensi nell’ampia comunità dei palestinesi della diaspora, per i quali al momento non c’è nessuna offerta sul tavolo della pace. E indica anche che a meno che non venga adottata una linea leggermente diversa, questo processo di pace è destinato sin dall’inizio a trovarsi in ostaggio di elementi su cui la leadership palestinese nei Territori e a Gaza non ha alcun controllo. Ma, mi spiace dirlo, non è quello che Israele vuole.
La conferenza ha luogo in un momento di cambiamenti dello scenario mediorientale impensabili fino a qualche mese fa. Penso alla morte di Arafat, alle elezioni in Iraq, alla "intifada paci fica" cominciata in Libano... si può essere ottimisti?
A volte penso che tutta la regione sia sul punto di collassare, e tuttavia è vero che in questo momento l’area è investita da un’enorme quantità di cambiamenti. Credo che la situazione si potrebbe sintetizzare con un "tutto sta cambiando", in contrapposizione con un "tutto va male" di qualche tempo fa. Quanto all’idea che la soluzione dei due stati per mettere fine al conflitto israelo-palestinese possa funzionare, direi che le possibilità sono al massimo del 50 per cento. Ritengo invece che le chance che l’Iraq resti unito e superi la crisi siano un tantino migliori. In entrambi i casi nessuno può aggiudicarsi una vittoria "secca". Se gli israeliani nei Territori e a Gaza, così come gli americani in Iraq, insistono nel fare tutto a modo proprio non avranno successo. Ma se accettano di accordarsi su qualcosa di leggermente diverso da quello cui mirano, allora molto è possibile.
Accanto all'intervista all'analista politica inglese il quotidiano della Margherita pone un buon pezzo di Dan Rabà, che si segnala perchè dà un volto e un nome alle vittime della strage di Tel Aviv e tratta della vita nell'esercito israeliano senza demonizzazioni.
Ecco l'articolo:Il processo di pace in Medio Oriente procede su un sentiero sporco di sangue.
L’ultimo attentato ha avuto luogo venerdì scorso a Tel Aviv, in un bar discoteca, lo Stage Club, noto e frequentato da personaggi dello spettacolo, della politica, da capi delle forze dell’ordine e dove Shimon Peres era stato invitato pochi giorni prima. E l’attentato ha avuto la dinamica abituale: l’attentatore suicida si avvicina all’ingresso, viene individuato e si lascia esplodere tra la folla facendo cinque morti e cinquanta feriti. E come in ogni attentato anche questa volta i morti evocano storie uniche che danno senso ai bilanci statistici e rendono particolarmente dolorose le perdite umane. Le vittime di quest’ultima bomba facevano parte di un’unità di Miluim (sono unità composte dai cittadini israeliani che, dopo aver effettuato normale servizio militare vengono richiamati ogni anno per un addestramento di un mese).
L’unità B era stata formata otto anni fa e tra i ragazzi e le ragazze che ne facevano parte era nata una vera amicizia che li portava ad incontrarsi periodicamente, nonostante abitassero distanti gli uni dagli altri. L’incontro allo Stage Club era stato organizzato per la festa di compleanno di Yaron. Gli amici, arrivati in anticipo, aspettavano in strada che il locale aprisse finché, alle 23.30 è esplosa la bomba. Aryeh Nagar di 36 anni, che durante il servizio militare aveva partecipato ai momenti più pericolosi dei conflitti in Libano e in Cisgiordania è caduto nella falsa quiete del centro di Tel Aviv. Ronen Rubenov, 28 anni, cresciuto in kibbutz era autista e doveva decidere tra la vita di campagna e quella di città. Itzik Buzaglo 40 anni, sposato, viveva in un Mosciav (una specie di comune, in cui i mezzi di lavoro sono condivisi del tutto o parzialmente) con la moglie Linda, ora ferita gravemente. Yael Orbah di 28 anni è morta senza essere riuscita a sposarsi con Ofir Gonen, anch’egli coinvolto nell’esplosione. Le vittime non sono eroi, sono giovani che avevano affrontato la cupa vita di Israele riuscendo a portare voglia di vivere ed energia in un’istituzione come l’esercito. Sono cittadini normali che sono stati colti di sorpresa dalla morte mentre vivevano una parentesi di piacere. I sopravvissuti assicurano che «la vita é più forte anche di questo», che si riuniranno «a ricordare » e che continueranno «a vivere in questo modo».
I soldati che combattono nelle varie missioni decise dal governo, non sempre condividono le strategie e l’ideologia dei loro capi. Combattono perché credono nello stato e vogliono garantire unità e fedeltà al loro paese.
E attentati come questo, sebbene siano opera di una minoranza di irriducibili, scuotono l’opinione pubblica di Israele e azzerano il lavoro che la diplomazia internazionale aveva impiegato mesi per compiere. Ed infatti, le reazioni politiche non si sono fatte attendere.
Sebbene Tel Aviv accusi la Siria della strage, Sharon ha attaccato duramente l’autorità palestinese: «Non ci sarà alcun progresso diplomatico – ha detto – finché i palestinesi non avranno intrapreso iniziative energiche per annientare i gruppi terroristici e le loro infrastrutture nei territori affidati alla stessa Autorità palestinese (…). Di recente – ha proseguito – Israele ha dimostrato moderazione proprio allo scopo di permettere quei progressi, ma è chiaro come senza un’azione diligente dell’Autorità palestinese contro il terrorismo, Israele dovrà intensifi- care le sue attività militari, che hanno l’obiettivo di proteggere le vite dei propri cittadini». Mentre tanta gente muore restando coinvolta nella guerra, il processo di pace continua ad accumulare ritardo.
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