La Siria dietro la strage di Tel Aviv
e le altre piste del terrorismo
Testata: Corriere della Sera
Data: 27/02/2005
Pagina: 8
Autore: Giuliano Gallo-Guido Olimpio
Titolo: La Siria dietro la strage di Tel Aviv
Dal CORRIERE di oggi due articoli di analisi sulle responsabilità della Siria nella strage di Tel Aviv. Il primo di Giuliano Gallo. Il secondo, di Guido Olimpio, sull'organizzazione del terrorismo.

Ecco il primo, di Giuliano Gallo:

« La Siria dietro la strage di Tel Aviv »
L'accusa del governo Sharon. Israele e palestinesi a caccia dei terroristi: 7 arresti. Sospetti su Hezbollah
DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME — Chiunque abbia ordinato ad Abdullah Badran di andare a Tel Aviv imbottito di esplosivo e di farsi saltare in aria, sembra per ora aver fallito il suo scopo. Ieri sera la Jihad islamica, dopo vari tentennamenti, si è assunta con un video la paternità della strage. Ma nemmeno la rivendicazione ufficiale, e nemmeno i morti della discoteca « Stage » sembrano aver incrinato irrimediabilmente la distensione fra israeliani e palestinesi. Complicano, invece, e rendono molto tesi i rapporti tra Israele e la Siria. Il governo Sharon punta infatti direttamente il dito contro la Jihad islamica, ma anche contro Damasco. « Disponiamo di prove che legano direttamente la Siria a questo attentato » , ha affermato ieri sera il ministro della Difesa Shaul Mofaz. « Damasco continua ad istigare al terrorismo le organizzazioni palestinesi » . Quanto alla Jihad, che per Mofaz ha eseguito la strage, « agiremo contro i terroristi della Jihad in ogni luogo, fin dove può arrivare la nostra intelligence » . Un chiarissimo avvertimento che Israele potrà colpire all'estero, più precisamente a Damasco dove si sono rifugiati i leader dell'organizzazione. Non siamo più vincolati, ha annunciato Mofaz, alla tregua con la Jihad.
Ecco perché stavolta nei Territori palestinesi non è scattato il copione che fino a poco tempo fa si poteva prevedere dopo ogni attentato: identificazione del kamikaze, distruzione della sua casa, rappresaglia. Stavolta non è successo nulla di tutto questo: Israele si è limitata a congelare il ritiro del suo esercito dalla Cisgiordania, ma Ariel Sharon — rimasto nella sua fattoria nel Negev fino al tramonto ad osservare lo shabbath ebraico e a festeggiare i suoi 77 anni — ha fatto dire alla radio israeliana: « Non sono previste rappresaglie » .
Un atteggiamento insolitamente conciliante il cui merito va ascritto in parte anche a Mahmoud Abbas e al nuovo governo palestinese: perché Abbas non ha solo condannato com'era ovvio l'attentato, ma ordinato al suo uomo forte, il generale Nasser Yussef, di darsi da fare per scovare i responsabili. E gli uomini del generale già sul finire della mattina avevano arrestato due militanti della Jihad della zona di Tulkarem. Nel frattempo l'esercito israeliano, dopo una retata nel villaggio del giovane kamikaze, aveva arrestato altre 5 persone, compreso un imam, Qassem Qassem, accusato di essere uno degli uomini di collegamento con la Jihad islamica. « Questo prova che l'Autorità Palestinese vuole completare quello che Israele sta facendo » , osservava ieri Abdel Sattar Qassem, professore di scienze politiche all'università di An Najah e fratello dell'imam arrestato. Ma secondo il professore gli arresti non sono l'inizio di una campagna contro i militanti più estremisti: « L'Autorità Palestinese è troppo debole per portare avanti un'operazione del genere » .
Eppure è proprio questo il banco di prova di Mahmoud Abbas: deve dimostrare di poter domare il variegato mondo dell'estremismo palestinese. E soprattutto disarmando le milizie. Mahmoud Abbas subito dopo l'attentato aveva tuonato, senza nominarli, contro coloro che intendevano « sabotare il processo di pace » . Parlava dei mandanti e dei finanziatori della Jihad e dell'Hezbollah — sospettata di essere coinvolta nell'attentato — nascosti tutti a Damasco. Abbastanza potenti da approfittare delle divisioni che lacerano i gruppi estremistici della Cisgiordania per « adoperarli » . Come appunto è stato fatto con il giovanissimo Abdullah Badran. « Se avessi saputo cosa aveva intenzione di fare, avrei cercato di fermarlo » , diceva ieri la madre. Tutto questo rende il compito di Mahmoud Abbas molto difficile, ma sicuramente il leader palestinese deve aver capito che il tempo delle mediazioni con i gruppi estremisti è finito: o riesce a dimostrare che può fermarli, o la strada del dialogo si interrompe di nuovo.

Ecco quello di Guido Olimpio:
Gli ordini dello sceicco arrivano nascosti nei videogame

Lo « sceicco » Keis Obeid, alias Abu Hassan, è un cittadino arabo israeliano. Viene da Taibe, cittadina di traffici e commerci. Suo nonno era un deputato del Parlamento israeliano, suo padre ha ricoperto un importante incarico nella municipalità. Ma Obeid non vive più a Taibe. Dal 2000 si è trasferito con moglie e figli all'estero. Prima a Londra, quindi in Libano, dove si è trasformato nella mente di decine di attentati per conto dell'Hezbollah, movimento libanese sostenuto dall'Iran e nemico del dialogo. Il suo nome è stato accostato al rapimento dell'uomo d'affari israeliano Elhanan Tannenbaum ( in realtà pare si trattasse di una spia) e agli ultimi attacchi. Elementi delle Brigate Al Aqsa ( Al Fatah) lo hanno accusato di aver cercato di convincerli a rivendicare la strage di Tel Aviv: « Sono stato io — avrebbe detto al telefono Obeid — a mandare il kamikaze del night » . Loro, però, si sono rifiutati di farlo. L'attenzione si è allora spostata sulla Jihad islamica. La fazione, che collabora con l'Hezbollah, si è comportata in modo strano: ha rivendicato, ha smentito, infine ha diffuso un video assumendosi la responsabilità della bomba. L'ambiguità — spiegano gli esperti — è dovuta al fatto che la decisione di rompere la tregua è venuta da Damasco, dove risiede la leadership in esilio del movimento.
La pista dello sceicco e quella della Jihad oltre ad essere compatibili fanno comodo a tutti. Perché, nel primo caso, viene tirato in ballo un nemico esterno.
Nel secondo, invece, un'organizzazione minore e la Siria, già nel mirino per la crisi libanese. Con una convergenza sul campo: le due piste confermano come i gruppi di fuoco possano essere manipolati da oltre confine. Obeid e i membri della Jihad hanno organizzato una rete in grado di comunicare, di fare arrivare soldi e materiale informatico. Nel febbraio dell'anno scorso è stato intercettato un corriere palestinese. La polizia ha trovato nel suo borsone una Playstation che gli era stata regalata da un amico libanese. Ma nella memory card allegata non c'erano videogame, bensì istruzioni preparate dall'Hezbollah su come allestire bombe, cinture per kamikaze, mine.
Un'altra inchiesta ha dimostrato come Obeid abbia stabilito un patto d'alleanza con un nucleo della Jihad islamica a Tulkarem, la cittadina dalla quale è venuto il kamikaze di venerdì notte.
L'antiterrorismo ha accertato che il gruppuscolo agiva al di fuori di qualsiasi controllo: non obbediva ai capi locali, né a quelli nascosti a Damasco. Un modus operandi emerso anche a Jenin e Nablus, due roccheforti delle « Brigate Al Aqsa » , braccio armato del Fatah. Ai ferri corti con l'Autorità palestinese, i militanti si sono prestati alle manovre dell'Hezbollah. Che ha delegato la gestione a Obeid. Un ruolo svolto da Munir Makdah, leader in un campo profughi nel Sud del Libano, fin quando i suoi finanziatori avevano scoperto che non tutti i fondi finivano agli estremisti palestinesi.
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