Il governo israeliano approva il ritiro da Gaza e modifica il tracciato della barriera difensiva
una cronaca con alcune scorrettezze
Testata: La Repubblica
Data: 21/02/2005
Pagina: 10
Autore: Daniele Mastrogiacomo
Titolo: Storica svolta di Israele: Sì al ritiro da Gaza
LA REPUBBLICA di lunedì 21 febbraio 2005 il governo israeliano ha approvato il ritiro da Gaza e la modifica del tracciato della barriera difensiva.
Nell'articolo si legge di un "muro" di "620 chilometri di cemento armato" (la barriera è invece in gran parte un reticolato) con tanto di "fili dell'alta tensione", per fulminare chi vi si avvicina.
Inoltre le decisioni di Sharon, più che a una sincera ricerca della pace, sono attribuite alle pressioni internazionali e alle difficoltà economiche del paese (che in realtà si sta riprendendo dalla crisi).

Ecco l'articolo:

Giornata storica per Israele. Dopo 38 anni di occupazione, il governo di Ariel Sharon ha preso una doppia decisione che imprime una svolta decisiva nel difficile processo di pace in Medio Oriente. Con 17 voti favorevoli e 5 contrari, il capo del Likud è riuscito a far approvare il piano di ritiro dei militari e lo sgombero di 21 colonie dalla Striscia di Gaza e di altre 4 in Cisgiordania. Non è stata una scelta facile e indolore.
Ci sono volute sette ore di discussione, scandite da momenti di grande tensione in cui si è sfiorata più volte la crisi. Ma alla fine, grazie al voto favorevole di 5 ministri laburisti, che da due mesi fanno parte del nuovo gabinetto, la proposta è passata a maggioranza. Tra i cinque voti contrari, quello di Bibi Netanyahu, ministro delle Finanze e grande oppositore del premier nel partito del Likud. Diversa la votazione per la seconda, importante decisione: il nuovo tracciato del muro divisorio, più vicino ai confini della "linea verde" fissati subito dopo il conflitto arabo-israeliano del 1967.
Venti i voti a favore, uno solo contrario. La barriera difensiva, come la chiamano gli israeliani, 620 chilometri di cemento armato, alta dieci metri e difesa da torrette di avvistamento, fili dell´alta tensione, strumenti tecnologici di allarme e una doppia pista carrabile, ingloberà comunque il 7 per cento del territorio della Cisgiordania (prima era il 16 per cento), compreso il grande insediamento urbano di Maalè Adumim, a metà strada tra Gerusalemme e Ramallah. Saeb Erekat, il capo delegazione palestinese impegnata nella trattative di pace, ha reagito con disappunto: «Il muro e la prosecuzione dei lavori per la sua realizzazione minano la ripresa dei colloqui».
Il nuovo governo di Abu Mazen è stato sempre contrario alla presenza di una barriera divisoria, nonostante i dati dimostrino che essa abbia quasi azzerato le infiltrazioni dei kamikaze all´interno del territorio israeliano. Ma è indubbio che un muro così opprimente non aiuta il dialogo. Ariel Sharon non aveva comunque altra scelta. Sgombera i territori ma lascia intatta la barriera. Pressato da alcuni ministri del suo stesso governo, osteggiato da una folta schiera di parlamentari di centro destra, pesantemente minacciato dal fronte dei coloni a tal punto che i servizi segreti temono seriamente per la sua vita, il primo ministro ha giocato abilmente tutte le sue carte e ha deciso di seguire fino in fondo il suo progetto. Progetto quasi impossibile se si pensa che fu proprio Sharon ad avviare la strategia degli insediamenti colonici e a fondare su questo il suo successo politico.
Ma il blocco dei negoziati, la crescente tensione nei Territori, la difficilissima situazione economica e finanziaria del paese, rischiavano di isolare ulteriormente Israele dal resto del mondo. L´attenta opera diplomatica di questi mesi, le pressioni giunte anche dall´amministrazione Bush (già alle prese con la trappola irachena e ora impegnata in uno scontro diplomatico-economico-militare con Siria e Iran), la condanna della Corte internazionale dell´Aja che considera illegittimo il muro, sono elementi che hanno spinto Sharon a una partita senza alternative. «Ho servito Israele per 60 anni», ha esordito il premier con un´enfasi che coglieva il dramma profondo, quasi viscerale, di un paese e della sua intera storia, «ho superato decine di tappe difficilissime, ho preso centinaia di decisioni che spesso implicavano la vita o la morte e questa, vi confesso, è stata la più dolorosa di tutta la mia vita. Ma è stata una scelta per Israele, per la mia terra. Per la sua sopravvivenza, per il suo futuro». Fuori dal parlamento e dalla sede governo migliaia di coloni hanno protestato con veemenza: «È stato un colpo di Stato politico», «Traditore». Le minacce, sostengono preoccupati i servizi si sicurezza, sono serie. Ci sono forti timori per la stessa vita del premier.
Il piano di ritiro adesso è una realtà. Scatterà il 20 luglio prossimo e si svolgerà in quattro tappe. Per ognuna occorrerà una nuova autorizzazione del governo. Seimila soldati si occuperanno del disimpegno da Gaza e dalla Cisgiordania. Un secondo cordone di altri 4 mila soldati vigileranno sui lavori di smantellamento. Un terzo cordone di tremila poliziotti chiuderà tutte le vie di accesso e isolerà i territori interessati. L´operazione durerà sette settimane. Ma è tutta la regione a vivere momenti di grande fermento politico e diplomatico. Mentre il Libano fa i conti con la morte dell´ex premier Hariri, l´Egitto e la Giordania ufficializzano i loro rapporti con Israele. Dopo 4 anni di assenza torna l´ambasciatore di Amman e per la prima volta anche il Cairo nomina il suo rappresentante, Mohammed Assem Ibrahim, a Tel Aviv.
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