Ora la rivoluzione democratica del Medio Oriente deve arrivare in Iran
un articolo di Michael Ledeen
Testata:
Data: 18/02/2005
Pagina: 1
Autore: Michael Ledeen
Titolo: Referendum in Iran, prossimo passo della rivoluzione democratica
IL FOGLIO di venerdì 18 febbraio 2005 pubblica a pagina 1 dell'inserto un articolo di Michael Ledeen sul processo di democratizzazione del Medio Oriente. Su quello che si sta compiendo in Iraq è su quello che è necessario favorire in Iran.
Non necessariamente con strumenti militari:

C’è mai stato un tempo più drammatico di quello attuale? Il medio oriente è in subbuglio mentre i tiranni falliti si affannano a venire a patti con lo tsunami
politico scatenato dagli eventi in Afghanistan e Iraq. La potenza della rivoluzione democratica può essere notata in tutti i paesi della regione. Persino la famiglia reale saudita ha dovuto mettere in scena una "elezione farsesca". Ma questo primo zoppicante passo non ha imbrogliato nessuno. Hanno potuto votare soltanto gli uomini, non sono stati permessi partiti politici e soltanto la casta dei wahabiti ha potuto organizzare una campagna politica. I
risultati non soddisferanno nessuna persona seria. Mentre l’Iraq formerà un nuovo governo rappresentativo e ondate dopo ondate di elezioni spazzeranno la regione, anche il regime saudita dovrà sottomettersi al volere liberamente espresso dei suoi cittadini. Questa inarrestabile ondata di marea ha raggiunto persino gli angoli più dimenticati e bui del pianeta, scuotendo di recente anche le fondamenta del reame eremita nordcoreano. Viene annunciata la nomina di un nuovo leader allo stesso tempo mentre i mostri di Pyongyang sussurrano
di "avere le armi nucleari" e chiedono di essere legittimati da George W. Bush. Data la poca trasparenza vigente nel paese e l’irrazionalità dei suoi leader, nessuno è in grado di sapere se il Caro leader è tuttora vivo e, se lo è, come mai sia stata proclamata la sua successione. E’ ovvio che i nordcoreani, come del resto fanno tutti gli altri tiranni del pianeta, si comportano come un regime non più sicuro della propria legittimazione. Infatti anche il più longevo dittatore del mondo, il vecchio Castro, sta evocando la possibilità che gruppi statunitensi stiano complottando per assassinare il suo amico venezuelano, proprio mentre Fidel promette morte a tutti coloro che abbiano il coraggio di chiedere un responso popolare sulla sua fallita tirannide. Ecco questi sono i drammatici eventi del nostro tempo. Per afferrare il momento
Certo, libere elezioni non risolvono tutti i problemi. I tiranni fascisti dell’altro secolo erano tutti molto popolari e avevano sempre riscosso enormi successi elettorali; Stalin era veramente adorato da milioni di cittadini sovietici oppressi; e anche oggi si corre il rischio che dei fanatici vincano le elezioni in qualche disgraziato paese. Ma questo è un momento rivoluzionario, siamo inaspettatamente benedetti dall’avere un presidente rivoluzionario, e pochissime persone sono disposte ad appoggiare una nuova dittatura, persino una che si basi sul diritto divino. Ma la ruota gira velocemente, come sempre. Questi momenti sono effimeri e, se non sono afferrati, passano in fretta lasciando un amaro gusto di sconfitta in bocche inaridite e gole serrate. Il mondo guarda a noi per ulteriori azioni, non solo
grandi discorsi, e dobbiamo essere ben consci sia della qualità del momento sia della strategia rivoluzionaria che dobbiamo adottare per assicurarci il successo. Soprattutto dobbiamo sostenere quelli che l’hanno capito subito, a cominciare dal presidente, e ignorare i consigli di quelli che non l’hanno capito, compresi alcuni dei nostri "famosi esperti di professione". Le due grandi elezioni degli ultimi mesi si sono tenute in Iraq e in Ucraina. In ambedue i casi, il pensiero convenzionale si è dimostrato errato. Infatti il pensiero convenzionale nutriva la nozione elitaria che né gli ucraini né gli iracheni fossero "pronti" per la democrazia, dato che non disponevano di uno o altri fattori indispensabili a una cosiddetta società libera. Le loro immaginate limitazioni variavano da tradizioni storiche e conflitti interni fino a una mancanza di istruzione e cultura e insufficiente "stabilità" interna. Quanto detesto la parola stabilità! Non è forse l’antitesi di tutto quello che conta per noi? Noi siamo la personificazione del cambiamento cambiamento rivoluzionario, sia in patria sia all’estero. Nella maggior parte dei casi, quelli che deplorano la mancanza di stabilità stanno in realtà fornendo delle scuse ai vari dittatori e svendendo così masse di popolazioni che aspirano alla libertà. E mentre gli apologeti dell’antiamericanismo invocano la stabilità, noi, che incarniamo il capitalismo democratico, stiamo scatenando in tutte le direzioni una distruzione creativa, spedendo nel cestino della spazzatura grandi corporazioni industriali d’altri tempi, costringendo alla pensione grandi leader d’altri tempi, e incitando gli uomini di tutto il mondo a cercare la propria felicità nell’affermare il loro diritto a essere liberi. Gli ucraini si sono conquistati il controllo mentre gli iracheni ancora devono combattere contro gli intriganti e i mestatori che non hanno mai creduto nella loro democrazia e che ancora cercano di piazzare i loro prestanome nei posti di potere a Baghdad. Chiunque legga le dozzine di blog che arrivano dall’Iraq e che danno voce a un ampio spettro di opinioni politiche deve per forza notare che il governo ad interim di Allawi è stato un vero fallimento. I risultati delle elezioni parlano chiaro: la lista di Allawi è stata votata in proporzione uno a cinque rispetto a quelle dei suoi avversari, benché il premier disponesse di stanziamenti assai più cospicui di quelli dei suoi avversari. L’ambasciatore Negroponte, il segretario di Stato Rice e il direttore della Cia Goss dovrebbero costringere i loro "esperti" ad ammettere l’errore e a smettere di sforzarsi di insediare un presidente e un primo ministro che godano del consenso di Foggy Bottom piuttosto che degli iracheni. Se persisteranno nel voler imporre il nuovo governo iracheno e se continueranno a intromettersi nella definizione della Costituzione irachena, finiranno con attirarsi le antipatie della stragrande maggioranza degli iracheni. Nonostante gli innumerevoli errori di giudizio e di mandato, abbiamo, per il momento almeno, conquistato una grande vittoria. Dobbiamo essere abbastanza abili, e abbastanza modesti, da valorizzare questo risultato. Questa grande vittoria è dovuta in gran parte all’eroica prestazione delle nostre forze armate, soprattutto in quel punto di svolta che è stata la battaglia di Fallujah. La nostra vittoria a Fallujah ha avuto enormi conseguenze: prima di tutto perché le informazioni che abbiamo raccolto lì ci hanno permesso di catturare o uccidere un numero considerevole di terroristi e di loro leader. In secondo luogo, la vittoria ha anche paralizzato la spina dorsale della rete del terrore, perché ha tolto il velo alle menzogne dei terroristi proprio nel cuore della loro campagna d’arruolamento. Come i terroristi catturati hanno raccontato sulle radio e sulle tv irachene, si erano arruolati per il jihad perché era stato detto loro che la crociata antiamericana in Iraq era un gran successo e perché volevano partecipare all’uccisione di ebrei, crociati e infedeli. Ma quando sono arrivati in Iraq – e hanno visto che i capi confiscavano immediatamente i passaporti in modo da impedire loro di sfuggire al loro terribile destino – hanno scoperto che era vero l’opposto. Il massacro -di cui Fallujah è stato una prova inconfutabile – era a danno degli jihadisti, per mano della coalizione e delle forze irachene. In terzo luogo, la brillante strategia dell’Esercito e della Marina a Fallujah ha conseguito una sorpresa strategica. I terroristi si aspettavano un attacco da sud e quando li abbiamo annientati inaspettatamente, piombando nel cuore della città da nord, si sono spaventati e sono scappati, lasciandosi alle spalle una ricca scia di informazioni, poi ampliate grazie alla collaborazione di coloro che prima volevano sacrificarsi come martiri. Soprattutto, l’intelligence da Fallujah – come mi hanno riferito alcuni militari ritornati dalla roccaforte sunnita – ha documentato, con ricchezza di dettagli, il massiccio coinvolgimento dei governi di Siria e Iran nella guerra in Iraq. E la folta presenza di "reclute" saudite tra i jihadisti lascia pochi dubbi sul fatto che il governo di Riad, come minimo, non stia facendo molto per fermare da sud il flusso di wahabiti fanatici. Quindi la grande forza della rivoluzione democratica è ora in rotta di collisione con i ben radicati obiettivi tirannici di Teheran, Damasco e Riad. Ironia vuole che la "Arab street", per lungo tempo considerata il nostro nemico mortale, ora minaccia i tiranni musulmani e chieda il nostro sostegno. Questo è il nostro compito più immediato. Sarebbe un errore di proporzioni gigantesche se, sull’orlo di una trasformazione rivoluzionaria del medio oriente, rinunciassimo a questa nostra storica missione. Sarebbe doppiamente tragico se lo facessimo per colpa di uno di questi due potenziali fattori di fallimento: il volersi concentrare soltanto sull’Iraq e considerare il potere militare come l’elemento principale della nostra strategia rivoluzionaria. La rivoluzione spesso arriva sulla canna di un fucile, ma non necessariamente sempre. Avendo dimostrato il nostro potenziale militare, possiamo ora utilizzare la nostra artiglieria politica contro i maestri sopravvissuti del terrorismo. Il più importante campo di battaglia del medio oriente è – già da molto tempo – la Repubblica islamica d’Iran, la madre del terrorismo moderno, creatrice di Hezbollah e del Jihad islamico, la prima sostenitrice di Hamas. Quando cadranno i mullah assassini di Teheran la rete del terrore si frantumerà e la dottrina jihadista diventerà l’incarnazione delle bugie fallimentari e del messianesimo distorto. Lo strumento per la loro distruzione è la rivoluzione democratica, non la guerra, e la prima ‘bomba’ nella battaglia politica in Iran è un referendum nazionale. Facciamo in modo che gli iraniani esprimano la loro
volontà nel modo più semplice possibile, cioè rispondendo a questa domanda:
"Volete una Repubblica islamica?". Mandiamo Lech Walesa e Vaclav Havel a supervisionare il voto. Facciamo in modo che le parti opposte competano in modo
aperto e libero, che i giornali scrivano, che le radio e le televisioni trasmettano, sostenute completamente dalle nazioni libere. Se i mullah accetteranno questa sfida, sono convinto che l’Iran sarà nel giro di mesi sul sentiero verso la libertà. Se, temendo una reazione del proprio popolo, i tiranni di Teheran rifiutassero il referendum libero e continuassero con la loro repressione, allora le nazioni libere sapranno che è arrivato il momento di mettere in campo tutte le pressioni possibili per permettere agli iraniani di ottenere la libertà.
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