Il voto alla Knesset sul ritiro da Gaza, il governo di Abu Mazen, l'alleanza tra Siria e Iran e l'ambiguità di Mosca
cronache e analisi
Testata:
Data: 17/02/2005
Pagina: 1
Autore: un giornalista
Titolo: Le forze di Sharon - S'intravede il governo di Abu Mazen - I soliti (tre) sospetti
IL FOGLIO di giovedì 17 febbraio 2005 pubblica in prima pagina un articolo sul voto alla Knesset che ha approvato il ritiro da Gaza e sul cambio dela capo di stato maggiore.
Ecco l'articolo:

Gerusalemme. Ieri, in una giornata storica per Israele, perché la Knesset, per la seconda volta dopo il Sinai, ha votato un piano di disimpegno (da Gaza) e i relativi finanziamenti, l’esercito israeliano si è trovato
sotto choc quando il ministro della Difesa, Shaul Mofaz, ha annunciato che non avrebbe prolungato di un altro anno la carica di Moshe Yaalon, capo di Stato maggiore, detto "Bughi". Il premier Ariel Sharon ha deciso di ringraziare il generale per i suoi tre anni di lavoro e di mandarlo in pensione, come previsto dalla legge, senza la possibilità di allungare il mandato, com’era successo invece a tutti i predecessori. Bughi lascerà l’esercito il 9 luglio, proprio una settimana prima della prevista attuazione del piano di ritiro da Gaza e dal nord della Cisgiordania. La decisione ha causato stupore fra gli alti ufficiali dell’esercito, che non ne hanno capito la ragione e hanno accusato Mofaz di aver agito in base a screzi personali fra lui e Yaalon. "Bughi non ha fallito la sua missione, quindi non può esserci altro motivo per una tale decisione se non le incomprensioni personali", hanno detto diversi ufficiali. La questione del prolungamento della carica, negli ultimi mesi, all’interno delle due segreterie, quella di Mofaz e quella di Yaalon, era stata a lungo discussa. Era ormai diventata una consuetudine l’automatico allungamento del mandato di un capo di Stato maggiore dopo il quarto anno d’ufficio. Proprio ora che l’esercito israeliano deve affrontare una missione difficile, l’attuazione
del piano di disimpegno, c’era una ragione in più per prolungare il mandato del generale. Bughi ha chiesto di rimanere in carica un altro anno, come avevano fatto i capi di Stato maggiore prima di lui. Dalla segreteria di Mofaz è arrivata però un’altra proposta: l’opzione di lasciare a Yaalon il comando per altri sei mesi soltanto, fino al primo gennaio 2006. Il generale ha allora risposto con un secco "no", dicendo che non è giusto lasciargli completare solo la missione del disimpegno senza poi fargli portare a termine la seconda fase di stabilizzazione. Ad Ariel Sharon questo aut aut, come lui stesso ha detto, non è piaciuto. Il fatto che il capo di Stato maggiore abbia avuto pessimi rapporti con Mofaz nell’ultimo anno non l’ha certo aiutato. I giornali israeliani riportavano ieri le proteste di alcuni ufficiali, per i quali si tratterebbe di una destituzione e di una decisione personale, che non riguarda un possibile disaccordo di Bughi sul piano di disimpegno. "Non so come si possa trattare così un capo di Stato maggiore che ha guidato l’esercito nella lotta al terrorismo palestinese con determinazione e ha contribuito al raggiungimento di una svolta strategica di cui oggi siamo
tutti coscienti", ha detto un alto ufficiale. "La settimana scorsa c’è stato l’annuncio della nomina di un nuovo capo del servizio di Sicurezza interno, Yuval Diskin, che entrerà in carica a metà maggio. Ora ci si chiede chi sarà responsabile di portare il sistema di sicurezza israeliano verso il disimpegno". Sembra che sia Sharon sia Mofaz non fossero contenti delle posizioni indipendenti che Yaalon aveva espresso durante la seconda Intifada. Durante la tregua dell’estate 2003 aveva criticato le idee di Mofaz e Sharon: secondo lui erano troppo dure nei confronti dei palestinesi. Pensava che il ministro e il premier non sapessero sfruttare l’opportunità emersa con il cessate il fuoco. Sharon ha detto che, mentre presentava il piano di disimpegno, Yaalon non era stato un sostegno al suo progetto. In passato il capo di Stato maggiore aveva dichiarato che "un ritiro sotto il fuoco e senza un accordo politico con l’altra parte è come un vento di coraggio che soffia in
favore del terrorismo". Bughi sentiva Mofaz troppo presente: secondo lui cercava di influenzare l’esercito. Fonti vicine al ministro della Difesa hanno detto che "Mofaz ha il diritto di lavorare con chi, secondo lui, è determinato a portare l’esercito verso la missione del disimpegno. Si prolunga la carica quando si pensa che il capo di Stato maggiore sia fondamentale per perseguire certi obiettivi. Sembra che il premier e il suo ministro non pensino che questo sia il caso". La notizia è stata data al capo di Stato maggiore durante un incontro casuale con il ministro Mofaz. L’annuncio formale è stato invece fatto verso la mezzanotte di mercoledì. Il direttore di Maariv, Amnon Dankner, in un editoriale intitolato "Ladri di notte", spiega come Yaalon sia rimasto sempre attaccato alla sua verità senza accontentare nessuno in particolare. Dankner ricorda il pessimismo di Bughi di fronte alle intenzioni di pace dei palestinesi, ancora prima che gli attacchi terroristici entrassero a far parte del quotidiano, o il suo sostegno ad Abu Mazen (quando era ancora primo ministro di Yasser Arafat), la sua convinzione della necessità di dare alla controparte una possibilità. Entro un un mese e mezzo, il governo annuncerà il successore: l’attuale vicecapo di Stato maggiore, il generale Dan Halutz, che prima comandava l’aeronautica, e il suo predecessore, o il generale Gabi Ashkenazi, proveniente dalla Brigata "Golani". La scelta porterà cambiamenti radicali nell’esercito.
A pagina 3 un articolo sul nuovo governo palestinese, "S'intravede il governo di Abu Mazen":
Ramallah. Il nuovo governo palestinese è pronto. Ieri il comitato centrale di Fatah, il partito del rais Mahmoud Abbas (Abu Mazen), si è riunito a Ramallah e ha compilato la lista dei nuovi membri dell’esecutivo. Per l’annuncio ufficiale si dovrà però aspettare martedì, quando il presidente presenterà la sua squadra al consiglio legislativo palestinese, che dovrà poi approvarla. Proprio a causa della sua agenda densa di impegni, il rais ha annullato (e per la seconda volta) la sua visita a Bruxelles, prevista per lunedì. Non sono stati resi noti i nomi dei futuri ministri, ma il sito del quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato ieri le prime indiscrezioni. Il generale Nasser Youssef, come anticipato dal Foglio, sarà quasi certamente nominato ministro per la Sicurezza interna. Si tratta di un ruolo di estrema importanza (per uno degli uomini più fedeli al presidente) soprattutto in vista del piano di ritiro dalla Striscia di Gaza del primo ministro israeliano Ariel Sharon. Le operazioni per il disimpegno partiranno infatti a breve e le forze dell’Anp dovranno garantire da sole la sicurezza. Già nel corso di questa settimana Israele cederà all’Autorità la piena gestione della città di Gerico. Accanto al primo ministro, Ahmed Qurei (Abu Ala), e a stretto contatto con lui, lavorerà l’attuale ministro degli Esteri, Nabil Shaath, in qualità di suo vice. Il premier avrà due numeri due. Il secondo – fonti palestinesi confermano al Foglio – sarà l’attuale ministro del Tesoro, Salaam Fayad, l’uomo che in passato ha cercato di fare chiarezza nelle casse dell’ex presidente Yasser Arafat. Nabil Shaath passerà invece il testimone a Nasser al Qidwa, che otterrà così il portafoglio degli Esteri. Al Qidwa, noto a livello internazionale per essere stato a lungo il volto dei palestinesi alle Nazioni Unite (è stato infatti l’inviato dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a Palazzo di Vetro), è nipote di Arafat. La riunione di ieri, secondo fonti interne palestinesi, non ha però risolto totalmente i contrasti tra Abu Mazen e Abu Ala. E’ stato infatti difficile per il presidente e il primo ministro trovare, nei giorni successivi alle elezioni, un’intesa sulla composizione della squadra di governo. Il neoeletto rais non è infatti disposto a cedere ai diktat della vecchia guardia palestinese, composta da un’ala di Fatah formata da figure molto vicine all’ex presidente Arafat (con cui Abu Mazen, ai tempi del suo premierato, aveva avuto non pochi contrasti). Questa frattura interna al partito è stata abilmente sfruttata nelle recenti elezioni amministrative (tenutesi poco dopo il voto presidenziale) da Hamas, che ha ottenuto una consistente vittoria a livello locale. Abbas è determinato nel voler porta re a termine le riforme politiche e quelle delle forze di sicurezza. Non ha intenzione di essere frenato, com’era successo ai tempi in cui era il premier di Arafat, e si muove scaltro al punto da scongelare i fondi di Hamas, ma soltanto in cambio di una tregua. Il rais, nelle ultime settimane, è stato inflessibile
nel cercare di imporre gli uomini a lui più vicini nella composizione della futura formazione governativa. C’è stato sicuramente attrito tra Abu Mazen e Abu Ala sul ruolo da affidare nella squadra a Mohammed
Dahlan, già capo della Sicurezza a Gaza, oggi consigliere per la Sicurezza del presidente e personaggio inviso al primo ministro. Dahlan è uomo molto potente, almeno a Gaza: potrebbe svolgere, durante il disimpegno israeliano, un ruolo centrale, grazie ai suoi contatti (soprattutto con l’Egitto), alle sue armi e ai suoi soldi. Non si sa ancora se otterrà un portafoglio nel nuovo esecutivo.
Ancora in prima pagina un'analisi sull'alleanza Siria-Iran e sull'ambigua politica mediorientale della Russia, "I soliti (tre) sospetti"
Mosca. "Un fronte comune contro le minacce". Teheran ieri ha reso esplicita, per
bocca del vicepresidente Mohammed Reza Aref, la strategia di solidarietà con Damasco, sancita dalla visita che il primo ministro siriano, Naji al Otari, ha compiuto, sempre ieri, nella capitale della Repubblica islamica per esplorare con gli amici iraniani le possibilità di una cooperazione industriale e finanziaria. L’alleanza non è nuova, ma i due governi hanno pensato che fosse bene ribadirla in seguito all’attentato contro l’ex premier libanese, Rafiq Hariri, e ai conseguenti sospetti sulle responsabilità siriane. L’asse Teheran-Damasco gode di un alleato di peso: il Cremlino. Che ieri ha fatto capolino quando un incidente nella base nucleare di Bushehr è stato inizialmente interpretato come un attacco missilistico sull’Iran: dopo gli accertamenti sulla natura dell’esplosione, l’ambasciata di Russia a Teheran ha reso noto che Bushehr, alla cui costruzione il Cremlino sta dando un forte contributo, non era stata colpita da alcun missile. Le frequentazioni di Vladimir Putin non sono certo segrete, ma gli eventi degli ultimi giorni hanno rivelato che il presidente russo è certo di avere un ampio margine di manovra sulla scena internazionale. Altrimenti non si spiegherebbe la missiva che martedì Putin ha
inviato al premier israeliano, Ariel Sharon: la lettera annuncia l’intenzione del Cremlino di vendere alla Siria sistemi antiaerei avanzati di natura eminentemente difensiva – senza specificare nel dettaglio quali – e offre a Gerusalemme garanzie non molto precise del fatto che tali sistemi non potranno essere impiegati al di fuori della loro destinazione e, quindi, non presentano il rischio di cambiare l’equilibrio delle forze militari in medio oriente né potranno essere ceduti a formazioni terroristiche, dal momento che saranno montati su postazioni mobili ma diventeranno inutilizzabili una volta rimossi dai loro alloggi. Non che Sharon si facesse troppe illusioni: il problema di questa vendita russa a Damasco è noto da almeno due anni e all’epoca Mosca si era dimostrata ben più aperta alle obiezioni israeliane. Soltanto che, strada facendo, l’affare si è fatto assai interessante sul piano economico – considerato che la cessione riguarda gli ormai noti SA-18 "Igla" – e sono mesi che il governo israeliano, conquistata la solidarietà statunitense sull’argomento, si dedica a una campagna diplomatica preventiva, pur sapendo che, come Putin ha confermato martedì, il contratto sarà concluso. Sharon però, nella conferenza stampa convocata dopo aver ricevuto la lettera del Cremlino, non ha potuto dar sfogo ai suoi reali sentimenti e si è dovuto accontentare di dichiarare la propria "insoddisfazione". Eppure il capo del governo di Gerusalemme sa bene che gli SA-18 possono forse, con un notevole sforzo di fantasia, essere considerati una semplice arma difensiva sul tipo degli Stinger statunitensi, ma la tecnologia necessaria per renderli attivi in caso di rimozione dalle piattaforme è accessibile se non a tutti, sicuramente a molti. Perfino gli esperti russi concordano sul fatto che gli "Igla" sono l’arma ideale per le formazioni terroristiche. Sharon misura sulla propria pelle le prime contraddizioni della grande coalizione contro il terrorismo internazionale. Negli ultimi anni Israele e Russia hanno stretto numerosi rapporti, sul piano commerciale e della sicurezza, tali da rendere oggi problematica l’apertura di una crisi. Così il governo israeliano è costretto a contenere la propria irritazione, dando incarico ai funzionari di spargere voci rassicuranti e delegandola risoluzione del problema agli Stati Uniti. Il vertice di Bratislava con Bush Il vertice di Bratislava del 24 febbraio tra Putin e George W. Bush si annuncia alquanto delicato. All’"amico Vladimir" il presidente statunitense dovrà chieder conto del rinnovato attivismo di Mosca sullo scenario mediorientale. In particolare il punto da mettere in chiaro è il disegno strategico che sta dietro all’impegno con cui il Cremlino sta dando vita all’asse Russia-Siria-Iran, se cioè le vendite di armi a Damasco e la collaborazione nucleare con Teheran siano soltanto un modo sicuro e veloce di far cassa e di dar vita a un blocco di interlocutori disposti ad aprire una seria trattativa con Israele. O se invece il progetto di Putin sia quello di creare nella regione una sorta di bipolarismo da ribilanciare anche sul piano degli armamenti e di portare a compimento il disegno sempre perseguito dall’ex ministro degli Esteri ed ex premier, Evgenij Primakov, con il giovane Bashar el Assad nel ruolo che fu dell’iracheno Saddam Hussein. Sono in molti a sospettare che la Russia voglia la rivincita della partita persa nel ’90- ’91. E sono in molti a vedere nell’attentato di Beirut la mossa d’inizio paragonabile a quella che fu a suo tempo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq. Il segretario di Stato di Washington, Condoleezza Rice, dabuona conoscitrice della storia russa e sovietica, propende per questa seconda ipotesi. Ma a complicare gli intrecci diplomatici c’è l’emergenza del terrorismo internazionale, un’opportunità che Putin sfrutta fino in fondo, saggiando in continuazione il terreno.
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