Come da copione: il quotidiano comunista rilancia infondate accuse a Israele per l'assassinio di Hariri
senza prove, senza indizi e con qualche censura di dichiarazioni non strumentalizzabili
Testata: Il Manifesto
Data: 16/02/2005
Pagina: 1
Autore: Stefano Chiarini - Michele Giorgio - un giornalista
Titolo: La Siria nel mirino Usa - Luci e ombre sulla "pista saudita" - Da copione: è la Siria
"La Siria nel mirino Usa" è l'articolo di Stefano Chiarini in prima pagina sul MANIFESTO di mercoledì 16 febbraio 2005, a commento delle reazioni statunitensi all'assassinio dell'ex premier libanese Rafik Hariri.
Chiarini non spreca argomenti per allontanare i sospetti da Damasco, si limita a supporre che "Damasco abbia tutto da perdere dalla scomparsa dell'uomo con cui aveva trovato in passato una proficua intesa", omettendo di menzionare i forti contrasti che nel presente opponevano il regime siriano al leader assassinato.
Di argomenti per discolpare Damasco, però, non c'è ovviamente bisogno, se si dispone di colpevoli buoni per tutte le occasioni.
Chiarini li ha, nella sua manica di giornalista-prestigiatore, e sono, ovviamente, Israele e i neocon americani. Che non vengono esplicitamnte accusati di aver ucciso Hariri, ma solo di perseguire un disegno di destabilizzazione del Medio Oriente, e della Siria in particolare, cui molto giova l'assassinio del politico libanese. Anche le accuse,come la difesa, non richiedono argomentazioni, a parte quella curiosa che verte sulle richieste statunitensi a Damasco, sintetizzabili nella fine del sostegno al terrorismo, dunque decisamente ragionevoli, ma giudicate irricevibili e volte soltanto alla creazione di un "casus belli".

Ecco l'articolo:

L'autobomba che ha ucciso lunedì Rafik Hariri, subito seguita dalle accuse americane di un coinvolgimento siriano nell'attentato (nonostante Damasco abbia tutto da perdere dalla scomparsa dell'uomo con cui aveva trovato in passato una proficua intesa) e il ritiro dell'ambasciatore americano a Damasco, sembra abbiano aperto ufficialmente la fase due della «guerra permanente» iniziata in Iraq e ora estesa, con forme e modalità non necessariamente uguali, al Libano e alla Siria. Le parole pronunciate dal presidente Bush, dal nuovo ministro degli esteri Condoleezza Rice e, soprattutto, quanto sta avvenendo in Iraq, non lasciano dubbi sui piani di destabilizzazione, di balcanizzazione e di libanizzazione coltivati a Washington per la regione mediorientale. Con il passare delle settimane le minacce e le richieste americane a Damasco si vanno facendo ogni giorno più dure e assomigliano sempre più ai diktat rivolti a Baghdad prima della guerra del 2003: chiusura dei confini con l'Iraq, ritiro totale dal Libano senza un analogo ritiro israeliano dal Golan, scioglimento degli Hezbollah, disarmo dei campi palestinesi, consegna di tutti i membri del Baath iracheno fuggiti a Damasco, chiusura degli uffici dei movimenti palestinesi di opposizione.
L'obiettivo è, come ormai è chiaro, Damasco.
E se l'obiettivo vero è Damasco, a Beirut tutti sanno che anche i fragili equilibri del «paese dei cedri» ricreatisi dopo 15 anni di guerra civile, nel 1989 con gli accordi di Taif, rischiano anch'essi di saltare in aria come l'auto di Hariri con un effetto devastante sul Libano e sulla regione. A nulla finora è valsa la disponibilità della Siria a riprendere il dialogo con gli Stati uniti e le trattative con Israele sulla base del rispetto reciproco e delle risoluzioni Onu sul ritiro israeliano da tutti i territori occupati compreso il Golan, in cambio di una pace piena con lo Stato ebraico. Sharon non ha alcuna intenzione di lasciare il Golan o la West Bank e non vuole nessuna trattativa basata sulle risoluzioni Onu. Idem Bush che sembra aver abbandonato ogni ruolo di mediazione per sposare in toto le posizioni di una pax israeliana. La relativa tranquillità di un paese come il Libano, uscito dalla guerra civile mantenendo il suo «carattere arabo», con un clima di libertà - nonostante la presenza siriana - sconosciuto agli altri paesi della regione, che rispetta la extraterritorialità dei campi profughi palestinesi (pur discriminandoli pesantemente) e la legittimità della resistenza «nazionale» degli Hezbollah, risulta insopportabile a Tel Aviv e a Washington. Ed ecco riemergere, tra il fumo dell'auto di Hariri, tutti gli obiettivi dell'invasione israeliana del 1982: togliere i profughi palestinesi dall'equazione mediorientale, cacciare la Siria dal paese per allentare il carattere arabo del Libano e spingerlo ad una pace separata con Israele indipendentemente dal ritiro israeliano dai territori occupati di Palestina e del Golan, creare un nuovo ordine in Medioriente sulle ceneri del nazionalismo arabo, disgregando gli attuali Stati con l'arma dei conflitti etnico-confessionali e appoggiandosi alle minoranze non arabe e non musulmane della regione (a cominciare dai cristiano-maroniti e dai kurdi).

Gli ideologi di Washington non vogliono impegnarsi in un lungo e difficile processo di pace con gli interlocutori presenti sulla scena mediorientale ma solo usare tutta la loro potenza per portare avanti una «distruzione creativa» del Medio Oriente dalla quale nascano sudditi disposti ad accettare la pax americana e il dominio israeliano sullla regione. Gli altri, per i fondamentalisti di Washington vanno distrutti. Siano essi Stati come la Siria e l'Iraq, soggetti politici, movimenti di liberazione nazionale, o anche solo televisioni e giornali. Una politica di destabilizzazione che rischia di trasformare l'intero Medio Oriente in un grande Iraq e di coinvolgere l'Europa in un conflitto contro i suoi stessi interessi.
A pagina 2 troviamo l'articolo di Michele Giorgio "Luci e ombre sulla "pista saudita".
Il sommario dell'articolo recita: "Cui prodest? Il principale beneficiario di un'instabilità regionale è Israele, sostengono politologi ed ex diplomatici, soprattutto in Egit".
L'articolo si apre riportando le dichiarazioni di Khaled Meena, direttore del quotidianio saudita Arab News. Ma una parte del suo pensiero viene omessa.
Su AVVENIRE, nell'articolo di Francesca Fraccaroli "Ma il mondo arabo scagiona Assad leggiamo infatti la seguente dichiarazione di Meena, irreperibile sul quotidiano comunista:
"Per la prima volta solo una minima parte degli arabi ha chiamato in causa Israele, il punto è che l'assassinio di Hariri non fa gli interessi di Damasco né di Tel Aviv".
Al MANIFESTO però interessano solo gli arabi che "chiamano in causa Israele", dovessero anche ridursi a un esigua minoranza.
Il resto dell'articolo è dedicato alle inverosimili tesi complottiste di alcuni di questi.
Ecco l'articolo:

Khaled Meena, direttore del quotidiano saudita Arab News non sa darsi una spiegazione dell'attentato in cui lunedì è rimasto ucciso l'ex premier libanese Rafik Hariri. Su due punti però non ha dubbi. «Questa strage non fa gli interessi di Damasco e non è stata organizzata da estremisti islamici decisi a spezzare i forti legami tra Hariri e l'Arabia saudita», ci ha detto con tono perentorio. «Il presidente siriano Bashar Assad - ha aggiunto - è un leader onesto che vuole risolvere i problemi e non aggravarli, non avrebbe mai potuto avallare un atto del genere». Meena non ha dato credito alla rivendicazione giunta poco dopo l'attentato da parte del gruppo (sino a quel momento sconosciuto) «Vittoria e Jihad della Terra di Shaam» che ha detto di agire «dalla terra di Haramein», ovvero delle due città sante islamiche in Arabia saudita, la Mecca e Medina. «Si ha la tendenza ad esagerare le gesta degli estremisti, a sopravvalutare le loro capacità organizzative ed operative. Trovo improbabile un coinvolgimento nell'accaduto di al Qaeda nella penisola arabica», ha concluso. Eppure, nonostante le smentite del direttore di Arab News, resta in piedi la pista saudita, o, con più precisione, di militanti islamici intenzionati a dimostrare ai Saud che sono in grado di esportare la lotta all'estero, fino a colpire gli amici stretti della monarchia, quale era Rafik Hariri. L'ex premier aveva interessi economici in tutto il mondo arabo (e un patrimonio stimato in 10 miliardi dollari) ma era con Riyadh che manteneva le relazioni migliori. Aveva anche realizzato alcuni complessi edilizi per conto dello stesso Re Fahd e coinvolto società saudite nella ricostruzione del Libano uscito dalla guerra civile. Da Kuwait city, l'analista Abdallah Oteibi, del quotidiano Al-Kabas, ha spiegato che «diversi militanti sauditi di Al-Qaeda di recente si sono rifugiati in altri stati arabi per sfuggire alla repressione dei servizi segreti del loro paese. Gli ultimi attacchi in Kuwait hanno avuto per protagonisti anche cittadini sauditi». Oteibi ha fatto riferimento alle difficoltà crescenti che gli attivisti armati, ma anche semplici oppositori politici, trovano nel continuare le loro attività in Arabia saudita. Le forze speciali setacciano regolarmente quartieri popolari di Riyadh, come Dirah e Suweibi, dove assieme alle decine di migliaia di immigrati dall'Asia, vivono i sauditi più poveri ed emarginati, senza lavoro e divenuti ancora più sensibili che in passato al richiamo del radicalismo religioso e all'appello al Jihad lanciato da al Qaeda. «La campagna di arresti avviata dal governo è stata durissima, senza misericordia, contro chiunque metteva soltanto in discussione la legalità del potere assoluto della monarchia - ci ha riferito Nasser M., un giornalista della capitale saudita - molti, sentendosi minacciati, hanno preferito lasciare il paese e in esilio si sono uniti a gruppi locali. Se prima non erano terroristi, invece all'estero cominciano a diventarlo e a praticare la lotta armata».

Al Cairo gli analisti egiziani invece hanno privilegiato l'ipotesi di un coinvolgimento israeliano. Il politologo Gamal Salama, intervistato da Al-Akhbar, ha detto «non posso accusare la Siria che non ha alcun interesse in questa faccenda. Scarto completamente questa ipotesi. Israele invece ha interesse a spingere verso un confronto siro-libanese. Il suo obiettivo è quello di accendere un nuovo focolaio di instabilità in Medioriente e di eliminare la guerriglia di Hezbollah che, con il sostegno di Damasco, opera lungo il confine». Forse, ipotizza, Salama, l'assassinio di Hariri, «è il preludio di una azione di forza contro la Siria. Da lungo tempo qualcosa bolle in pentola, non si sa cosa, né quando, ma qualcosa si prepara contro Damasco». Analoga la posizione dell'ex ministro degli esteri Rauf Ghoneim, secondo il quale «la Siria non aveva bisogno di complicare la situazione perché si trova già nel mirino della comunità internazionale a causa delle violazioni della risoluzione 1559 dell'Onu che chiede il suo ritiro dal Libano».

Alla pioggia di accuse, gli analisti siriani hanno replicato smentendo seccamente ogni coinvolgimento del loro paese. A difesa di Damasco, minacciata da quello che potrebbe rivelarsi un complotto, è sceso anche il politologo dissidente Michel Kilo. Secondo lui sarà necessario aprire «un'inchiesta imparziale ed onesta di cui dovranno essere resi noto al più presto i risultati». Kilo ha sottolineato che Hariri era il «capo moderno dei sunniti libanesi, una comunità importante. La scomparsa di un uomo tanto rilievante, interlocutore privilegiato della comunità mondiale, avrà certamente implicazioni interne, regionali e internazionali». La stampa siriana ha perciò puntato l'indice contro Tel Aviv. «Israele ha adottato una posizione ostile al ruolo arabo (siriano) in Libano sin dalla fine della sua occupazione del sud del Libano», ha scritto il quotidiano governativo Tishrin.
Se qualcuno, come l'opposizione libanese, compreso il leader druso di sinistra Walid Jumblatt, invece accusa Damasco, IL MANIFESTO non si scompone. E' un'altra prova del complotto.
Titola infatti il quotidiano comunista: "Da copione: è la Siria".
Ecco il testo:

Come da copione le reazioni in Libano (e fuori) il giorno dopo l'attentato di Beirut che ha provocato la morte dell'ex premier Rafiq Hariri e di altre 14 persone. Sul banco degli imputati, almeno fra l'opposizione libanese e il mondo esterno - a cominciare dagli Usa -, la Siria. L'amministrazione Bush ha ritirato ieri l'ambascitrice Margaret Scobey da Damasco e ha sollecitato una riunione urgente del Consiglio di sicurezza per vedere se è possibile imporre un'altra risoluzione anti-siriana, dopo la 1559 dell'anno scorso che, in accordo con la Francia di Chirac, imponeva alla Sira di ritirarsi dal Libano. Naturalmente condita di ulteriori sanzioni dopo quelle con cui in maggio Bush ha punito Bashar al-Assad. Anche Israele non ha perso l'occasione: il ministro della difesa Shaul Mofaz si è detto certo, alla radio israeliana, che gli autori sono un gruppo «filo-siriano». Il premier Sharon dal canto suo, pur «senza neanche rispondere» ai sospetti su un coinvolgimento del Mossad, ha alzato il tiro ponendo nuove condizioni per la ripresa dei negoziati con Damasco sulla restituzione delle colline del Goan. Non basta più che la Siria cessi il suo appoggio ai gruppi radicali palestinesi ma ora deve anche mettere in pratica la risoluzione 1559: non è male detto da Israele, il paese che non ha mai rispettato nessuna delle decine di risoluzioni del Consiglio di sicurezza.

A Beirut l'opposizione al presidente filo-siriano Emile Lahoud è compatta nell'accusare la Siria e nel richiedere le dimissioni del governo. «Io incolpo il regime di polizia siriano-libanese per la morte di Hariri», ha detto il druso Walid Jumblatt.

Oggi è fissato il funerale di Hariri e Beirut, che sarà pubblico ma non di stato. Fra gli altri dovrebbero parteciparvi il francese Chirac e per gli amreciani, l'assistente segretario di stato William Burns. Nel paese la situazione è tesa e l'esercito in stato d'allerta. Tre giorni di lutto, scuole e negozi chiusi. Ci sono state manifestazioni anti-siriane e aggressioni contro lavoratori siriani.

La macchina per castigare la Siria sembra già essersi in moto e le dichiarazioni ufficiali di Damasco come le analisi in generale dei paesi arabi non valgono certo a fermarla. Lunedì il presidente siriano Assad aveva condannato «l'orrendo crimine» di Beirut e ieri il suo vice Abdel-Halim Khaddam è stato fra coloro che è andato alla casa natale di Hariri, a Sidone, per presentare le condoglianze. I giornali sairiani battono sul tasto del cui prodest: il vero obiettivo non era Hariri ma «l'unità nazionale libanese» e dietro l'attentato c'è la mano di «un complotto israeliano contro il Libano e la Siria». C'è anche chi ci vede la mano degli americani che cercano di annegare i loro disastri in Iraq colpendo la Siria. Una ipotesi che rimbalza nelle analisi dei vari media arabi, dall'Egitto all'Iran.

A chi ipotizza che la matrice siriana per dimostrare cosa succederebbe in Libano se le truppe di Damasco si ritirassero, altri, come un analista del Middle East Institute di Washignton, rispondono che sapendo di essere già sotto tiro di Bush, di Chirac e dell'Onu, «i siriani non sono dei pazzi» per mettersi ad ammazzare leader d'opposzione in Libano.

Le indagini non hanno fatto progressi. La prima rivendicazione di un gruppo islamista che diceva di aver colpito Hariri per i suoi legami con i sauditi è stata smentita ieri da un comunicato di un gruppo altrettanto sconosciuto, l'Organizzazione di al-Qaeda nel Levante: «Incolpare i gruppi jihadisti e salafisti è una totale macchinazione», dietro l'attentato ci sono i servizi libanesi, siriani e israeliani.
Non citato, adifferenza del Middle East Institute di Washignton l'International Crisis Group:il analista Reinold Leenders, scrive Imma Vitelli su EUROPA "assieme ad altri analisti, è convinto che in gioco ci sia anche una dinamica interna siriana: una lotta per il potere tra la vecchia guardia e il presidente (quarantenne) Bashar Assad. il giovane raìs avrebbe deciso di assegnare per la prima volta il Libano a un civile, scatenando le ire - e le bombe - di uomini come Rustom Ghazeleh, il terribile comandante del Mukhabarat di stanza ad Anjar, nella Bekaa. Per la cronaca, furono i colleghi di Ghazaleh ad organizzare il falso attentato di Damasco del 27 aprile scorso contro un ufficio vuoto dell'Onu dicendo che si era trattato di al Qaeda; un teatrino che somiglia molto a quello messo in scena ieri dalle autorità libanesi."
Una possibile spiegazione dell'apparente irrazionalità dell'attentato.
Anche se, forse, a spiegare l'adozione da parte dei siriani della logica del "tanto peggio tanto meglio" può bastare la percezione del fatto che in Medio Oriente, dopo la caduta di Saddam Hussein, l'era delle tirannie volge al termine, e la decisione di tentare qualsiasi azzardo per mantenersi al potere.

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