Il terrorismo suicida secondo un ambiguo "pacifista"
recensito e intervistato in modo compiacente
Testata:
Data: 15/02/2005
Pagina: 46
Autore: un giornalista - Maria Pia Fusco - Maurizio Porro - Roberto Silvestri - Cristina Piccino
Titolo: Uso i kamikaze per parlare di diritti umani - Io palestinese pacifista, vi racconto come un ragazzo diventa kamikaze - In gara i kamikaze, choc a Berlino - Ventiquattr'ore col kamikaze Said - Torna l'incubo della carneficina di Sabra e Chatila
I film antisraeliani ormai non si contano più: anche il festival di Berlino ha il suo. IL MATTINO di martedì 15 febbraio 2005 non se lo lascia sfuggire.
Ecco l'articolo: "Uso i kamikaze per parlare di diritti umani".





Berlino. Per la prima volta si vedono, in un film, le ultime ore di due kamikaze palestinesi. Si vedono i riti purificatori dei corpi che saranno rivestiti con i giubbotti esplosivi, si vedono la registrazione dell'ultimo messaggio a chi resta, ai militanti, alle famiglie, e poi le angosce, i ripensamenti dell'uno, la determinazione dell'altro al martirio, inteso come strumento («se avessimo gli aerei, non avremmo bisogno di farci saltare») e come riscatto. «Paradise now», passato ieri in concorso, è il caso del festival, l'evento mediatico destinato a far discutere e a suscitare polemiche. Il suo regista Hany Abu-Assad, che è nato a Nazareth 43 anni fa ma da tempo vive in Danimarca, dice di aver raccontato una storia vera, arricchita con particolari di finzione, ma si rifiuta di distribuire patenti di legittimità, di dividere il mondo in buoni e cattivi. «Gli stereotipi dei racconti di guerra non m'interessano», spiega, «il mio non è un film contro, non è un pamphlet antisraeliano, semmai è a favore dell'umanità. Racconta quel che in genere non si conosce e credo possa essere capito sia dai palestinesi che hanno a cuore la pace sia dagli israeliani con la mente lucida». Muovendosi su una linea di confine molto sottile, Abu-Assad ha avuto naturalmente grandi difficoltà a trovare i finanziamenti, e infatti «Paradise now» è stato prodotto con il concorso di molti paesi europei (in Italia uscirà in autunno distribuito dalla Lucky Red). Dopo aver girato a Nablus in condizioni complicatissime, spesso sotto le bombe e i raid aerei, ora il regista sogna per il suo film proiezioni a cielo aperto in territorio palestinese come in una sorta di «Nuovo cinema Paradiso» mediorientale. «Abbiamo finito le riprese a giugno dell'anno scorso» dice, «e da allora alcune cose sono cambiate. L'occupazione nei territori è diventata meno ferrea, ma non mi faccio illusioni. Il pericolo è che le si dia solo un altro nome, chiamandola stato, senza andare al cuore del problema. Che è uno, e semplice, nella sua drammaticità: fino a quando ai palestinesi non saranno riconosciuti gli stessi diritti degli israeliani non si potrà parlare di pace». Tra i progetti di Abu-Assad c'è, ora, un film sul «terrorismo globale». «Vorrei far capire che il bene e il male albergano in ciascuno di noi, fanno parte della natura umana». Pessimista sul futuro del Medio Oriente? «Bisogna dare tempo alla storia. Sessant'anni fa l'Europa contava milioni di morti, ora i suoi popoli convivono in pace. È solo questione di tempo». Parla di identità diverse, e della necessità di trovare comuni codici di convivenza anche l'altro film passato ieri al festival, ma fuori gara. Un’opera importante per il talento dei maestri che l’hanno realizzato e per l'arditezza della formula: «Tickets», firmato da Ermanno Olmi, Abbas Kiarostami e Ken Loach, in uscita nelle nostre sale l'11 marzo, non è infatti un trittico sul genere di «Eros», ma un'unica storia, ambientata su un treno in viaggio dalla Svizzera a Roma, in cui i tre registi si passano via via la mano e i personaggi, con il gusto di consigliarsi a vicenda, di interagire nella sceneggiatura, di girare perfino a sei mani, nella stazione di Chiusi, una sequenza-chave. «Con le nostre identità diverse abbiamo trovato il modo di convivere in un progetto, cosa che la politica non sa più fare» dice Olmi: «Il filo comune è l'interesse per l'uomo e l'accettazione dell'altro». È stato difficile conciliare i linguaggi? «Il cinema è come il calcio, basta conoscere le regole e poi si può cominciare a giocare. I dialoghi per me non sono mai stati necessari» continua l'iraniano Kiarostami, «di un film mi piacciono le situazioni, i sentimenti, gli sguardi. E poi, le nostre culture per molti versi si assomigliano. Per cinquant'anni mi sono nutrito di cinema italiano, i primi film che ho visto a Teheran avevano come protagonista Totò e la sua faccia non l'ho più dimenticata». Quanto a Loach, ha condensato nel suo segmento antiche passioni: le ferrovie, il football, il confronto tra classi sociali. «I miei protagonisti, tre tifosi del Celtic in trasferta sullo stesso treno di una famiglia di albanesi senza biglietto, devono confrontare la realtà con i pregiudizi e con la propaganda. A volte ci si dimentica di fare lo sforzo di ragionare: ecco, vorrei dimostrare che la gente ha istinti tendenzialmente buoni, frenati dalla pigrizia mentale».
LA REPUBBLICA a pagina 46 pubblica un'intervista di Maria Pia Fusco al regista del film, presentato come un "pacifista" .
Il "pacifista" dichiara tra l'atro che "diversi coloni, pagati bene, sono disposti a collaborare" con i terroristi suicidi.
Un'affermazione infondata, che nel film si traduce nell'invenzione del personaggio di "un israeliano che per soldi aiuta il kamikaze ad entrare in città", tanto perchè la colpa degli attentati suicidi ricada anche sulla società che ne è vittima.
Ecco il testo:

BERLINO - «Non farei mai il kamikaze, sono contro la violenza, niente giustifica l´omicidio, neanche se è la risposta a chi uccide», dice Hany Abu-Assad, l´autore di Paradise now. Nato a Nazareth, 43 anni, ingegnere aeronautico, cineasta appassionato di Sergio Leone, Abu-Assad ha un forte legame con l´Italia dove vive suo fratello che a Bari ha sposato la figlia di Matarrese. «Paradise now», dice «è una storia vera accaduta a Nablus, arricchita di situazioni di altre storie vere. Abbiamo rischiato la vita a girare nei luoghi reali, ma ne valeva la pena».
E´ vero che in Palestina si vendono o affittano i video dei «martiri» e delle esecuzioni dei collaborazionisti?
«Fino a poco fa era così, ora sono fuorilegge. Ma c´è un forte mercato clandestino, come per gli snuff movies».
Il suo film è anti-Israele?
«No, è una storia che vuole superare gli stereotipi e andare più a fondo nell´umanità dei personaggi e nella complessità dei loro stati d´animo. Anzi, gli israeliani conoscono solo il dopo, l´effetto devastante delle azioni kamikaze, il film è l´occasione per conoscere quello che succede prima».
Nel film lei espone parere contrario alla violenza: irriterà i palestinesi?
«Sicuramente aprirà un dibattito. Penso che il film da una parte sarà attaccato da tutti quegli israeliani che considerano i palestinesi esseri inferiori, quasi animali, dall´altra dai palestinesi che vedono i martiri come santi toccati da dio. I miei personaggi non sono né animali né santi, sono solo esseri umani».
E´ stato difficile ottenere i permessi per le riprese?
«No, il film è una coproduzione franco-tedesca-olandese e dunque eravamo protetti dalla bandiera europea che ci ha aiutato molto. E a Nablus siamo stati accolti con grande calore. I palestinesi vivono in isolamento e il cinema rappresentava l´arrivo del mondo esterno».
Una figura insolita è l´israeliano che per soldi aiuta i kamikaze ad entrare in città.
«Insolita, ma succede, ci sono diversi coloni che, pagati bene, sono disposti a collaborare. E ci sono palestinesi che, come il padre di uno dei personaggi, collaborano con lo spionaggio israeliano».
Lei ha cercato un equilibrio nell´esprimere le diverse posizioni: è uno stato d´animo diffuso tra i palestinesi?
«Non so, ma so che c´è tanta ansia di pace. Purtroppo alla base del conflitto c´è che per Israele la salvaguardia dello stato è più forte dei diritti civili. Vorrebbero che i palestinesi accettassero la loro condizione di inferiorità. Ogni accordo sarà impossibile finché non si accetta il principio di due stati sovrani con gli stessi diritti».
Lei è d´accordo nel rispetto dello stato di Israele? E non pensa che uno stato palestinese potrebbe vendicarsi?
«Tutti gli intellettuali palestinesi riconoscono il diritto dello stato di Israele. E non credo che ci sarebbero vendette, i palestinesi sarebbero troppo felici di vivere la loro libertà».
Anche il CORRIERE DELLA SERA, con l'articolo di Maurizio Porro "In gara i kamikaze, choc a Berlino" dedica ampio spazio al film.
Del quale riporta una battuta: "gli israeliani sono occupanti ma si fanno passare per vittime".
In realtà è proprio l'aggressione terroristica a Israele ad aver prodotto la rioccupazione delle città palestinesi da cui Israele si era ritirata dopo gli acordi di Oslo.
Abu Mazen forse lo ha capito, e infatti sta ottenendo ora quello che Arafat aveva perduto con la scelta di ricorrere alla violenza.
Il regista "pacifista" no:

Giornata choc alla Berlinale con un film teso come la corda di un violino, Paradise now di Hany Abu- Assad, nato a Nazareth 43 anni fa. Ha dato volto a gente senza volto: si mostrano infatti per la prima volta, le ultime ore di due kamikaze palestinesi pronti a un'azione in Israele. Cronaca, storia, mito, tiggì? « Il soggetto mescola fatti accaduti davvero. Io tratto l'attacco suicida sfatando sia il mostro sia il martire: resta così l'essere umano, è lui che mi interessa » . E di questo il regista parla con la passione di chi crede nei diritti civili, raccontando di due ragazzi amici che all'ultimo momento della missione terrorista si dividono: uno torna a casa, l'altro ( che ha avuto un padre collaborazionista ucciso) continua e sale su un autobus: batticuore per tutti, primissimo piano negli occhi.
Sequenze impressionanti: i kamikaze che registrano il video di addio ( « una volta erano venduti nei negozi, ora è proibito, ma recitarlo è stato uno choc » ) . O allarmanti: la missione ha un complice, un colono israeliano ( « a volte accade, ma costano molto » ) . Complessi di colpa: « Per chi collabora con Tel Aviv la vita diventa facile » . Curiosità: il film, comprato dalla Lucky Red, è stato prodotto da Francia, Germania ma c'è anche Israele ( « un amico, non è stato facile » ) . A chi darà fastidio? « Ai facinorosi » .
Lei è ottimista? Mica tanto. « Guardi gli imperi del passato, prima o poi crollano. Ma finché Israele e l'America non capiranno che Palestina e Israele hanno gli stessi diritti umani e territoriali, non si risolve nulla » .
Dopo l'anteprima a Berlino il film inizia una carriera difficile: « In Palestina non ci sono sale, lo daremo nelle piazze, come Nuovo Cinema Paradiso » . Il set a Nablus, città chiusa, dove la gente è autentica per forza: « Noi eravamo come il circo.
Cascava una bomba? Se ci si rialzava tutti voleva dire niente morti, si poteva continuare » . Abu- Assad, amico dell'Italia ( suo fratello vive a Bari, ha sposato la figlia di Matarrese) confessa che gli attori non avevano bisogno di recitare, non sono kamikaze ma conoscono quelle realtà: « Hanno solo fatto apprendistato in un garage per fingersi meccanici » . Le donne? Nel film è una di loro che fa nascere il dubbio: « Se gli uomini fanno gli eroi, le donne si oppongono, loro creano la vita » .
Battute che non passano inosservate. Sugli israeliani: sono gli occupanti ma si fanno passare per vittime; sulla guerra: se i palestinesi avessero gli aerei non ci sarebbero i kamikaze. « Cui io sono contrario, sia chiaro: non sono santi, ma hanno l'aureola divina, sperano nel Paradiso contro l'Inferno. Io credo nel dialogo che in questo momento sembra a portata di mano. Gli intellettuali palestinesi danno la mano a quelli israeliani, ma bisogna prima considerarci esseri umani pari a tutti gli altri, non animali. L'occupazione c'è ancora, hanno solo cambiato il nome » .
Intanto il regista pensa a un nuovo film sul terrorismo globale, internazionale: « La morale è una sola, in ciascuno di noi, c'è sempre un lato buono e uno cattivo, un bravo e un cattivo ragazzo, ma il vero Diavolo vien fuori soprattutto nelle situazioni estreme » .
Ad andare oltre la faziosità del regista è naturalmente IL MANIFESTO.
Roberto Silvestri nella recensione "Ventiquattr'ore col Kamikaze Said" scrive:

I kamikaze, perché, come, quando. Con alcuni «se» e alcuni «ma». Se Paradise now, coproduzione franco-tedesca diretta da Hany Abu-Assad (Rana's wedding e Ford Transit), palestinese d'Olanda, troverà un distributore in Israele, si darà un incentivo pubblico alla stampa delle copie e alla promozione del film. Lo ha promesso ieri a Berlino Katriel Schory, capo dell'Israel Film Fund. Strano, no? Visto che il film (scritto prima dell'11 settembre) racconta le 24 ore che precedono un attentato suicida su un autobus di Gerusalemme pieno, e non solo di soldati. E che gli «eroi», due amici d'infanzia, Khaled e Said, ventenni qualunque di Nablus, meccanici, non privi di senso dell'umorismo, quando sono chiamati all'azione dall'anonima martiri «islamici», non hanno esitazioni, né turbamenti. «Qui è l'inferno». E far saltare in aria l'inferno ha un certo fascino macabramente laico per chi è costretto a immaginare il paradiso solo dentro la propria testa. Così questi due psycho-serial-killer fanno il video con la dichiarazione d'intento dell'azione (in vendita poi a 3 euro nel bazar), si vestono come Le Iene, si rasano, si riempiono di tritolo, fanno «l'ultima cena» (in senso iconografico e cristiano stretto), non pregano neppure, e si butterebbero, come bombe volanti, contro gli invasori. Se... Certo alcuni israeliani (per soldi, e perché il genere umano è incarognito) li aiutano a passar il muro. Certo il film, molto radiofonico, ha già spiegato, per filo e per segno, le ragioni politiche e emotive della strategia della disperazione (e anche l'uso politico che Hamas e Israele ne fanno, per accentuare gli estremismi religiosi opposti e la repressione). Ma succede qualche cosa di miracolosamente razionale che interrompe una delle due azioni suicida. L'altra prosegue. E prosegue per un motivo d'onore. Il padre del kamikaze è stato assassinato per collaborazionismo. Il figlio deve lavare l'onta. Forse Israele condivide, e userà a sua volta, le attenuanti generiche alle azioni ciminali derivanti dall'«onore da tutelare»?
Segnaliamo due passaggi: l'oscura allusione alla "strategia della disperazione" e all'"uso politico che Hamas e Israele ne fanno, per accentuare gli estremismi religiosi opposti e la repressione", come dire che Israele avrebbe fomentato il terrorismo suicida (attribuito alla sola Hamas, quello delle Brigate di al Aqsa non esiste) per poter reprimere i palestinesi e per fomentare un fondamentalismo ebraico speculare a quello islamico.
E la contorta frase: "Forse Israele condivide, e userà a sua volta, le attenuanti generiche alle azioni ciminali derivanti dall'«onore da tutelare»? della quale si capisce solo che Silvestri vuole avanzare il sospetto che Israele condivida la "scala di valori" dei terroristi suicidi ( per la quale un disonorevole onore viene prima della vita umana).
Insulti gratuiti a un paese vittima di una spietata offensiva terroristica.

Sempre sul quotidiano comunista Cristina Piccino firma l'articolo "Torna l'incubo della carneficina di Sabra e Chatila", recensione di un documentario presentato alla berlinale nel quale presunti ex falangisti a volto coperto accusano Israele di essere il mandante della strage, ipotesi smentita dalla commisione Kahn, che ha indagato sulla strage in Israele, e dal processo a Time negli Stati Uniti. Le accuse sono tuttavia presentate come certamente vere.

Ecco l'articolo:

Tsai Ming Liang (domani in concorso con Wayward Cloud), Sharunas Bartas, Bela Tarr, parte da qui la linea che arriva fino a Los Muertos, acclamatissimo film di Lisandro Alonso, generazione comunque già post, di un cinema del silenzio, della parola emozionale, di geometrie interiori che tracciano il contemporaneo. Una tendenza diffusa anche sugli schermi (più agguerriti) berlinesi controparte allo sforzo esplicito di realtà in forma di fiction. Hotel Rwanda, aspettando sullo stesso argomento Raoul Peck (Sometimes in April), la resistenza contro i nazisti Sophie Scholl (reazione alla Caduta?). Ma perché scegliere la fiction? E come farvi fronte senza soltanto fazzoletti e lacrime melò? There no business like charity business e il rischio è infatti l'effetto opposto. Yesim Ustaoglu (Waiting for the clouds) racconta per la prima volta nella storia del cinema turco la deportazione dei greci nel 1916, che spazzò intere comunità e che è alla radice del successivo conflitto a Cipro. Al tempo stesso questo massacro dichiara obliquamente altro, il grande rimosso censurato in Turchia per legge del genocidio armeno ma quanto serve l'allusione di fronte a un sapere globale sempre meno sfaccettato? Viene da chiederselo all'uscita di Massaker sentendo due ragazzetti (giornalisti accreditati) tedeschi definirlo un film sugli arabi cristiani che ammazzano in Libano i palestinesi. Israele, Sharon, la guerra civile pilotata del Libano nell'orizzonte dell'informazione sono scomparsi. Come le politiche coloniali italiane o francesi (Algeria, Africa) occultate anche dai cineasti di sinistra che preferiscono la monumentalizzazione dei leader responsabili (Le promeneur du Champ de Mars, Mitterand secondo Guediguian). Massaker (Panorama) arriva nel giorno dell'attentato all'ex-premier libanese Rafik Hariri, lo firmano tre registi, Monika Borgmann, Lokman Slim, Herman Theissen, e il massacro del titolo è appunto Sabra e Chatila, migliaia di civili palestinesi torturati e uccisi nel sud del Libano tra il 16 e il 18 settembre 1982. A organizzare la geometria del massacro è l'attuale premier israeliano Sharon, che utilizza l'omicidio «tattico» del presidente libanese filoisraeliano Gemayel per dare il via all'attacco. Ci spiegano gli autori che oggi in Libano Sabra e Chatila è un grande rimosso, nel 91 il parlamento libanese ha deciso l'amnistia per tutti i crimini della guerra civile, ma sull'uso opportunista della «questione palestinese» molto ci ha detto anche Yousri Nasrallah nel suo ultimo e magnifico La porte du Soleil, col personaggio del medico palestinese democratico, né «istituzionale» né sedotto da Hamas.

La domanda di partenza dei registi è: cosa spinge la gente a tali eccessi di violenza e come coloro che ne sono stati autori possono continuare a vivere? Voce narrante sono infatti sei uomini delle Forze libanesi, la milizia cristiana al servizio di Israele in prima linea nel massacro. Non li vedremo mai per tutto il film, la richiesta di non essere ripresi diventa cifra di stile, una messinscena dichiarata, claustrofobica, insostenibile. Vediamo mani, spalle, il tatuaggio di un crocifisso, le stanze nude in cui vivono. Mentre parlano scorrono fotografie del massacro. Ma l'immagine non serve. Al contrario la sua assenza, il suo mimetizzarsi nella parola le dà maggiore forza, costruendo una consapevolezza nuova, e ancora più atroce di violenza che contrasta con le stesse foto. L'allenamento, gli ordini degli israeliani: uccidere tutti, anche i bambini in quanto futuri nemici, le donne in quanto madri di nemici.

Chi sono questi uomini viene detto poco. Oggi hanno figli, una vita «normale», la paura di essere scoperti. Allora erano nella milizia cristiana, allenata nei massacri della guerra civile organizzata con sapienza per distruggere il Libano, punta avanzata di modernità oltre la religione da barricata. Uno di loro, carezzando con tenerezza i suoi gattini, ricorda solo i cavalli uccisi: «capisco gli uomini, ma gli animali...». Nelle loro parole si determina il contesto, la voglia di vendicare il loro leader Gamayel, l'economia mentale di abitudine (necessaria) all'uccidere. Tutto è naturale, determinato: entrare nelle case, rubare, distruggere, uccidere. Quella ragazzina bionda ammazzata mentre la stuprano, i suoi peli pubici erano troppo lunghi, puzzava, era sporca. Le donne uccise perché gridano e chiedono pietà. Gli «ebrei» di cui sono stati servi descritti con crudeltà, di loro ricordano solo la voglia di sterminio. Si sentono colpevoli oggi, dicono. Ma nessuno li ha mai giudicati anche se in quegli anni sono finite in galera più volte per altri crimini. Massaker lascia spossati e annichiliti e è un capolavoro. Ci porta nel cuore nascosto della guerra polverizzando l'effetto anestetico - Sabra e Chatila come Falluja - dell'assuefazione. Nel cinema e nella realtà.
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