In difesa di Damasco
due analisi che si affrettano a scagionare la Siria dai sospetti sull'attentato in Libano, e a dipingerla come un paese aggredito
Testata:
Data: 15/02/2005
Pagina: 4
Autore: Alberto Stabile - Stefano Chiarini
Titolo: L'ombra della Siria sul Libano: un rapporto lungo 30 anni - Ma nel mirino c'è Damasco
LA REPUBBLICA di martedì 15 febbraio 2005 pubblica a pagina 4 un articolo di Alberto Stabile sull'assassinio di Rafik Hariri e sulla storia dei rapporti tra Siria e Libano.
Stabile avanza in modo circospetto dubbi sulla "pista siriana" sull'attentato. Il quale, scrive, "finirà sicuramente con l´inasprire la posizione americana (e israeliana) nei confronti di Damasco", (ipotesi lontana dall'essere "un fatto"), e "infligge un colpo alla credibilità della Siria come forza stabilizzatrice", (ma fornisce anche un argomento per sostenerne l'indispensabilità).
Se le speculazioni di Stabile per stornare i sospetti dalla Siria possono essere contraddette da speculazioni contrarie, va anche detto che all'ipotesi siriana il giornalista non ne oppone nessuna.
Ecco l'articolo:

Gerusalemme - Sembrava che Beirut fosse ritornata la Beirut d´una volta. Grandi alberghi e champagne, lusso e gioco d´azzardo, ricchezza e intrighi. Le immagini dell´attentato all´ex premier Rafiq Hariri ci riportano sì indietro nel tempo, ma ad una Beirut dilaniata dalla guerra civile, straziata dalle bombe, attanagliata dalla paura. Chi può avere interesse a far rivivere un passato così nefasto come i quindici anni che hanno portato alla distruzione del Libano?
È lì, comunque, tra l´esplosione della guerra civile, nell´aprile del ?75 e l´accodo di riconciliazione nazionale, firmato tra i signori della guerra, il 22 ottobre del 1989, a Taif, in Arabia Saudita - accordo per raggiungere il quale aveva lavorato dietro le quinte proprio Rafiq Hariri - che vanno trovati i presupposti di quanto è accaduto ieri.
Un Libano terra di conquista, campo d´esercitazioni delle potenze regionali, un paese perennemente destabilizzato, paradossalmente faceva, e fa meno paura di uno Stato consolidato. All´inizio furono le milizie cristiane a contendersi la supremazia per le strade di Beirut. I simboli sacri sugli stendardi della Falange, le scorribande nei campi profughi. Poi fu Arafat a pretendere che il Libano diventasse la base della sua strategia di guerra contro Israele.
E la città cambiò volto, perse il suo spirito, diventò un campo di macerie lottizzato tra le varie fazioni. Con l´ingresso dei siriani il Libano tornò ad essere una pedina nel vecchio gioco delle "sfere d´influenza". Ad avvantaggiarsene furono gli sciiti, le masse povere del sud, laiche (Amal) e religiose (Hezbollah) che trovarono in Damasco appoggio e protezione.
Anche se nessun governo oserebbe collegare direttamente la Siria all´attentato, cosa che persino il portavoce della Casa Bianca s´è astenuto dal fare, è su Damasco che, secondo molti osservatori occidentali e secondo l´opposizione libanese, s´appuntano i sospetti maggiori. Ed è contro i servizi segreti siriani che un sito vicino agli apparati di sicurezza israeliani, come Debka-file, punta l´indice. Più, bisogna comunque aggiungere, sulla base di un ragionamento che di indizi concreti.
Il ragionamento è di una semplicità persino disarmante: Rafiq Hariri, "Mr. Lebanon", come lo chiamavano i media americani, si opponeva alla presenza della Siria nel Libano. Una presenza forte di 15mila uomini schierati nella valle della Bekaa e fino ai sobborghi di Beirut, che rappresentavano e rappresentano una seria limitazione della sovranità libanese (ma è stato un presidente libanese ad invocare negli anni ?70 la "tutela" armata di Damasco).
Hariri non aveva mai reclamato ad alta voce il ritiro delle truppe siriane, ma il suo rifiuto di appoggiare l´estensione oltre i termini costituzionali del mandato del presidente Emile Lahud, un ex generale fedele a Damasco, lo aveva automaticamente messo in rotta di collisione con il partito siriano nel Parlamento libanese. E infatti, lo scorso autunno, i legislatori avevano approvato l´ennesimo emendamento alla Costituzione per tenere Lahud altri tre anni al potere. Hariri per protesta s´era dimesso da capo del governo.
Oltre ad aver abbondantemente chiarito da che parte stava, Hariri non era un politico manovrabile, come intere generazioni di politici libanesi. Non era ricattabile, disponendo di una fortuna intorno ai 4 miliardi di dollari, che, secondo Forbes, lo collocava tra i cento uomini più ricchi del mondo. E disponeva di una rete di amicizie influenti che andavano da Re Fahd d´Arabia Saudita, di cui era stato l´imprenditore edile personale, al raìs egiziano Hosni Mubarak, al presidente francese Jacques Chirac. Hariri incarnava un potere a sé stante e, questo lo rendeva sicuramente «pericoloso».
Per di più, sussurrano queste fonti occidentali, i siriani sospettavano che Hariri, assieme al leader druso Walid Jumblat e all´ex patriarca maronita, Sfeir, agisse in sintonia con le pressioni americane (e israeliane) sulla Siria. Pressioni che erano arrivate al culmine con l´adozione prima della risoluzione 1559, che impone alla Siria di ritirarsi, e poi con l´altra risoluzione, presentata dalla Francia il 29 gennaio scorso, ed approvata all´unanimità.
Con quest´ultima risoluzione s´affermava che le controverse Fattorie di Shaaba, lungo il confine nord d´Israele, erano parte del Golan e non del territorio libanese. Esse, in sostanza, rientravano nel contenzioso tra Siria e Israele, e non tra Libano e Israele, così liberando Beirut da qualsiasi questione territoriale che potesse essere da ostacolo a un eventuale negoziato di pace con lo Stato ebraico.
Ma tutto questo era noto anche prima dell´attentato. È possibile che qualcuno, a Damasco, abbia ideato e compiuto il delitto sapendo che tutti i sospetti sarebbero stati indirizzati sulla Siria?
Alcuni analisti ritengono che, in cambio di un sospetto tutto da dimostrare, Damasco avrebbe raggiunto due obiettivi: ha indebolito il partito di Hariri e ha rimandato e forse annullato la possibilità di doversi ritirare da Beirut sotto le pressioni internazionali. Nulla si dice, però, sul fatto che l´attentato, finirà sicuramente con l´inasprire la posizione americana (e israeliana) nei confronti di Damasco e che l´uccisione di Hariri infligge un colpo alla credibilità della Siria come forza stabilizzatrice.
"Ma nel mirino c'è Damasco" è il titolo di un articolo di Stefani Chiarini pubblicato a pagina 2 del MANIFESTO.
Sembrerebbe preludere a un analisi contraria a quelle prevalenti, un'analisi cioè per la quale Hariri sarebbe stato ucciso per colpire Damasco, ma Chiarini non si spinge così in là. Si limita a cambiare argomento, attribuendo l'omicidio Hariri al caos politico prodotto dalla destabilizzazione americana (per la guerra in Iraq) e israeliana (per la "politica di Ariel Sharon tesa a non restituire i territori occupati, a cominciare dal Golan siriano", il che è per altro falso, Israele è disposta a discutere anche sul Golan) del Medio Oriente.
Collegamenti del tutto oscuri.
Chiarini scrive poi che Elie Hobeika "capo dei massacratori di Sabra e Chatila" sarebbe "saltato in aria con la scorta alla vigilia di una sua deposizione in Belgio contro Ariel Sharon". Non è vero, Hobeika non aveva mai detto che la sua deposizione sarebbe stata contro Sharon, pur avendo annunciato in varie interviste rivelazioni sulla strage.
Ecco l'articolo:

L'onda lunga della destabilizzazione del Medioriente, originatasi quasi come un devastante tsunami con l'invasione e l'occupazione dell'Iraq, si è abbattuta con tutta la sua forza sul lungomare di Beirut, dove ieri è stato ucciso Rafiq Hariri, il miliardario ed ex primo ministro libanese, protagonista della ricostruzione-distruzione del Paese dei cedri dopo la guerra civile. Un uomo d'affari, con la doppia cittadinanza libanese e saudita, con un patrimonio da dieci miliardi di dollari e un 747 come l'Air Force One dei presidenti Usa, che dalla fine della guerra civile ad oggi si era barcamenato tra il rapporto privilegiato con Damasco e le pressioni occidentali e israeliane che da sempre cercano di colpire la Siria a partire da Beirut. Rafiq Hariri, divenuto grazie all'amicizia con il re Fahd dell'Arabia saudita il più importante costruttore del paese, da una parte si è accaparrato l'intera ricostruzione del vecchio centro storico di Beirut, lasciando sulle spalle del paese un debito di oltre 35 miliardi di dollari, ma dall'altra è riuscito con i suoi mezzi e la sua abilità politica a far decollare gli accordi di Taif del 1990, che hanno messo fine a quindici anni di guerra civile tra le destre cristiano maronite sostenute da Israele e il campo progressista musulmano, sostenuto dai palestinesi, intervallati da ben due invasioni israeliane. L'ex premier libanese aveva svolto l'importante funzione di cuscinetto a sfera in grado di evitare che i ricorrenti attriti tra Stati uniti e Siria e tra Israele e Siria si scaricassero di nuovo all'interno del Libano facendo saltare i suoi precari equilibri. Equilibri ricostituitisi alla fine della guerra civile sotto l'egida di un rapporto privilegiato con Damasco, riconosciuto alla Siria anche in premio del sostegno alla coalizione anti-irachena nella guerra del 1990, e sulla base della riaffermazione del carattere arabo del Libano e di un riequilibrio dei poteri tra le varie comunità, con una diminuzione del ruolo del presidente della repubblica, cristiano maronita (la comunità alla quale i francesi lasciarono il potere) a favore del primo ministro sunnita, mentre agli sciiti veniva data la presidenza del parlamento. L'autobomba di ieri potrebbe voler dire che anche l'equilibrio, sancito dagli accordi di Taif, come tutti gli altri nel Medioriente, è stato rimesso in discussione dalla politica di Ariel Sharon tesa a non restituire i territori occupati, a cominciare dal Golan siriano, e dell'amministrazione Bush non più interessata ad un'intesa con Damasco, ma decisa a distruggere, dopo l'Iraq, anche lo stato unitario siriano attraverso una sua libanizzazione su basi etniche e confessionali. La distruzione creativa della Siria voluta dai neocons Usa, per il Libano, vaso di coccio tra tanti di ferro, può voler dire solamente la riapertura di un altro, tragico capitolo della sua storia. A risuscitare i fantasmi del passato ha contribuito anche il luogo dell'attentato, al centro della zona dei grandi alberghi che vide infuriare le più dure battaglie agli inizi della guerra civile. E il pensiero è andato alle tante uccisioni di leader libanesi che hanno segnato le svolte tragiche, della storia più recente del paese: da quella del deputato progressista di Sidone, Maaruf Saad, nel febbraio del 1976, ad una manifestazione dei pescatori, che dette il via alla guerra civile, a quelle di Kamal Jumblatt, Tony Franjieh, Bashir Gemayel, Rashid Karame, sheik Hassan Khaled, il presidente Rene Muawad, Dany Chamoun, il leader Hezbollah Abbas Moussawi, Elie Hobeika, il capo dei massacratori di Sabra e Chatila, saltato in aria con la scorta alla vigilia di una sua deposizione in Belgio contro Ariel Sharon e, più recentemente, nell'ultimo anno, l'uccisione di due esponenti degli Hezbollah, e il fallito attentato all'ex ministro dell'economia, Marwan Hamadeh, nell'ottobre scorso. Molti a Beirut si rendono conto che se a Washington hanno deciso di accelerare i tempi di una destabilizzazione dell'area, la pace libanese ha di nuovo i giorni contati. Le minacce e le richieste Usa a Damasco si vanno facendo ogni giorno più dure: chiusura dei confini con l'Iraq, ritiro totale dal Libano senza un ritiro israeliano dal Golan, scioglimento degli Hezbollah, disarmo dei campi palestinesi, consegna tutti i membri del baath iracheno fuggiti a Damasco, chiusura degli uffici dei movimenti palestinesi di opposizione. Tutte richieste impossibili da soddisfare senza contropartite che a molti ricordano quelle rivolte a Baghdad dagli Usa quando ormai la guerra del 2003 era già stata decisa.
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