Sciiti: la teocrazia dell'iraniano Khatami, il quietismo dell'iracheno Sistani
due analisi che aiutano a comprendere una realtà complessa e decisiva per il futuro del Medio Oriente
Testata:
Data: 11/02/2005
Pagina: 5
Autore: un giornalista - Caren Davidkhanian
Titolo: Khatami si converte al khomeinismo e prende Putin e Ue in contropiede - Perchè il quietismo sciita di Sistani non è teocrazia
IL RIFORMISTA di venerdì 11 febbraio 2005 pubblica un articolo sulla svolta antioccidentale del presidente "riformatore" iraniano Mohammed Khatami, "Khatami si converte al khomeinismo e prende Putin e Ue in contropiede".
Ecco il testo:

A Teheran la retorica nazionalista, interpretata stavolta non dai duri del potere, bensì dal presidente riformista Mohammed Khatami, costretto ad arringare la folla riunita per il 26mo anniversario della rivoluzione khomeinista. A Ginevra, le pazienti trame per un compromesso sul nucleare, lasciate intrecciare ai diplomatici europei della trojka e ai colleghi iraniani. La distanza tra le due città protagoniste del rovello nucleare iraniano non poteva essere più forte, ieri. E non solo dal punto di vista climatico. La minaccia del «fuoco dell’inferno» contro il Grande Satana americano, lanciata da Khatami sotto la neve di Teheran, non sorprende più di tanto. Non solo perché sembra piuttosto una strategia comunicativa di difesa, dopo la campagna mediatica lanciata da Condoleezza Rice nel primo tour che tocca i punti nevralgici della politica iraniana verso ovest, sino alle sponde europee del Mediterraneo. E non solo perché fa parte della retorica khomeinista e postkhomeinista, ormai da un quarto di secolo. Ancora una volta simmetrica, per "vezzi" linguistici, alla retorica dell’"asse del male".
L’indurimento della retorica del regime iraniano è perfettamente comprensibile vista l’occasione, la celebrazione della rivoluzione sciita. Proprio mentre in Iraq si ragiona sul futuro sciita del paese. E nel resto del mondo arabo, che ha sempre guardato a Teheran come all’unica rivoluzione riuscita dell’area, si pensa con difficoltà alle riforme politiche. E’ poi altrettanto comprensibile in un’atmosfera in cui i toni si sono già radicalizzati da parecchio. E non solo in Iran. Piuttosto, è semmai interessante che a riprendere i vecchi slogan sia stato quello che per anni è stata la speranza della riforma iraniana, non soltanto in Occidente ma soprattutto nel suo paese, dove i settori innovatori si sono sentiti sostenuti da Khatami sin tanto che l’ala conservatrice non è riuscita a riprendere del tutto il controllo con la fine della "primavera iraniana" di un anno fa. A Khatami, insomma, è toccato far la parte del cattivo. Già mercoledì, quando ha messo in guardia non l’amministrazione Bush. Bensì gli europei, già accusati da Condoleezza Rice in visita al vecchio continente di usar toni troppo morbidi verso Teheran, in un gioco di specchi che ha rischiato di frastornare non poco i destinatari.
Decisamente diversa, invece, l’aria a Ginevra, dove si sono riuniti i rappresentanti della trojka (Parigi-Londra-Berlino) assieme alla controparte iraniana, per venire a capo di un compromesso che prevederebbe, secondo le intenzioni europee, lo stop al programma nucleare in cambio di sostegno economico e tecnologico da parte di paesi, come il trio in azione a Ginevra, che già ha investito parecchio a Teheran e dintorni. Soprattutto dopo gli spiragli apertisi con l’inizio dell’era Khatami. Ora, gli iraniani non hanno accettato il compromesso europeo. E non è neanche detto che lo facciano. La buona notizia, comunque, sta già nel fatto che i negoziati siano continuati ieri, nonostante i toni duri usati mercoledì da Khatami. E che continueranno anche oggi, nonostante l’ennesima bordata del presidente iraniano, stavolta contro il «demonio» americano. Certo, non potranno durare in eterno, come ha rilevato la Rice, imponendo nei fatti agli europei tempi contingentati per una trattativa specifica sul nucleare che, invece, è molto complessa.
Complessa anche perché non ci sono solo americani ed europei a confrontarsi sul modo in cui gestire il rovello di una nuova presenza nucleare in quella zona di cerniera che sta tra il polo rappresentato da Israele e quello pakistano. A essere rientrata pesantemente in gioco nello scacchiere tra Medio Oriente e subcontinente indiano è la Russia putiniana. Che per esempio, con l’Iran, dovrebbe firmare un accordo puramente tecnico sul combustibile nucleare alla fine di febbraio, quando il capo dell’agenzia federale Rosatom, Alexandr Rumjantsev, si recherà a Teheran. Nulla è certo, ancora, sulla firma di un’intesa che è in ballo da mesi, vista la pressione da parte degli occidentali su Mosca. Neppure, però, è certo che Putin ceda alle pressioni che arrivano da Washington, come ha dimostrato la vicenda dell’export bellico alla Siria. Formalmente, Mosca rifiuta l’accusa di avvicinare l’Iran all’atomica attraverso la loro cooperazione nel campo del nucleare civile. Nei fatti, la Russia non vuole essere esclusa dal decidere cosa succederà nella regione nei prossimi mesi e nei prossimi anni, come invece è successo per la questione irachena. Tanto più che una futura instabilità dell’Iran, e la possibilità di un’azione di forza contro Teheran, sono tutte eventualità che rimettono in questione la già delicatissima politica energetica russa. Sulla quale Putin non vuole rischiare un gioco di rimessa, e di pura difesa delle posizioni.
Caren Davidkhanian spiega invece "".
Ecco il testo

Le dichiarazioni di un rappresentante dell’ayatollah Mohammad Ishaq al-Fayadh sul rifiuto da parte sciita della separazione tra stato e chiesa e il rifiuto di qualsiasi legge che sia in contrasto con lo sharia, la legge islamica, hanno giustamente suscitato grande perplessità, soprattutto in seguito alle voci sull’avallo che questi avrebbe ricevuto dal grande ayatollah Ali al-Sistani. Se non ci saranno rettifiche, si avrà una prova colossale di quanto abbiamo già sostenuto su queste pagine circa la strategia dello taqiya - ovvero la tattica sciita di celare le proprie intenzioni per meglio proteggere gli interessi dell’umma. Secondo questa tattica ben collaudata, lo sciita pio, che da sempre copre il ruolo di minoranza e di vittima nel mondo musulmano, deve uscire allo scoperto solo quando ha la certezza di vincere. Tuttavia, ci sono alcune considerazioni da fare prima di formulare giudizi apocalitici.
Anzitutto, bisogna ricordare che la richiesta è partita dallo sceicco Ibrahim Ibrahimi, un rappresentante di Fayadh, uno dei quattro marja che si rifanno a Sistani. Fayadh, di origini afghane, pur essendo uno dei principali ayatollah di Najaf, non ha un grande seguito - certamente non quanto Sistani. In secondo luogo, Sistani ha "sottoscritto" le dichiarazioni di Ibrahimi dopo che questi erano state rilasciate e, comunque, solo attraverso un suo rappresentante, Hamed al-Khafaf, che però ha precisato che Sistani vuole che la nuova costituzione dell’Iraq «rispetti l’identità musulmana del popolo iracheno» ma che avrebbe lasciato i dettagli «ai rappresentanti eletti dal popolo all’assemblea nazionale». Come abbiamo sostenuto nel passato, Sistani non vuole la teocrazia. Il grande ayatollah iracheno appartiene al filone maggioritario dello sciismo che si rifà alle posizioni del defunto grande ayatollah al-Khoei. Khoei, convinto quietista, era assolutamente contrario all’ideologia rivoluzionaria sviluppata dall’ayatollah Khomeini negli anni di esilio in Iraq.
Per farla breve, Sistani non è un illuminista. E’ pur sempre un tradizionalista che vuole che la religione abbia un ruolo centrale nella società. Ma contrariamente ai khomeinisti, non vuole che i mullah entrino nel governo. Essendo l’Iraq un paese di forti tradizioni laiche e comunque non omogeneamente musulmano e tanto meno praticante, gli ayatollah di Najaf temono una costituzione del tutto laica che non dia spazio all’Islam. E quasi sicuramente si riterranno soddisfatti se ottengono una costituzione come quella dell’Afghanistan, che dà un peso specifico alla religione pur rimanendo democratica (il paese oggi si chiama Repubblica islamica dell’Afghanistan, ma non è una teocrazia). Queste posizioni erano già state abbondantemente esposte l’anno scorso, quando, dopo una breve opposizione alla costituzione temporanea dell’Iraq, Sistani e il governo provvisorio si accordarono su una formulazione che indicava lo sharia come «una fonte» d’ispirazione per le leggi del paese. All’epoca, un rappresentante sciita dichiarava: «Abbiamo ottenuto ciò che volevamo: che nessuna legge sia contro l’Islam».
L’episodio di questi giorni sembra essere più un fatto di concorrenza interna ai marajaya di Najaf che l’inizio di assunzione di una posizione monolitica da parte della maggioranza sciita. Ricorda quello che accadde due anni fa quando, per un breve periodo, Sistani sembrava inseguire le posizioni estremiste di quella testa calda, ora per fortuna spenta, di al-Sadr.
La terza considerazione da farsi è ancora più importante: l’articolo 61 (c) della costituzione temporanea, che regolerà le fasi dell’approvazione di quella definitiva, dice che quest’ultima non può essere approvata se due terzi degli elettori in uno qualsiasi dei tre governariati voteranno contro di essa. In queste condizioni, sarà impossibile ratificare una costituzione teocratica senza il voto dei curdi (o dei sunniti, che seguono un’altra versione dello sharia). Secondo gli ultimi dati provvisori, i curdi costituiranno il secondo gruppo nell’assemblea costituzionale. E sono anche il gruppo più omogeneo e compatto, che all’occorrenza potrà far blocco con i gruppi laici (al momento al 13%) o con i sunniti, o con entrambi, mentre l’alleanza sciita, che quasi sicuramente non avrà i due terzi dei seggi dell’assemblea, è costituita da due partiti con posizioni spesso contrastanti.
L’ultima considerazione riguarda la natura dei rapporti tra gli iracheni e gli iraniani, e i loro rispettivi nazionalismi, che aldilà del fervore retorico dei mullah, sarà un ostacolo per la formazione di qualsiasi tipo di asse sciita nel Medio Oriente. Basta ricordarsi alcuni fatti: durante la guerra Iran-Iraq, la fanteria irachena era costituita in gran parte da sciiti, che mai si fermarono davanti ai loro correligionari. Inoltre, per motivi religiosi, nei due anni passati gli sciiti iracheni hanno avuto contatti diretti con pellegrini iraniani, i quali hanno raccontato per filo e per segno cosa significhi vivere sotto un governo islamico - cosa che gli iraniani non ebbero il lusso di conoscere prima della rivoluzione del ’79.
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