Mai mettere i palestinesi in cattiva luce
la regola del quotidiano diretto da Furio Colombo
Testata:
Data: 09/02/2005
Pagina: 3
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: La svolta è arrivata dalle nostre libere elezioni
Che le elezioni del 9 di gennaio abbiano rappresentato una svolta per i palestinesi è argomento pacifico, tuttavia molto spesso l’Unità, attraverso le sue interviste in ginocchio a personaggi più o meno illustri della realtà palestinese, tende a esagerarne l’importanza e ad indicarle come ragione per il ritorno dei palestinesi al tavolo delle trattative. La scomparsa di un dittatore e sanguinario e terrorista come Yasser Arafat e i colpi inferti al terrorismo dalla risposta israeliana vengono così messi in secondo piano tra le ragioni del ritrovato slancio negoziale di entrambe le parti. Probabilmente, quella di non mettere in alcun modo in cattiva luce i palestinesi, è una regola non scritta del quotidiano Ds e ne è dimostrazione il metodo con cui Udg asseconda gli interlocutori quali Hanna Siniora, che mai viene sottoposto a domande insidiose e viene instradato, quando ce ne è bisogno, nella via del politically correct dal giornalista. Di seguito l’articolo.
Sharm el-Sheikh è il primo frutto della "primavera" di democrazia che ha portato il 9 gennaio la grande maggioranza dei palestinesi a usare l’"arma" del voto contro la follia distruttrice dei kamikaze. Abu Mazen ha tratto forza e legittimazione da questa investitura popolare. Ma il cessate-il-fuoco deve subito essere seguito dall’avvio di un processo di pace a tutto campo. Il fattore-tempo è essenziale. Non dobbiamo dar tempo ai nemici del dialogo di organizzare una nuova offensiva del terrore». È il giudizio espresso a caldo da Hanna Siniora, direttore del periodico Jerusalem Times, esponente di punta dell’ala riformatrice della dirigenza palestinese, tra i promotori dell’«Iniziativa di Ginevra», il piano di pace messo a punto da politici, intellettuali, militari israeliani e palestinesi.
Poteva esserci Sharm el-Sheikh senza le elezioni del 9 gennaio nei Territori?
«Direi proprio di no. Pace e democrazia viaggiano insieme, e la prova di maturità dimostrata il 9 gennaio dai palestinesi è tanto più significativa se si tiene conto che si è votato sotto occupazione e che queste elezioni rappresentano una "prima" senza precedenti nel mondo arabo. Abu Mazen ha tratto la sua forza da questa investitura popolare e non più o solo dalle aperture di credito ricevute dalla Comunità internazionale...».
E da Israele.
«È fuori di dubbio, anche se Sharon ha subito avuto chiaro, anche in questo vertice, di che pasta è fatto Mahmoud Abbas...».
Quale sarebbe questa «pasta»?
«Quella di un tenace negoziatore che sa far valere le proprie ragioni al tavolo delle trattative. Abu Mazen non è un doppiogiochista, crede realmente nel dialogo ed ha dimostrato grande coraggio nel denunciare a più riprese, anche durante la campagna elettorale, i guasti provocati dalla deriva militarista dell’Intifada. Vuole trattare ma non concepisce la trattativa come una ratifica dei rapporti di forza registrati sul campo. Israele sbaglierebbe a scambiare la sua disponibilità al dialogo per arrendevolezza. Sui punti cruciali Abu Mazen non è disposto ad accordi al ribasso».
Tra le questioni cruciali sul tavolo delle trattative c’è il diritto al ritorno. C’è un’alternativa tra rinuncia e meccanica attuazione?
«Più che di rinuncia parlerei di riformulazione di questo diritto nella sua concreta applicazione. Nel "Patto di Ginevra" viene sancita una verità storica, stabilendo che quello dei rifugiati è un problema politico e non una generica questione umanitaria. In concreto, sono previsti risarcimenti economici e si riconosce il diritto dei rifugiati e delle loro famiglie a stabilirsi nello Stato palestinese».
In compenso i palestinesi riconoscono a Israele il diritto a esistere come Stato ebraico.
«Quello dei due Stati è un’alternativa alla realizzazione di uno Stato unico binazionale. In questa chiave, occorre prendere atto che il mantenimento dell’identità ebraica dello Stato d’Israele è un punto chiave di un qualsiasi accordo di pace».
È un approdo a cui potrebbe giungere anche Abu Mazen?
«Nel contesto di un accordo di pace globale, penso proprio di sì».
La pace può essere imposta dall’esterno?
«La pressione internazionale è di fondamentale importanza, e va sollecitata specie in un momento cruciale come questo. Tuttavia questa pressione da sola non può bastare. Per questo è necessario moltiplicare gli sforzi per costruire e radicare un movimento dal basso. La diplomazia dei popoli non è meno importante di quella dei governi».
Comunità internazionale in Medio Oriente significa innanzitutto Stati Uniti. Nota un cambiamento nell’atteggiamento della Casa Bianca?
«La missione del neo segretario di Stato Condoleezza Rice sembra dimostrare la volontà del presidente Bush di stringere i tempi del negoziato e di segnare il suo secondo mandato con un risultato storico: la pace fra israeliani e palestinesi. Una pace fondata sul principio di due Stati e due popoli. Uniti da un destino comune e da una comune scelta di democrazia»
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