Tregua tra israeliani e palestinesi: il quotidiano comunista si accorge che qualcosa sta succedendo, ma ripete le sue litanie anti-israeliane
sull'occupazione che genera il terrorismo, i bantustan palestinesi e altre amenità
Testata: Il Manifesto
Data: 09/02/2005
Pagina: 11
Autore: S.D.Q - Zvi Shuldiner
Titolo: Sharon- Abu Mazen: la tregua - Un passo ma l'ottimismo è fuori luogo
IL MANIFESTO di mercoledì 9 febbraio 2005 pubblica sul vertice di Sharm el Sheik una cronaca di S.D.Q.
Più possibilista di Michele Giorgio, Michelangelo Cocco e Maurizio Matteuzzi, che quando si sono occupati della ripresa del processo di pace ne hanno sistematicamente denunciato la presunta illusorietà, questo giornalista condivide però con i suoi colleghi il linguaggio eufemistico per il quale i gruppi palestinesi che organizzano stragi di civili sono "terroristi" solo secondo gli israeliani.
Per lui inoltre la frase di Sharon "abbiamo dovuto rinunciare con sofferenza a qualcuno dei nostri sogni" merita uno sberleffo: "poveri israeliani", commenta.
In realtà, quale che sia il giudizio politico sugli insediamenti in Cisgiordania e Gaza, la dimensione umana del problema ( migliaia di persone che lasceranno le loro case e altre migliaia che potrebbero doverlo fare in futuro, e l'abbandono di terre, il cui legame con il popolo ebraico è innegabile, conquistate in una guerra di difesa a prezzo di molte vite umane ) dovrebbe essere presente a tutti, e rispettata.

Ecco l'articolo, "Sharon Abu Mazen: la tregua":

Sarà la volta buona? Il summit di ieri a Sharm el-Sheikh, località egiziana sul mar Rosso, marca un passo in avanti la cui importanza non deve essere sottovalutata. Ma ogni eccesso di ottimismo, come si sente aleggiare da più parti, appare fuori luogo. E' un fatto che la stratta di mano fra il presidente palestinese Abu Mazen e il premier israeliano Ariel Sharon comparirà oggi sulle prime pagine dei giornali del mondo. Perché quel flash non resti solo una delle tante photo-opptunities sprecate molta acqua e molta sostanza dovrà passare sotto i ponti del conflitto israelo-palestinese.

Spalleggiati dal padrone di casa, il presidente egiziano Hosni Mubarak, e dall'altro sponsor di peso giordano, il re Abadallah, Sharon e Abu Mazen hanno annunciato, come ci si aspettava, un cessate il fuoco delle due parti. «Abbiamo concordato la sospensione di tutte le azioni violente contro palestinesi e israeliani, ovunque si trovino - ha detto Abu Mazen -. La calma che si vivrà nella nostre terre a partire da oggi è l'inizio di una nuova era». Gli ha fatto eco Sharon annunciando «la cessazione delle operazioni militari» nei territori palestinesi occupati, salutando un possibile «cambio di direzione» che porterà «la normalità e la democrazia» al popolo palestinese. L'annuncio del cessate il fuoco potrebbe porre fine a quattro anni cruenti di intifada e di repressione israeliana. Quattro anni che hanno avuto un saldo di più di 3 mila palestinesi e di circa mille israeliani uccisi con una scia di sangue e di odio che non sarà facile cancellare.

D'altra parte le condizioni poste da Sharon per rassegnarsi a incontrare il successore di Arafat - che in quattro anni si era sempe rifiutato di incontrare - erano precise: che Abu Mazen si presentasse a Sharm con il cessate il fuoco in tasca e che il punto focale del meeting fosse il terrorismo, per il quale ha chiesto al suo interlocutore, minacciosamente, «atti e non parole».

Ora non è neppure sicuro che Abu Mazen riesca a convincere i gruppi militanti e combattenti, quelli che per gli israeliani sono «terroristi», ad estendere la fragile tregua di fatto in vigore da un paio di settimane per non mandare a monte il vertice e dare altri pretesti a Sharon. Mahmoud al-Zahar, leader di Hamas ha già detto chiaro che loro non accetteranno alcun cessate il fuoco con Israele se Abu Mazen non si riunirà con i settori radicali e spiegherà quali concessioni hanno fatto gli israeliani in cambio. «Hamas non è stato informato su eventuali accordi», ha detto al-Zahar, pur concedendo che «noi staremo calmi per conoscere quali sono le reali intenzioni».

Fra le concessioni strappate a Sharon, Abu Mazen mette la ripresa dei negoziati e l'impegno di Israele a riesumare la road map, il piano di pace che, per quanto pessimo per i palestinesi, appare in questa fase l'unico progetto capace di smuovere l'unilateralismo israeliano e di far intravvedere l'ipotesi per quanto lontana di un futuro stato - meglio, staterello - palestinese. Per raggiungere questo obiettivo, ha detto il presidente dell'Anp, occorre «fomentare la cooperazione bilaterale, evitare le misure unilaterali e rispettare gli obblighi della roadmap», obiettivo difficile ma «che può essere raggiunto».

Anche Sharon, leggermente pressato da Bush e dal nuovo segretario di stato Usa Condoleezza Rice - che ha visitato i leader israeliano e palestinese domenica e lunedì scorsi portando l'invito per un vertice a tre alla Casa bianca nella prossima primavera -, ha parlato di «una opportunità» che dovrebbe porre fine a un «passato sanguinoso» e che Israele «non vuole perdere». Sharon ha voluto «promettere ai nostri vicini palestinesi» che lui e gli israeliani «hanno l'intenzione sincera» di consentir loro «di vivere nell'indipendenza» senza «controllare le loro vite». Anche se, poveri israeliani, per aprire strada a questo obiettivo «abbiamo dovuto rinunciare con sofferenza a qualcuno dei nostri sogni», ossia i sogni di Erez Israele, il Grande Israele.

Anche Abu Mazen ha voluto ricordare che «dopo di sofferenze è venuta l'ora che il popolo palestinese veda riconosciuti i suoi diritti a godere di una vita normale» confidando che ci possa arrivare «con i negoziati anziché con le bombe».

Incassato il passo positivo del cessate il fuoco e aperta la via alla ripresa dei negoziati, adesso viene il difficile. Quando i tre comitati decisi a Sharm dovranno mettersi a discutere i nodi da sciogliere. Tremendi. Il futuro delle 128 colonie israeliane in Cisgiordania con i loro 240 mila coloni (più i 250 mila insediatisi nella parte orientale di Gerusalemme); la liberazione degli 8 mila detenuti palestinesi; il muro dell'apartheid che si mangia terre e vite palestinesi. E questo senza neanche arrivare ai punti caldi finali: il ritorno dei profughi, i confini definitivi dei due stati, lo status di Gerusalemme. Per ora gli impegni di Sharon si limitano alla liberazione di 900 detenuti palestinesi (ma nessuno dei più significativi, tipo Marwan Barghuti) e al ritiro - oltre che unilateralmente dall'indifendibile Gaza - da alcune città della West Bank (ma non da quelle decisive: Jenin, Nablus, Hebron). Difficile pensare che basterà.

Ma adesso il sentimento che prevale è l'ottimismo. Il mondo si complimenta. E spera.
Zvi Shuldiner, nell' articolo "Un passo ma l'ottimiso è fuori luogo" riconosce che a Sharm el Sheik qualcosa è successo, ma torna a mettere in guardia dal considerare il terrorismo e non l'occupazione il cuore del problema israelo-palestinese.
In realtà sono proprio la crisi operativa del terrorismo, determinata dalla risposta militare israeliana, e la morte di Arafat, che sul terrorismo aveva deciso di giocarsi tutte le carte, a rendere ora possibile i negoziati e, in prospettiva, la fine dell'occupazione.
Senza senso gli allarmi circa la formazione di "bantustan" palestinesi.
La nascita di uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza romperebbe la continuità territoriale di Israele e ne ridurrebbe il già scaeso territorio (all'incirca le dimensioni del Piemonte)
Avrebbe per questo senso parlare di un bantustan israeliano?
Egualmente insensato il commento al rifiuto opposto da Israele alla liberazione di detenuti palestinesi "con le mani sporche di sangue". Infatti, in passato sono stati scarcerati terroristi palestinesi, che sono poi tornati a uccidere.
Sembra invece chiaro che il caso citato da Shuldiner non abbia comportato nulla del genere. Inoltre, c'è una differenza tra un amnistia individuale e una generale, per ovvie ragioni molto più pericolosa, soprattutto in una situazione di guerra o di fragile tregua.
Ecco l'articolo:

A Sharm el-Sheikh, con il vertice israelo-palestinese sotto patrocinio egiziano e con partecipazione giordana, sembra aver toccato una nuova cresta l'onda di ottimismo moderato che circola per la regione. All'apparenza il vertice marca l'inizio di un cessate il fuoco reale e concordato dalle due parti e forse apre le porte a negoziati bilaterali. Il premier israeliano Sharon è arrivato alla riunione esigendo che essa fosse centrata sui problemi della sicurezza. Però il messaggio che ha spedito agli israeliani al momento dei discorsi conclusivi della conferenza è risultato piuttosto sorprendente e potrebbe essere il fondamento di un maggiore ottimismo rispetto alla ripresa del processo politico.

Il cessate il fuoco è importante, non solo perché apre la porta a negoziati fra le parti. La distensione nella regione è importante perché crea un clima nuovo ed esercita una pressione costruttiva sui gruppi islamisti. Però tutto questo, al momento di fare il bilancio del vertice di ieri e dei suoi risultati, non devev far dimenticare un problema di fondo: il tentativo di avviare i negoziati - e il governo americano è parte di questo gioco - come se il punto centrale fosse il terrorismo, porta a un errore sostanziale. Il terrorismo, da condannare in tutte le sue forme, non è altro che l'effetto inevitabile del nodo principale: l'occupazione israeliana.

Sharon ha parlato di uno stato palestinese indipendente in pace con Israele, e questo è un punto importante che ha già sollevato polemiche qui in Israele. Però la vera questione sono i contenuti reali di questa dichiarazione di principio. E' essenziale chiarire se si tratta di vaghe parole rispetto a un possibile stato fittizio, una confederazione di bantustan isolati sotto controllo israeliano, o di uno stato vero, ciò che richiede il ritorno israeliano alle frontiere del `67 e l'evacuazione dei coloni da tutti i territori occupati.

A Sharm le due parti proclamano il cessate il fuoco, ma questa proclamazione è un'incognita che provocherà prossime tensioni dal momento che alcuni gruppi palestinesi dicono di non essere stati consultati e quindi non si sentono tenuti a rispettare l'impegno.

Forse che il cessate il fuoco significherà un reale ritiro delle forze israeliane e il ritorno alla situazione territoriale esistente al 28 settembre del 2000, il giorno della famosa «passeggiata» di Sharon sulla spianata delle moschee? Mentre le due parti sembrano d'accordo sul ritiro delle forze israeliane dalle principali città palestinesi, la vero questione resta il significato del ritiro. Il problema che preoccupa la popolazione palestinese è quanto mai concreto: le forze d'occupazione israeliane parlano di un ritiro che consenta loro di continuare a tenere sotto assedio le città da cui si ritireranno. E questo vuol dire miglioramenti solo cosmetici. Il problema è il muro dell'odio - la barriera di sicurezza, nella terminologia israeliana - che fa della vita quotidiana dei palestinesi un inferno.

Per i leader palestinesi, ministri e funzionari, il transito è già abbastanza libero e loro godono di privilegi che fanno dimenticare il senso più vero della presenza israeliana: i posti di controllo dell'esercito, l'assedio delle città, le «strade dell'apartheid» aperte solo ai coloni «per ragioni di sicurezza».

I contatti più semplici fra componenti della famiglia, il viaggio in un ospedale, il lavoro nei campi, l'arrivo ai posti di lavoro: tutto questo è parte di un incubo quotidiano in cui i signori della guerra israeliani dettano a uomini, donne e bambini palestinesi fin dove possono muoversi.

E poi cosa sarà delle migliaia di prigionieri palestinesi? Il governo israeliano va avanti con la sua retorica assurda e ricorda continuamente il problema con quelli che «hanno le mani sporche di sangue». Non è necessario andare a scomodare analisi troppo approfondite su questo problema. Basta un piccolo esempio per mostrare l'ipocrisia estrema della posizione israeliana quando ripete a ogni pie' sospinto che è impossibile liberare coloro che hanno commesso crimini in cui si sono perse vite israeliane. Nel Likud si sono tenute elezioni per la segreteria del partito e uno dei candidati - che non è stato eletto in quanto considerato parte di un gruppo estremista di destra - è uno dei terroristi israeliani condannati per l'assassinio di alcuni palestinesi a Hebron vent'anni fa. E quel candidato è stato amnistiato e liberato dopo soli sei anni carcere. Ma tuttavia qui si continua a parlare di palestinesi che hanno le mani sporche di sangue pur avendo alcuni di loro ormai più di 70 anni.

Sharon parla del passaggio dal ritiro unilaterale da Gaza a negoziati con la nuova leadership palestinese. Ciò che è importante. Ma resta il problema essenziale: forse che si creano le condizioni per un negoziato in cui finalmente non si dettino le condizioni ai palestinesi?

Il vero interrogativo in queste ore è come andare oltre la retorica per arrivare alla fine dell'occupazione israeliana. Senza bantustan, con un'indipendenza reale, con diritti veri, nell'ambito di un Medio Oriente davvero nuovo. Questo richiederebbe fra l'altro anche la neutralizzazione degli interessi imperialisti dominanti nella regione. La partecipazione attiva di egiziani, giordani ed europei potrebbe rivelarsi un fattore necessario e riequilibrante per permettere un cambio reale senza cadere prigionieri di un ottimismo che non sempre ha vere radici.
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