Un appello dimezzato da un titolo scorretto
scelto per un intervista a uno scrittore israeliano
Testata:
Data: 08/02/2005
Pagina: 11
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: E' tempo che Israele riconosca le sofferenze dei palestinesi
Su L'UNITA' di martedì 8 febbraio 2005 viene pubblicata un'intervista al romanziere Meir Shalev a proposito dell'appello per il riconoscimento della parziale responsabilità israeliana nei confronti della sofferenza palestinese del quale è firmatario. Sulla vicenda, molti giornali tendono a evidenziare solo un aspetto dell'appello e a tacere sulle implicazioni, se non altro morali, che questo comporta per l'altra parte del conflitto. L'Unità non si distingue titolando l'articolo :" E' tempo che Israele riconosca le sofferenze palestinesi", poco conta che nel proseguio dell'intervista Shalev spieghi chiaramente che non si tratti di un'ammissione di colpa ma di un gesto politico che presuppone una risposta, poichè l'importante per il quotidiano DS è dare l'impressione che Israele debba esclusivamente chinare la testa e assumersi le tutte le responsabilità, mentre ai palestinesi non viene richiesto alcunchè, per una strana logica che li vede sempre e comunque come vittime. Di seguito l'articolo.
«In una terra che si nutre di simboli, dove le parole spesso pesano più delle pietre e lasciano segni profondi nella coscienza collettiva, riterrei di grande significato, e come me tutti i firmatari dell’appello ad Ariel Sharon, che Israele riaprisse i negoziati con la nuova dirigenza del’Anp con un messaggio al popolo palestinese nel quale riconoscere che l’essenza della tragedia di questo conflitto, la sua dolente specificità, è che a scontrarsi sono stati per troppo tempo due diritti egualmente fondati, due speranze egualmente legittime. E in questa chiave riconoscere che Israele ha una parte di responsabilità nelle sofferenze sopportate dal popolo palestinese». Ad affermarlo è Meir Shalev, tra i firmatari dell’appello pubblico ad Ariel Sharon sottoscritto dai nomi più illustri della letteratura israeliana contemporanea.
Cosa c’è alla base dell’appello, comparso nei giorni scorsi sui principali quotidiani israeliani attraverso un’inserzione a pagamento, di cui lei è tra i firmatari?
«C’è la consapevolezza che oggi è aperta davanti a noi, israeliani e palestinesi, una opportunità di pace che non va lasciata svanire. Si tratta di un impegno gravoso che non può esseredelegato alle sole leadership politiche. Ognuno può e deve offrire il suo contributo, a cominciare dal mondo della cultura...».
In cosa consiste la specificità dell’impegno degli scrittori?
«Nel promuovere a ogni livello la cultura della conoscenza dell’altro da sé; la cultura come "contaminazione" reciproca, come antidoto alla demonizzazione del "nemico", una demonizzazione spesso frutto di ignoranza o di antichi pregiudizi. È un impegno a rileggere la storia dei rispettivi popoli evitando letture manichee ma cercando di cogliere il punto di vista e le ragioni dell’altra parte. Nell’appello ciò è chiarito in maniera efficace: noi sentiamo che, in quanto israeliani, abbiamo la possibilità di fare il primo passo richiesto: guardare negli occhi il popolo palestinese nostro vicino e riconoscere le sue sofferenze, con umana simpatia e partecipando al loro dolore.. Sono parole certo, ma in questa terra che si nutre di simboli, le parole hanno spesso una valenza straordinaria perché feriscono più delle pietre ma possono anche lenire ferite aperte nella coscienza e nella memoria di un un popolo. Da sempre, ed oggi più che mai, sono convinto che il percorso che può portare ad un "Nuovo Inizio" di pace cominci con la disponibilità a riconoscere le sofferenze dell’altra parte e l’assunzione di parte delle responsabilità di tale sofferenza. Si tratta di un risarcimento morale che non ha meno valenza di quello materiale...».
Un risarcimento «unilaterale»?
«La nostra speranza è che un percorso analogo di verità venga istruito dai palestinesi, dalla loro leadership politica e dai loro intellettuali. Perché spesso in passato la violenza dei kamikaze, il terrorismo suicida, si è nutrito non solo di disperazione ma anche di libri, programmi televisivi, insegnamenti fondati sui peggiori pregiudizi anisionisti se non antisemiti. La nostra speranza è che i nuovi leader palestinesi trovino il coraggio e l’onesta intellettuale per esprimere la propria partecipazione alle sofferenze provate dagli israeliani».
Il riconoscimento morale vale anche per la spinosa questione dei profughi palestinesi e del loro diritto al ritorno?
«È inevitabile che sia così. Si tratta di riconoscere da parte nostra che quello dei profughi non può essere considerato, né risolto, come un problema umanitario ma ne va riconosciuta la valenza politica perché quella ferita è parte degli eventi che portarono alla nascita dello Stato d’Israele. Al tempo stesso, però, i palestinesi non possono usare la questione del diritto al ritorno come una "bomba demografica" scagliata contro l’identità ebraica di Israele. Al risarcimento storico va accompagnato quello politico ed economico, ciò che non possono chiedere è il suicidio di una Nazione».
Domani, (oggi, ndr.) a Sharm el-Sheikh si svolgerà l’atteso vertice tra Ariel Sharon e Abu Mazen. Cosa si attende?
«Due buone notizie: la proclamazione di un cessate il fuoco reciproco e l’apertura di un negoziato a tutto campo, che affronti cioè tutti i contenziosi aperti. Senza pregiudiziali da ambedue le parti».
Lei ha avuto parole di garnde apprezzamento per la determinazione con cui Ariel Sharon ha difeso il suo piano di disimpegno da Gaza.
«È il riconoscimento dovuto ad un politico che ha saputo rompere un tabù della destra nazionalista, quello dell’intangibilità di Eretz Israel, sfidando anche l’ira e le minacce dei coloni oltranzisti e di settori del suo stesso partito, il Likud. Anche qui, la valenza simbolica del gesto di Sharon rafforza il significato politico dell’impegno assunto. Il ritiro da Gaza è un primo passo ma non può essere inteso come quello conclusivo di un cammino di pace. Da compiere in due. Per questo è importante che quel ritiro sia coordinato con l’Anp di Abu Mazen e che divenga l’innesco per far ripartire l’intero processo di pace. Nel dopo-Arafat non giovano forzature unilaterali».
Vorrei in ultimo tornare all’appello degli scrittori . Il vostro obiettivo è «solo» quello di contribuire a una svolta politica in questo tormentato angolo del pianeta?
«Stavolta direi che il primo obiettivo è un altro, più specifico e, per certi versi, ancor più ambizioso: quello di aprire una breccia nella coscienza e nei sentimenti e di provocare una svolta emotiva, perché la pace, quella vera, nasce anche sull’onda delle emozioni».
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