La guerra antifascista contro la dittatura irachena e contro il terrorismo
un editoriale di Pierluigi Battista
Testata:
Data: 07/02/2005
Pagina: 1
Autore: Pierluigi Battista
Titolo: I fascisti di Bagdad
Il CORRIERE DELLA SERA di lunedì 7 febbraio 2005 pubblica in prima pagina un editoriale di Pierluigi Battista, che riportiamo:
Sul New York Times Thomas L. Friedman ha definito "fascisti" gli "insorti" iracheni che si oppongono con le armi del terrore al nuovo governo di Bagdad e hanno minacciato di morte chiunque partecipasse alle elezioni. Non guerriglieri, o terroristi, o "resistenti", secondo le definizioni imposte dalla oramai stucchevole disputa terminologica che ammorba il dibattito italiano, non senza la coda di drammatiche baruffe giudiziarie. Ma "fascisti", semplicemente e brutalmente "fascisti",. Si annuncia, con l’irrompere di questa definizione, non solo la crisi di una similitudine storica entrata prepotentemente nella consuetudine linguistica, ma il tracollo di un quadro concettuale che ha sinora fornito la più frequentata chiave interpretativa della vicenda irachena, dall’inizio della guerra in poi.
Se poi si aggiunge il giudizio formulato da Piero Fassino, secondo il quale "resistenti" sono piuttosto gli iracheni che si sono recati alle urne e non quelli che ne hanno promesso la morte nel caso si fossero avvalsi del loro diritto democratico, si può capire che lo straordinario esito della mobilitazione elettorale in Iraq ha traumaticamente sconvolto l’attitudine politico-culturale dominante, costringendo ribaltare persino il senso delle vecchie analogie storiche.
L’evocazione della "Resistenza" come paradigma esplicativo della lotta armata antiamericana in Iraq non è infatti solo un richiamo simbolico o una pur logora suggestione storiografica, ma rappresenta inevitabilmente una rilettura della vicenda irachena secondo un modulo che tende a distribuire con perentorietà il ruolo dei "buoni" e dei "cattivi". Implica infatti che le truppe di occupazione angloamericane incarnino un ruolo storicamente simile a quelle tedesche in Italia nel 43-45 e assegna ai "resistenti" uno status politico e morale simile a chi, in quel biennio cruciale, si batteva per la libertà , l’"indipendenza" del paese e la cacciata dell’invasore. Il voto della scorsa settimana ha drasticamente sbriciolato questa chiave di lettura e non solo perché è comunque un’enormità paragonare ai partigiani i decapitatori e i seminatori di terrore che infestano l’Iraq. Questo si sapeva da prima, e infatti non sono stati molti a seguire Gianni Vattimo quando ha gratificato Al Zarkawi del nobilitante epiteto di "partigiano2.
Queste elezioni abbracciate con tanto entusiasmo dal popolo iracheno hanno invece hanno invece reso quel paragone improponibile perché fanno somigliare l’Iraq del 2005 sì all’Italia, ma all’Italia del dopo 25 aprile 1945 o, se si preferisce a quella parte d’Italia progressivamente liberata ("occupata", ma "liberata ) dagli Alleati ancor prima del 1945.
Con la conseguenza che i resistenti appaiono più simili ai combattenti di Salò che ai "partigiani", testimoni armati di un passato che oppongono certo "resistenza", ma resistenza alla democrazia e alla nuova libertà. "Fascisti come gli ha definiti Friedman, appunto: in senso tecnico, se si vuole, e non per attribuire connotati demonizzanti al nemico.
Con la conseguenza che questo cambio di prospettiva dovrebbe suggerire il risarcimento simbolico per quegli osservatori di sinistra, da Bernard Lewis a Oriana Fallaci, da Paul Barman a Andrei Sullivan a Fiamma Nirenstein che nel mondo e in Italia si sono affannati a definire, in solitudine e spesso accompagnati dal dileggio, "antifascista" la guerra contro Saddam e per l’Iraq libero.
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